Violenza estrema, folle senza cervello: la rappresentazione delle manifestazioni di protesta nei videogiochi dice molto sul modo in cui vengono percepite a livello culturale. Gli sviluppatori dei titoli tripla A tendono a incentrare le loro storie su eroi solitari che si scontrano con nemici da cartone animato, e in cui ogni cambiamento significativo viene ottenuto attraverso la violenza. La realtà di questi movimenti è invece molto meno semplice, e le storie che parlano di ribellione e di protesta dovrebbero affrontare questi temi nella loro complessità.
Pochi momenti nella storia recente hanno messo alla prova i nostri preconcetti collettivi sulla ribellione e la resistenza quanto le manifestazioni americane dell’estate del 2020. Le proteste iniziarono dopo che George Floyd, un afroamericano del Minnesota, venne assassinato da un poliziotto. Floyd era solo l’ennesima vittima della violenza poliziesca, e la sua morte ha dato il via a uno dei più grandi movimenti di protesta nella storia degli Stati Uniti. Le manifestazioni si sono protratte fino all’inverno, mettendo al centro del dibattito pubblico non solo la brutalità poliziesca, ma anche la disparità tra il modo in cui la resistenza viene rappresentata e ciò che realmente è.
Anche se si tratta di un problema comune a tutti i media, la maniera in cui la resistenza viene rappresentata nei videogiochi è una strana distorsione che parla del nostro senso di impotenza individuale; a volte si manifesta offrendoci soluzioni semplicistiche a problemi complessi, altre volte esonerandoci dal considerarci responsabili a livello personale.
Alfie Bown è un lettore in digital media, cultura e tecnologia alla Royal Halloway, University of London. Secondo lui è possibile tracciare un interessante parallelismo tra il modo in cui i media vedono i videogiochi e il modo in cui vedono le rivolte. «I videogiochi sono molto rappresentativi quando si parla della rappresentazione delle rivolte, per via del modo i cui i nostri media—in particolar modo quelli mainstream—scelgono di rappresentare le proteste come insensate e violente», dice.
«Per chi ci tiene e ci pensa con attenzione, i videogiochi non sono certo insensati o associati alla violenza. Ma volendo proseguire in questa connessione tra videogiochi e rivolte, c’è comunque un modo di vedere per cui queste cose sono considerate un gioco, o uno sfogo per le frustrazioni; uno schiacciare i bottoni senza senso. Per molti versi, il governo e i media vogliono vedere i veri manifestanti come giocatori senza cervello, ma non lo sono: sono sintomi organizzati e coerenti dell’insofferenza verso il capitalismo e il neoliberalismo».
Rappresentare una ribellione come insensata significa anche ignorare le basi ideologiche dei vari movimenti, e sottovalutare il più ampio contesto di resistenza, solidarietà e violenza poliziesca dal quale le proteste emergono. Lo sviluppatore indipendente Leonard Menchiari ha provato a correggere alcune di queste cose nel suo videogioco Riot: Civil Unrest. Il gioco rivisita alcune rivolte famose della storie recente—come quelle della primavera araba, quella No TAV in Italia, e il movimento degli Indignados in Spagna—sia della prospettiva dei manifestanti che della polizia.
Facendo ricerca per il gioco, Menchiari ha partecipato a numerose manifestazioni in giro per il mondo. «Ogni nazione ha i suoi problemi, e ogni cultura ha il suo modo di affrontarli», racconta. «La sola cosa in comune a tutti questi eventi è il modo in cui inizi a capire la differenza tra l’essere un individuo e l’essere parte di un organismo collettivo molto più grande: la massa».
Ciò in cui si distingue Riot: Civil Unrest, tuttavia, sono i momenti prima delle rivolte, che mostrano i manifestanti come persone. Nella cutscene di apertura della campagna No TAV, possiamo vedere i manifestanti che osservano i movimenti della polizia e usano i fuochi d’artificio per avvertire i loro compagni, il cui accampamento sta per essere raggiunto da una squadra antisommossa.
Nelle scene successive vengono mostrati i manifestanti riuniti attorno a un falò a tarda notte, prima che si debbano svegliare sul freddo asfalto di un’autostrada bloccata, e prepararsi a un’altra lunga giornata in prima linea. Sono scene silenziosamente potenti, che mostrando la dedizione e l’ingegnosità dei movimenti di resistenza. «Le cutscene si basano su cose che sono realmente avvenute», dice Menchiari. «Ogni evento rappresenta situazioni viste di persona, oppure selezionate attraverso video o testimonianze di persone che le hanno vissute direttamente».
La nozione di eccezionalismo è diffusa nella storia. Che si tratti della leadership incrollabile di Winston Churchill o della saggezza divina dei padri fondatori, la visione popolare di queste figure rivela come ci aggrappiamo a storie di individui apparentemente eccezionali. Ma questi miti degli eroi classici svalutano il coraggio e il sacrificio della gente comune. La confortante bugia secondo la quale non abbiamo i mezzi per salvare il mondo aiuta queste storie a farci accettare il nostro senso di impotenza.
I videogiochi tendono ad alimentare questo mito. Detroit: Become Human di Quantic Dream è un esempio piuttosto chiaro. L’androide Markus, ingiustamente accusato di omicidio, si ritrova con un gruppo di reietti non umani, posti ai margini della società. In seguito al suo arrivo, però, gli androidi organizzano una resistenza sotto la sua leadership, e Markus diventa una figura messianica dalla quale la resistenza è interamente dipendente. “Tu sei il solo che ci può guidare!”, dice uno degli androidi. “Se tu muori, la nostra causa muore con te”.
I parallelismi tra i movimenti americani per i diritti civili e la difficile situazione degli androidi in Detroit: Become Human è molto più che sottintesa. Quantic Dreams parla di temi in comune come la violenza poliziesca, la segregazione e l’oppressione delle classi sociali più svantaggiate, ma narra la storia di un martire eroico e della sua banda di seguaci, più che di un movimento collettivo. Alla fine la battaglia per la libertà degli androidi si riduce a pochi violenti scontri con la polizia, e implica che gli androidi sarebbero impotenti senza il loro leader.
Peter Ó Máille è un attivista e un organizzatore della Anarchist Federation. Sostiene che è proprio in questo modo che i media rappresentano i movimenti, «riducendo il racconto di milioni di persone a una manciata di modelli». «L’attivismo e l’organizzazione sono quasi sempre e ovunque movimenti ad ampio spettro con una tra tante possibili pratiche per strutturarsi e avere leadership informali», dice. «È una combinazione tra persone ordinarie, che lavorano insieme per ottenere risultati straordinari, di solito attraverso l’idea di una coesione politica e di una varietà di tattiche a seconda della bisogna».
Watch Dogs: Legion presenta l’abbattimento di un regime autoritario come un’attività divertente: si combatte la propaganda, si denuncia qualche crimine di guerra, si violano un paio di database del governo—in genere lasciandosi alle spalle un po’ di cadaveri. Come nota Bown, i giochi preferiscono l’idea della resistenza come distruzione all’idea della resistenza come organizzazione, e Watch Dogs: Legion fa lo stesso—una tendenza dovuta a ciò che viene ritenuto essere più adatto a creare un’esperienza di gioco divertente.
«Penso si dia per scontato che far crollare un edificio sia intrinsecamente divertente, mentre creare un’organizzazione lo sia meno, ma in realtà dubito che ciò sia vero», dice Bown. «Ci sono così tanti edifici da far esplodere che potrei esserne annoiato; sono sicuro che altri giocatori la pensano allo stesso modo. Forse i giochi dovrebbero iniziare a mostrare la resistenza come organizzazione».
In superficie, Watch Dogs: Legion prova a rappresentare queste idee di organizzazione e di solidarietà, mettendo una certa enfasi sul reclutamento di “persone comuni”. Ma la decisione di sostituire un protagonista tradizionale con la legione del titolo è un trucchetto che funziona poco. Ogni membro operativo esiste nella sua bolla, lavora al meglio delle possibilità di un’ottima IA, e non collabora mai con i suoi compagni.
Inoltre Watch Dogs: Legion penalizza il giocatore per il reclutamento di personaggi diversi dai più abili e dai meglio equipaggiati, sminuendo quel tipo di solidarietà intersezionale che è facile trovare nelle vere rivolte. Alla fine il risultato è che la battaglia per la liberazione di Londra dalla tirannia corporativa si compone di episodi isolati, e si basa su una manciata di personalità eccezionali.
Bown, presente nel gioco all’interno della radio in-game, dove parla delle macchinazioni del fascismo, sottolinea come il ricorso all’eccezionalismo sia una «caratteristica tipica dei videogiochi», e anche in quei casi in cui c’è un’apparente critica ai sistemi oppressivi, la tendenza è quella di rinforzare nozioni discutibili circa il valore e il merito individuale.
«Watch Dogs: Legion è in apparenza un’opera diversa e intersezionale», dice. «Ma essenzialmente non sta sognando affatto un tipo di organizzazione sociale differente». Nel corso del gioco gli atti di resistenza sono principalmente operazioni di spionaggio di alto livello o azioni di forza bruta. Ci sono degli accenni a forme più ampie di resistenza e di organizzazione, come le banche del cibo o manifestazioni poco partecipate nelle strade di Londra; ma in genere bisogna sventare malvagi piani che minacciano di trasformare tua nonna in un computer, o di mettere droni di sorveglianza nei tuoi cereali».
I videogiochi sono fin troppo attaccati a queste idee di resistenza, sostiene Bown. Alcune delle missioni di Watch Dogs: Legion, in cui si combatte la propaganda, rappresentano la città come «uno spazio simbolico per cui lottare», ma viene comunque incamerata la percezione dominante della protesta violenta e insensata attraverso l’enfasi sull’azione e la mancanza di un’ideologia che punti a qualcosa di diverso rispetto al ripristino dello status quo; un punto sul quale politici e anarchici concorderebbero. «La misura della frustrazione nei confronti di questa forma di capitalismo neoliberale è forse data proprio dalla voglia di vederla crollare pur avendo difficoltà a proporre alternative», dice Bown.
Tonight We Riot, dello studio texano Pixel Pushers Union 512, invece, racconta una rivoluzione guidata dai lavoratori contro l’oppressivo sistema capitalista. Questo titolo in pixel art mette chi gioca nei panni di una moltitudine riottosa, fatta di persone che si battono contro la macchina capitalista come dei Pikmin in rivolta. «Volevamo essere sicuri che tutti i giocatori sapessero di far parte di un gruppo—che loro, i loro amici, i vicini, i colleghi del lavoro erano tutti eroi a pieno titolo, ognuno contribuendo come può a formare un movimento capace di resistere ad attacchi di ogni tipo», racconta Ted Anderson, membro dello studio, che adotta un sistema cooperativo.
Presentando problemi con i quali è facile identificarsi, come «un lavoro schifoso, una paga bassa, la difficoltà a far quadrare i conti, la stanchezza continua», Tonight We Riot propone una narrativa in cui si combattono le ingiustizie del mondo reale, come lo sfruttamento dei lavoratori e le disuguaglianze economiche. A partire da tali premesse, offre una soluzione: rivoltarsi in solidarietà con coloro che si trovano nelle stesse condizioni. Pur basandosi ancora su fantasie di potere, la prospettiva è almeno il potere di un’azione collettiva.
«Volevamo mostrare come nessun singolo possa far partire una rivoluzione, ma ci sia bisogno del coinvolgimento di tutti—con un ruolo spesso piccolo, quasi mai limitato solo allo scendere in strada, ma comunque prezioso a modo suo», dice Anderson. Osservando un quadro più ampio rispetto ai videogiochi tripla A e ai media mainstream, possiamo dunque trovare una rappresentazione più completa di cosa sia la resistenza: riguarda l’organizzazione e la costruzione di una solidarietà intersezionale, molto più che lo scatenare la distruzione. In realtà, l’idea che la resistenza sia distruttiva viene diffusa da coloro che ne sarebbero travolti.
Lo scorso anno in Polonia, a seguito di una sentenza del tribunale che aveva reso illegale l’accesso all’interruzione di gravidanza, le donne di tutto il paese hanno scioperato. Il governo ha sostenuto che la decisione non poteva essere invertita, e le proteste furono presentate come un tentativo di “distruggere” la Polonia. Dopo appena due settimane, il governo ha rimandato l’attuazione della sentenza e la Polonia esiste ancora.
Dopo che il governo del Regno Unito ha annunciato che non avrebbe esteso i sostegni per nutrire i bambini svantaggiati durante la pandemia di coronavirus, la gente è immediatamente intervenuta. Le imprese locali hanno iniziato a offrire pasti gratuiti ai bambini e i manifestanti hanno compiuto azioni dimostrative come lasciare piatti vuoti fuori dagli uffici di coloro che avevano votato a favore dei tagli. Insieme al supporto di attivisti famosi come Marcus Rashford, il governo ha ribaltato la sua decisione e ha esteso il sostegno alimentare.
Ó Máille, oltretutto, sostiene che le narrazioni eroiche inviano questo messaggio: “tu a casa non sei così eccezionale”. Così si riduce il cambiamento sociale a una fantasia lontana praticabile quanto cavalcare in battaglia con il tuo amico elfo sul dorso di un warg. «Le Pantere Nere hanno avuto così tanto successo perché hanno dato da mangiare ai bambini e hanno fornito programmi educativi», continua. «Nel Regno Unito, all’inizio del Covid sono nate circa 400 reti di mutuo soccorso e la solidarietà sul posto di lavoro si è ampliata. Il vero cambiamento sociale e praticamente ogni rivoluzione sono il frutto del lavoro di una moltitudine di individui e di “voci dimenticate“».
A meno che un gioco non miri esclusivamente a raccontare una storia di rivolta, gli sviluppatori sono obbligati a prendere scorciatoie nel modo in cui vengono rappresentati questi temi. Una rivoluzione richiede anni: è difficile da racchiudere in un gioco di 20 ore. Ma ciò che vediamo nella maggior parte dei videogiochi non somiglia tanto a una scorciatoia, quanto a una ripavimentazione delle strade. Come scrive il filosofo francese Guy Debord nel suo libro La società dello spettacolo:
Il flusso delle immagini travolge tutto, e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile; a scegliere dove andrà la corrente e anche il ritmo di ciò che dovrà manifestarsi in essa, come eterna sorpresa arbitraria, senza voler lasciare tempo alla riflessione, e prescindendo completamente da ciò che lo spettatore ne può capire o pensare. In questa esperienza concreta della sottomissione permanente sta la radice psicologica dell’adesione così generale a ciò che è presente; adesione che arriva a riconoscergli ipso facto un valore sufficiente. Ovviamente il discorso spettacolare tace, oltre a ciò che è propriamente segreto, tutto ciò che non gli conviene.
Ma gli sviluppatori come possono provare a impiegare i temi della resistenza in modo efficace e rappresentativo? Attraverso giochi di costruzione di città che «non si basino totalmente sul capitalismo e sull’ideologia del colonialismo», suggerisce Anderson. Menchiari, invece, incoraggia gli sviluppatori interessati alle rivolte ad «andare a vedere le cose con i propri occhi», perché non si tratta solamente di «punk violenti con la bandana che lanciano molotov. Nelle rivolte non c’è uno stereotipo specifico, poiché la massa è costituita da ogni tipo di persona, di ogni età, razza e sesso, con una sola cosa in comune: la rabbia verso la menzogna e l’ingiustizia».
Se lo scopo dell’arte è riflettere alcune verità riguardo l’umanità, i giochi moderni ci mostrano ben poco quando si tratta di oppressione e resistenza. Nel contesto dell’oppressione, la tipica narrativa fantastica sull’eroe è un ostacolo alle idee di resistenza, e priva le storie del loro vero potere. I giochi ci insegnano che solo individui mitici possono ottenere il cambiamento, e noi interiorizziamo questo messaggio. Combattere l’oppressione diventa responsabilità di qualcun altro, perché ci mancano l’eroismo e la leadership eccezionali richiesti. Questa è una lezione che dobbiamo disimparare.