Negli anni del liceo la mia classe aveva un professore di filosofia che amava trasformare celebri citazioni in veri e propri tormentoni: tra le frasi che durante le lezioni ripeteva più di frequente c’erano solenni dichiarazioni come “è la stessa cosa pensare ed essere” o drammatici interrogativi tipo “perché l’essere e non il nulla?”. Credo che il motivo per cui le nostre giovani menti restavano così affascinate da quella materia sia molto semplice: sentivamo che quelle frasi ci univano all’intera storia del mondo, perché si trattava di questioni sulle quali avevano riflettuto uomini e donne di ogni epoca. È tuttavia errato credere che l’umanità si sia sempre fatta le stesse domande: prima di potersi interrogare su qualcosa, è necessario che esistano le condizioni per farlo.
Oggi ad esempio diamo forse per scontate le indagini sulla natura del tempo, sulla possibilità di viaggiare nel passato o nel futuro, e sui problemi che nascono intorno a questo tipo di speculazioni, come il famoso paradosso del nonno. Ma prima del XIX secolo nessuno aveva mai immaginato i viaggi nel tempo: perché fosse possibile farlo era necessario che arrivassero i giusti stimoli. Nell’Ottocento le prime spedizioni archeologiche misero gli esploratori di fronte ai resti di antiche civiltà, e l’invenzione della locomotiva a vapore rese più veloci gli spostamenti, il telegrafo e poi il telefono permisero di comunicare istantaneamente a grandi distanze, e tutto questo cambiò la percezione del tempo, dando inizio a un percorso che va da La macchina del tempo (1895) a Ritorno al futuro (1985).
Si può dire lo stesso delle più recenti teorie intorno alla possibilità che quella che chiamiamo realtà sia invece una simulazione. Senza l’avvento dell’informatica, di internet e dei videogiochi sarebbe stato difficile immaginare Matrix, o sentire Elon Musk dire che c’è una possibilità su miliardi che la realtà non sia una simulazione. L’argomento dell’imprenditore americano si basa proprio sui progressi fatti nel settore videoludico dai tempi di Pong alla realtà virtuale dei nostri giorni: continuando così, il progresso tecnologico ci porterà presto a realizzare simulazioni indistinguibili dalla realtà.
Persino Il problema dei tre corpi di Cixin Liu, uno dei migliori romanzi di fantascienza degli ultimi anni, non sarebbe stato lo stesso libro se l’autore non avesse potuto immaginare la simulazione di un intero mondo all’interno di un videogioco. Oltre ad aver esercitato tanta influenza, questa è un’idea che porta a ulteriori speculazioni, fino a immaginare un pericolo esistenziale per l’umanità: se vivessimo in una simulazione, e facessimo a nostra volta partire altre simulazioni di equiparabile complessità, chi ci sta simulando si troverebbe di fronte a un aumento esponenziale della capacità di calcolo e dell’energia richieste; avrà tutta quell’energia, e sarà disposto a pagare la bolletta, sempre che nella sua realtà esistano le bollette, o troverà più comodo spegnere il nostro mondo e andare a farsi una passeggiata? Ma soprattutto: anche volendo proseguire la simulazione, avrà la capacità di calcolo necessaria?
La domanda sulla capacità di calcolo è interessante perché unisce il tema della natura del tempo e il tema della natura della nostra realtà. Nel suo Essai philosophique sur les probabilités (1840), Pierre Simon Laplace scriveva:
Un intelletto che a un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se fosse sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto e il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi.
Il matematico francese non poteva che ragionare in astratto, ma l’intelletto “sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi” di cui parla, che potrebbe conoscere passato e futuro, sembra avere tutte le caratteristiche necessarie anche a simulare una realtà come la nostra. Ma fermiamoci un attimo: conoscere passato e futuro? Simulare una realtà come la nostra? Per molte persone questo intelletto sufficientemente ampio è noto da secoli e si chiama Dio; e questo naturalmente è un sapido spunto per chi pensa che la fede nella scienza abbia sostituito con una discreta precisione, diciamo pure con una precisione quasi sospetta, la fede religiosa. A essere certa comunque è la natura delle tante realtà che simuliamo a partire dalla nostra, a prescindere dal fatto che quest’ultima sia a sua volta simulata o meno, e quindi forse è meglio concentrarci su di esse.
In ambito videoludico la distinzione più utile da fare potrebbe essere quella tra: realtà simulate in cui i giocatori sono spettatori esterni; realtà simulate in cui i giocatori interagiscono con non-giocatori (o personaggi non giocanti, PNG); realtà simulate in cui i giocatori interagiscono principalmente tra di loro. Le domande che ci dovremmo fare? Interrogarci sulla nostra abilità nel generare queste simulazioni, e chiederci a cosa somiglierebbe la nostra realtà se corrispondesse a simili modelli videoludici.
Il primo tipo di realtà simulate
Le realtà simulate in cui i giocatori sono spettatori esterni sono quelle dei giochi che chiamiamo, a questo punto molto significativamente, simulazioni o godlike. In questi giochi i giocatori, essendo sprovvisti di un avatar segnaposto, sono per un certo verso assenti, e rispetto ai personaggi che li abitano restano su un altro piano di realtà, lo stesso degli sviluppatori. Mentre li guardiamo dall’alto, gli abitanti dei nostri mondi virtuali sono indaffarati in diverse attività intraprese più o meno autonomamente: a cosa pensano, hanno sogni e desideri i cittadini della mia città in Caesar III, mentre girano per le strade? Sono arrabbiati, sono frustrati gli abitanti che abbandonano le loro case perché ho dimenticato di collegarle alla rete idrica, o perché le ho lasciate andare a fuoco? I miei seguaci in Populous credono davvero che io sia una divinità, mi temono, mi sono devoti? I bambini che visitano il parco giochi che ho costruito in Theme Park, si stanno realmente divertendo? I dottori che ho assunto nel mio ospedale in Theme Hospital, imparano davvero qualcosa in sala tirocinio? Avvertono una vera stanchezza quando lasciano l’ambulatorio per andare in sala personale a giocare con il biliardo che ho comprato per loro?
La risposta più realistica a tutte queste domande è: no. Prendiamo come esempio Theme Hospital: pesa 55 megabyte, ne consuma meno di 16 di RAM, e girava senza problemi su un Pentium con 75 MHz. I programmatori non hanno previsto che quei personaggi avessero pensieri o emozioni, e del resto anche volendo non avrebbero mai avuto a disposizione la potenza di calcolo necessaria. La risposta più divertente invece è: non lo sapremo mai. I cani e i gatti pensano? Le formiche e le api? Come ci si sente a essere un pipistrello? Se la coscienza è un’eccezione, può venire in essere senza che nessuno lo abbia previsto? E dall’esterno come ce se ne potrebbe accorgere?
L’essere coscienti è uno stato talmente soggettivo che siamo a malapena in grado di parlarne in riferimento a noi stessi o, al più, alla nostra specie. È normale dunque che nei videogiochi la tendenza sia quella a rappresentare desideri, bisogni e comportamenti tipicamente umani: il più ampio catalogo è probabilmente quello simulato nella serie The Sims. Ammesso che esista una coscienza tipica dell’essere un personaggio dei videogiochi, del tutto differente da quella umana, The Sims apparirebbe ai suoi protagonisti come un inferno; è come se nel nostro mondo gli esseri umani fossero costretti a comportarsi come qualcosa che non sono, ad esempio pappagalli o tartarughe: e il risultato, in modo sorprendente e persino un po’ inquietante, somiglierebbe molto proprio a The Sims, vale a dire un mondo di glitch e di situazioni assurde, grottesche, surreali e inspiegabili spietatamente collezionate su piattaforme come Tumblr dai suoi sadici creatori. Tenendo più a freno la speculazione, potremmo limitarci a dire che l’incapacità dei sims di comportarsi in modo realistico dovrebbe iniziare a farci pensare che forse non siamo così bravi a creare simulazioni.
Il secondo tipo di realtà simulate
Questo è un dato che emerge anche dal secondo tipo di simulazioni: quello in cui i giocatori, rappresentati da un avatar, interagiscono con personaggi che appartengono al mondo del gioco. Si tratta di una mescolanza che ha evidenti punti in comune con un tema caro ai viaggi nel tempo: quello dei viaggiatori provenienti dal futuro che potrebbero vivere nella nostra epoca. Si trovano tra noi, come noi abitiamo le nostre simulazioni? E nella realtà, c’è qualcuno che in verità appartiene al mondo che ci sta simulando? Come si vede bene, queste domande sono una miniera di spunti narrativi, o di possibili teorie del complotto.
Un caso esemplare di questo secondo tipo di simulazioni è quello dei giochi di ruolo, pieni come sono di villaggi e cittadine che il giocatore può visitare tra un’avventura e l’altra, immergendosi nella loro vita quotidiana: c’è sempre una locanda in cui riposare, negozi in cui comprare cibo, vestiti o armi, personaggi pronti a raccontarci qualcosa o ad affidarci una missione. Le interazioni sono però estremamente ripetitive, e ben poco è cambiato con il passare del tempo e l’aumentare della potenza di calcolo, che poteva essere il principale limite ai tempi di Chrono Trigger; in Fable si poteva comprare casa e persino sposarsi—fino a cinque volte!—ma la strada verso il fatidico sì era costellata solamente di doni di vario valore e conseguente capacità di espandere il cuore che galleggiava sopra la testa della povera prescelta. Persino in Stardew Valley, uscito nel 2016, le relazioni si gestiscono con la sensibilità di un clicker game.
Chiaramente il gameplay di questi giochi ha altrove il suo focus, ma resta il fatto che le dinamiche dei rapporti tra giocatore e PNG non abbiano mai goduto di un’evoluzione significativa, se non nel contesto di una trama già impostata. Sembrano meccaniche programmate da un computer piuttosto che da esseri umani; eppure potrebbero anticipare la nostra realtà nel futuro: chissà come sarà la Cina dopo un secolo di social credit, o l’Europa dopo cento anni di Tinder e delle altre piattaforme che verranno. Nel frattempo abbiamo imparato che non siamo poi così bravi nel creare simulazioni, e perciò forse non dovremmo preoccuparci troppo di vivere in una realtà simulata; è verosimile, a dispetto delle dichiarazioni di Elon Musk, che tra Pong e i titoli attuali ci sia una distanza piccolissima rispetto a quella che ci separa dall’avere una simulazione con PNG profondi e credibili, per non dire pensanti. Il motivo è presto detto: mi sembra sia più una questione di intelligenza artificiale che di mera potenza computazionale, anche se quest’ultima è uno dei presupposti per la prima. Ci resta comunque l’ultima opzione: quella di essere gli unici protagonisti delle nostre simulazioni.
Il terzo tipo di realtà simulate
L’industria videoludica sta spingendo in questa direzione: Destiny e Sea of Thieves sono dei chiari segnali, e se daranno i risultati sperati c’è da scommettere che qualsiasi altra serie sandbox e open world, come Far Cry e Assassin’s Creed, si adeguerà al trend. Il vantaggio di questo terzo tipo di simulazioni, universi online persistenti principalmente pieni di soli giocatori, sta nel realismo e nell’imprevedibilità che per adesso solo la presenza di esseri umani assicura. Il grande difetto è più o meno lo stesso: c’è troppa realtà perché la simulazione sia autonoma e convincente. Intendiamoci, combattere su Marte e su Venere o navigare negli oceani su una nave pirata sono esperienze inconsuete che non fanno parte della normale routine quotidiana di nessuno che conosca; l’eccessivo peso della realtà sta nel fatto che, senza i giocatori, quei mondi sarebbero pressoché privi di vita.
Ma l’interferenza della realtà in questo genere di simulazioni va anche oltre. Un caso interessante è quello di GTA Online, la modalità multiplayer di Grand Theft Auto V. Il mondo di gioco è gigantesco e c’è un’enorme quantità di possibili cose da fare, che in genere si collocano in uno dei due estremi dello spettro che va dal caos e l’anarchia allo svolgimento delle attività previste dagli sviluppatori. Alcuni giocatori hanno cercato di ottenere un gameplay che fosse una via di mezzo con GTA RP, una mod che trasforma GTA Online in un gioco di ruolo, dove chiunque può scegliere di diventare quello che vuole. Cosa non funziona? Ad esempio, per un giocatore detective è molto difficile dimostrare di aver incastrato un giocatore criminale all’interno della simulazione e non traendo vantaggio dall’esistenza di un altro piano di realtà, e cioè magari semplicemente trovando su Twitch la registrazione completa del crimine comodamente offerta in streaming proprio dal colpevole. Su Polygon c’è una bella storia a riguardo.
A ben vedere, se in GTA RP è impossibile che la realtà non interferisca con la simulazione, è perché quella mod trasforma il gioco in qualcosa di molto simile al grande campione del genere di cui stiamo parlando: Second Life. Non c’è nessun’altra simulazione che sia stata in connessione con la realtà quanto questo mondo virtuale nel suo periodo di massima popolarità, con operazioni di scambio sia in uscita che in entrata; vediamo due casi italiani per capire meglio. Il videoclip di Bruci la città di Irene Grandi è un buon esempio di riuso e di machinima che ha portato la simulazione all’interno della realtà; il comizio virtuale di Antonio Di Pietro ha seguito invece la direzione opposta, portando il mondo reale all’interno di Second Life. Il punto debole di questo genere di simulazioni è quello evidenziato in precedenza: un ospedale ben organizzato di Theme Hospital potrebbe continuare a funzionare a pieno regime per secoli dopo l’estinzione dell’umanità, a patto che ci siano un computer e l’elettricità necessari a far proseguire il gioco; Second Life si trasformerebbe in un deserto.
Questo terzo genere di simulazioni, che potrebbe dunque sembrare il meno interessante, porterebbe però a conseguenze di un certo rilievo se fosse il modello secondo cui viene simulata la nostra realtà. Pensare che la simulazione in cui viviamo riguardi solo l’ambientazione, e che la vita sia il segnaposto per qualcos’altro, innanzitutto mette in profonda discussione la natura stessa dell’umanità; in secondo luogo, offre un’affascinante soluzione al paradosso di Fermi, trasformando i pianeti lontani del nostro universo nelle isole Figi di The Truman Show; infine, rende Antonio Di Pietro e Irene Grandi in Second Life due avatar di altri due avatar, forse solo gli ultimi anelli di una catena che potrebbe avere qualsiasi lunghezza.