Comprendere e interpretare il mondo, così come interagire con esso, è solamente una questione di punti di vista. Intendo questa espressione in senso letterale: per intenderci, il punto di vista degli esseri umani è posto in media a poco meno di due metri da terra. Potendo guardare il mondo da cinque o sei metri di altezza come una giraffa, oppure camminare indifferentemente su piani orizzontali, verticali o capovolti come le formiche, o ancora disporre pienamente della tridimensionalità dello spazio come gli uccelli, la nostra cultura e la nostra società sarebbero del tutto differenti. Vale la stessa cosa per i mondi simulati: la scelta tra una visuale in prima o in terza persona è un momento di fondamentale importanza nelle fasi iniziali della progettazione di qualsiasi gioco in 3D.
La prima persona è quella tradizionalmente più tipica del medium videoludico, e mira a proiettare il giocatore direttamente all’interno del mondo di gioco, senza alcuna mediazione: sullo schermo appare solamente ciò che vede il protagonista, che è un personaggio senza corpo con cui il giocatore è chiamato a identificarsi in maniera assoluta e completa. Funzionano bene perciò sensazioni fisiche e corporee, e se ne potrebbero fare tanti esempi, dallo smembramento dei nemici in Doom con effetti gore e splatter all’incredibile primo livello di Wolfenstein II: The New Colossus, in cui tutta l’azione di svolge con Blazkowicz costretto su una sedia a rotelle, fino alle meccaniche di gioco della serie Metro legate al respiro e all’utilizzo di maschera e filtri in ambienti in cui l’aria è contaminata.
La terza persona è più ambivalente: a ben vedere può essere considerata classica relativamente alla storia videoludica, perché nei giochi 2D la presenza di un avatar segnaposto è sempre stata e sempre sarà chiaramente ineludibile—e non a caso tutti i titoli che hanno fatto il salto dalle due alle tre dimensioni hanno scelto (o meglio: conservato) la terza persona, a partire da Super Mario. In ambito 3D invece la visuale in terza persona si affida senz’altro all’esperienza pregressa del giocatore come spettatore e fruitore del medium cinematografico, dal quale mutua il meccanismo di identificazione, che si innesca a partire da un corpo altro, quello del protagonista, per estendersi poi a una percezione più ampia dell’ambiente circostante, non più ristretta dal campo visivo ma dall’inquadratura—la cui scelta spetta poi al giocatore stesso.
Alle sensazioni tutte fisiche della prima persona si sostituisce perciò, nella terza, la percezione di un corpo altro—non a caso ne vediamo quasi sempre la schiena, ovvero ciò che non possiamo osservare di noi stessi—e dell’ambiente in cui si trova. La visuale in terza persona di conseguenza è la scelta da fare quando è importante il rapporto tra le due componenti: il corpo di Lara Croft e gli scenari di rovine e natura incontaminata che attraversa arrampicandosi, saltando e nuotando, oppure il corpo dei protagonisti dei vari capitoli di Grand Theft Auto e i vivaci paesaggi urbani pieni di opportunità in cui si muovono, o ancora il corpo dell’agente 47 nella serie Hitman e gli spazi in cui deve infiltrarsi per raggiungere gli obiettivi da assassinare. Hitman, già vent’anni fa con il suo esordio, fa però qualcosa in più: mentre rappresenta questo rapporto, ne mette costantemente in discussione le premesse e le dinamiche.
La parola chiave è il verbo che ho usato per definire l’obiettivo di Hitman: infiltrarsi. L’agente 47 non si trova quasi mai in ambienti in cui la sua presenza risulta naturale; il gameplay di Hitman si basa in effetti proprio sull’elaborazione e la messa in atto di un piano d’azione che faccia sembrare la presenza dell’agente 47 in contesti a lui assolutamente estranei un fatto del tutto ovvio e incontestabile. La meccanica di gioco principale in tal senso è quella del travestimento. In Hitman, come nella vita vera, il riconoscimento di un ruolo sociale e la conseguente accettazione in determinati gruppi e spazi passa per l’abbigliamento—del resto, non si userebbe l’espressione “l’abito non fa il monaco” se questa non esprimesse una verità controintuitiva rispetto alle abitudini e alle usanze comuni.
Lo sguardo del giocatore verrà così distolto dal corpo del protagonista e attirato non tanto dagli ambienti circostanti—un appiglio per continuare una scalata in Tomb Raider, o una buona via di fuga dopo aver commesso un crimine in GTA, per riprendere gli esempi precedenti—ma dagli altri corpi: una partita a Hitman comporta l’osservazione del comportamento e delle routine di centinaia di personaggi, allo scopo di impersonarne il ruolo sociale dopo averne indossato gli indumenti. Hitman tuttavia non si limita a un discorso sulla naturalezza: non si tratta solamente del fatto che l’abbigliamento adeguato a trovarsi in spiaggia non lo è più quando si entra in chiesa, o in generale del fatto che lo stesso tipo di vestiario può portare, in contesti differenti, all’esclusione o all’accettazione da parte di diversi gruppi sociali. Esiste una progressività negli spazi che Hitman integra nel level design fino a farla corrispondere al processo di avvicinamento agli obiettivi dell’agente 47.
Mette Podenphant Andersen, level designer di IO Interactive, intervistato da PC Gamer qualche tempo fa ha spiegato quanto il suo lavoro sia ispirato al pensiero di sociologi come Pierre Bourdieu e Erving Goffman, e ha mostrato in che modo si suddividono gli spazi in Hitman: il punto di partenza è quasi sempre uno spazio pubblico generico, come ad esempio una strada o un mercato, in cui è possibile muoversi liberamente e iniziare a pianificare le prossime mosse. La maggior parte delle opportunità a questo punto è data da spazi ancora aperti al pubblico ma dedicati a particolari attività: in qualità di ospite di un albergo, oppure di invitato a un evento mondano o sportivo, l’agente 47 è sempre libero di muoversi, ma può venire in contatto con un terzo tipo di spazio, quello lavorativo di cuochi, camerieri, giardinieri, tecnici, addetti alle pulizie e così via, a cui possono essere sottratte le relative divise, oltre che le attrezzature di lavoro—e in particolare quelle potenzialmente letali.
Le cesoie di un giardiniere potranno trasformarsi nelle mani dell’agente 47 in un’arma molto pericolosa; volendo agire in maniera più indiretta, un prodotto assolutamente da non ingerire come il veleno per topi potrà avere effetti interessanti se abbiamo intenzione di presentarci in seguito nelle cucine in qualità di cuochi. Un tecnico invece può manomettere un quadro elettrico oppure allentare i cavi che sostengono un carico molto pesante, e nei suoi panni potremo simulare un incidente—la soluzione ideale se ci teniamo a non destare il minimo sospetto e a mostrare una certa eleganza.
Con il travestimento giusto è possibile accedere a un primo grado di spazi riservati, che sono come abbiamo visto quelli lavorativi. A volte il passo successivo è trovare il modo di accedere a un quarto e un quinto tipo di spazi, quelli privati e infine quelli personali. Spesso in questi casi sarà utile un ulteriore travestimento, perché non basterà più simulare l’appartenenza a una generica categoria lavorativa, per quanto adeguata al contesto, ma si renderà necessario impersonare un ruolo unico e caratterizzato da un più elevato livello di fiducia professionale o personale: un medico, un diplomatico, un giornalista—il mondo è pieno di appuntamenti fissati, di persone attese, di incontri programmati.
L’interpretazione del genere stealth di Hitman è particolare: non si tratta tanto di non essere visti, quanto di non essere riconosciuti perché perfettamente calati in un ruolo e capaci di adeguarci alle norme sociali che ne regolano l’appartenenza. La domanda quindi è sempre: “a chi devo somigliare e come devo comportarmi perché la mia presenza sia accettata e risulti naturale in quel determinato contesto?”. In Hitman dobbiamo sempre avere presente l’aspetto del nostro personaggio per poter portare avanti il piano che abbiamo in mente. In altre parole, Hitman è un gioco inconcepibile con una visuale in soggettiva: Tomb Raider e GTA in prima persona perderebbero qualcosa ma non si faticherebbe a immaginarli, mentre nella serie di IO Interactive la terza persona, più che essere una conseguenza, è una parte del game design.
La suddivisone degli spazi che abbiamo preso in esame si presta inoltre a porre le basi del level design. Ancor prima di decidere quali categorie lavorative generiche e quali personaggi unici collocare in un livello, e di stabilire attraverso quali legami si possa tramite loro arrivare agli obiettivi da eliminare, la scelta cade infatti su quali spazi rappresentare. La progressività che abbiamo esaminato può essere spezzata o interrotta, dando vita così a un differente spettro di approcci possibili e di opportunità da sfruttare. Grazie alla scelta di pubblicare separatamente i vari scenari degli ultimi due reboot della serie, possiamo farci un’idea delle preferenze dei giocatori: su Metacritic ad esempio tra gli episodi della versione PC di Hitman del 2016 il voto più basso lo ha Colorado, uno scenario totalmente privo di spazi pubblici in cui l’agente 47 deve affrontare un ambiente da subito ostile, mentre il più alto lo ha Sapienza, che viene considerato il migliore per la sua complessità ma anche perché è il più aperto.
Questo dato mostra come gran parte del divertimento di Hitman consista nel partire dagli spazi pubblici e da lì capire, anonimi e mescolati nella folla, in che modo accedere a contesti sempre più ristretti, come farebbe un vero agente segreto. Pochi giorni fa IO Interactive ha annunciato di aver acquisito una tra le licenze cinematografiche più ambite e prestigiose in assoluto, quella di 007: considerata la bontà del level design degli scenari più riusciti di Hitman, di cui peraltro è in arrivo un terzo capitolo, James Bond si trova sicuramente in buone mani.