Ci si mette davanti a un televisore, o a un PC, o a uno smartphone o un tablet e si inizia a guardare una performance videoludica giocata da altri. Per molti è un paradosso: i videogiochi vanno giocati. Altrimenti perché chiamarli così? Piuttosto, meglio guardarsi un film. Il videogioco, inteso in maniera classica, prevede una fruizione “ergodica”, cioè attiva, in cui l’utente metta in campo le proprie risorse cognitive; è un’opera in cui è egli stesso a mandare avanti la narrazione, superando ostacoli con la propria destrezza.
Eppure, il Game Video ha talmente preso piede che è bastato pochissimo tempo per definirne una vera e propria fenomenologia. Di cui Matteo Bittanti ed Enrico Gandolfi si sono occupati mettendo insieme vari saggi sull’argomento, e approfondendo loro stessi, nel libro “Giochi Video: Performance, Spettacolo, Streaming”, di cui abbiamo già proposto l’introduzione, alcune fra le tematiche più importanti.
Esiste il rischio di un sorpasso del game video sul videogame?—per rischio intendo la perdita di una peculiarità ergodica del videogioco, che diventerebbe così la base per uno spettacolo cui poter solamente assistere, anche alle luce dei dati sul tempo speso dagli utenti su piattaforme come YouTube e Twitch, piuttosto che dedicarsi al giocare. E questo scenario, effettivamente, sarebbe un male? Nei saggi di Wilson e Sharp si mettono in risalto proprio le componenti “attive” del videogioco, che col dilagare della componente meramente scopica potrebbero scomparire; si tornerebbe così da un new media a un old media?
Matteo Bittanti: Tutti i new media rimediano funzioni, caratteristiche ed elementi degli old media: non a caso, secondo McLuhan, il contenuto di un nuovo mezzo di comunicazione è sempre quello del medium precedente. Nel caso specifico del videogioco, la compresenza di elementi interattivi e non-interattivi è tutt’altro che nuova: si pensi alle cutscene che rimediano forme narrative televisive e cinematografiche e che de facto sospendono momentaneamente l’interazione—causando talvolta fenomeni di dissonanza ludonarrativa—ma anche al replay, che riprende una delle convenzioni dello sport mediatizzato: anche in questo caso, l’interazione è temporaneamente interrotta da una sequenza audiovisiva e il giocatore è riconfigurato come spettatore (o spett-attore). Se la cutscene complementa, legittima, giustifica l’interazione, il replay ne riprende, ripete e spettacolarizza alcuni momenti. La prima è sceneggiata ex ante—nella maggior parte dei casi—mentre il replay è innescato dalle azioni del giocatore. Andrebbero poi citati tutti quei videogiochi, per esempio gli sparatutto in soggettiva multiplayer, che offrono momenti di fruizione audiovisiva ai giocatori eliminati dalla competizione: si pensi alla killcam. Com’è noto, la killcam mostra la morte di un giocatore dal punto di vista del killer: l’evento è visualizzato in prima o in terza persona, anche se la visuale predefinita è la soggettiva. Attraverso la killcam è possibile comprendere come un giocatore è stato eliminato, riconoscere forme di cheating o localizzare posizioni nemiche. Alcuni videogiochi hanno sviluppato il potenziale della killcam in modo grottesco: Sniper Elite propone una visuale ravvicinata che si attiva quando il giocatore mette a segno un colpo particolarmente spettacolare. La camera virtuale segue la traiettoria del proiettile per mezzo di una sorta di bullet time che mostra la penetrazione della pallottola nel corpo dell’avversario, perforando ossa e organi interni. Si potrebbe affermare che la killcam è l’obiettivo dell’interazione nonché il suo climax, un po’ come il money shot della pornografia.
Andrebbero inoltre citati tutti i videogiochi che de facto incorporano le logiche cinematografiche—montaggio, in primis—nell’interazione propriamente detta: è il caso degli editor video di Grand Theft Auto, di The Sims, etc. Anche in questo caso, l’attività ludica è finalizzata a una sua traslazione sotto forma di audiovisivo (machinima), con la differenza che se nella killcam la selezione dei contenuti e il montaggio è realizzato in automatico, dalla macchina, il machinima presuppone e insieme legittima la funzione autoriale e creativa del giocatore-regista. Infine, trovo molto interessante l’integrazione delle modalità interattive e spettatoriali nei videogiochi di ultima generazione: è il caso di Forza Horizon 4 che premia il giocatore che trasmette la propria performance via Mixer—la piattaforma di streaming acquistata da Microsoft nel 2016—offrendo delle ricompense simboliche in-game. Questa inedita funzione è stata preceduta da un update al sistema operativo di Xbox che integra l’opzione “stream to Mixer” incentivando, e insieme facilitando, il live streaming. Parafrasando McLuhan, oggi il medium è il canale. Per rispondere alla tua domanda, più che di avvicendamento si dovrebbe parlare di un avvicinamento tra video game e game video, tra interazione e spettatorialità.
Enrico Gandolfi: Non credo sinceramente che sia questo il caso. La stessa distinzione tra old e new media è relativa e dinamica piuttosto che scolpita nella roccia. Il videogioco si evolve, si espande e si articola in modi nuovi e inediti. I confini formali e testuali sono fatti per essere superati, e mai come ora assistiamo a consumi ibridi—e ibrido è, ancora una volta, un tag volatile. Spesso si ragiona in termini di trade-off: se aumento il lato interattivo perdo quello spettacolare, e viceversa. Penso sia un retaggio del passato, figlio del nostro bisogno di inquadramenti definiti. Senz’altro stiamo assistendo a una maggiore fluidità nel passaggio da una forma all’altra, da un coinvolgimento a un altro, ed è sinceramente un bene. Paradossalmente, questo lato performativo del settore sta attraendo nuove leve, espandendo il bacino di utenza e contribuendo alla stessa maturità del medium (egodico invece che ergodico?). Per esempio, i machinima non hanno indebolito la game industry, semmai il contrario. Interazione, consumo tecnologico, pratiche mediali… sono concetti in evoluzione, e il videogioco deve mutare con essi. Non è perdita identitaria quanto un aumento del proprio portato, del relativo obiettivo.
Nel saggio su Twitch, parli di numerose iniziative della community a favore di utenti disabili, che in contesti appropriati riescono a fare dei loro handicap un punto di forza, riuscendo a essere ammirati per le loro abilità, e non compatiti o considerati “diversi”; a distanza di un anno dalle ricerche che hai effettuato, qual è la situazione oggi? Ci sono in Italia delle iniziative simili?
Enrico Gandolfi: La situazione è assolutamente migliorata, e ormai assistiamo a un nocciolo duro di streamer disabili con un nutrito seguito di follower. Credo che l’obiettivo di sdoganare questo “movimento” sia riuscito anche nella relativa “normalizzazione” dei relativi spettacoli, in cui lo stesso special need non viene più enfatizzato ma, anzi, passa spesso in secondo piano. Aggiungo che in un periodo dove si parla tantissimo di tossicità mediale, la community in questione è caratterizzata da una correttezza significativa e una prontezza a rispondere al troll di turno esemplare. Dal canto suo, Twitch.tv continua a supportare iniziative ed eventi volti a dare a questo fenomeno il giusto riconoscimento. In Italia siamo ancora indietro su questo versante, ma sono convinto che anche grazie a studi e ricerche sul tema le cose cambieranno presto.
Considerando Twitch nel suo insieme, pare che questa piattaforma sia in ascesa continua, soprattutto grazie a giochi che sembrano costruiti ad hoc (vedi Fornite) e personaggi che ne hanno capito appieno il funzionamento (per esempio Ninja); ma è possibile che Twitch possa essere una bolla pronta a esplodere sotto il peso dell’ego delle migliaia e migliaia di persone che, sulle orme dei più seguiti e più noti, cercheranno la loro fetta di audience—e soldi?
Matteo Bittanti: La mercificazione dell’esperienza videoludica è un fenomeno che non nasce con Twitch, anche se il live streaming lo ha indubbiamente radicalizzato: si basa essenzialmente su logiche di quantificazione per cui more is better, dove more indica sia il numero di spettatori da collezionare, sia la durata dei video. In questo ambito, ogni interazione è finalizzata all’auto-promozione, alla transazione economica e alle pratiche di product placement. Detto altrimenti, come nel caso della gamification, c’è poco di ludico: in entrambi i casi, il gioco è mezzo, non fine. Com’era lecito attendersi, le particolari idiosincrasie del canale di distribuzione hanno influenzato le logiche di game design: Fortnite ne è il risultato. Parafrasando Susan Sontag (1977), secondo cui tutta l’arte aspira alla condizione della fotografia, oggi tutti i videogiochi aspirano alla condizione dello streaming.
Enrico Gandolfi: Il fenomeno di Twitch.tv è indubbiamente eclatante. In quanto piattaforma sta contribuendo una nuova definizione di videogioco, il tanto discusso game-as-service. Ma non è la sola forza in questa direzione, e rendere un prodotto più intellegibile da comprendere non porta sempre a uno svilimento del medium stesso. I numeri di Fortnite sono incredibili soprattutto sotto il profilo dei giocatori attivi, e nei media studies da oltre 20 anni (e si può arrivare agli ottanta) si parla di audience in grado di farsi parte produttiva e creativa. Questa salita/discesa in campo non ha creato nessun cortocircuito ma anzi reso lo scenario mediale maggiormente complesso e articolato (e oserei dire partecipativo, con tutti i distinguo del caso). Si pensi a YouTube e alle native celebrities che coesistono con milioni di utenti. Ora, può essere che Twitch.tv un giorno scompaia, ma il suo modello (o evoluzioni dello stesso) rimarrà ed è già, per tanti versi, storia.
Il saggio di Sharp ha un tono sprezzante verso l’aspetto economico dell’industria videoludica, mentre diventa malinconico quando parla dei suoi amati spazi: il gioco video non mette forse una pietra tombale sul possibile ritorno delle sale arcade?—di contro: sarebbe auspicabile un loro ritorno?
Matteo Bittanti: In quanto studioso dei media, ciò che trovo particolarmente stimolante nel contributo di Sharp sono le riflessioni sull’evoluzione—o involuzione—degli spazi dedicati al divertimento. Per qualche decennio, gli arcade hanno rappresentato una soluzione architettonica a un problema tecnologico che è stato risolto dalla tecnologia stessa. L’innovazione ha infatti annullato la supremazia tecnica dei coin-op e messo in crisi il modello di business su cui poggiava un’intera industria. L’introduzione di Sony PlayStation nella prima metà degli anni Novanta ha segnato l’inizio della fine per il consumo del videogioco in spazi extra-domestici. Nel decennio successivo, l’ascesa del mobile gaming ha accelerato la crisi. Oggi gli arcade sono tornati sotto spoglie differenti: per esempio, sotto forma di third spaces dedicati al retrogaming, nel contesto di bar e pub. In questi contesti, il gioco diventa puro lubrificante sociale. Questo fenomeno—che presenta evidenti elementi nostalgici—è particolarmente diffuso negli Stati Uniti. Penso al successo di locali molto hipster come EightyTwo o Button Mash a Los Angeles, Neon Retro Arcade a Pasadena, Barcade a Brooklyn, Quarters Bar + Arcade a Salt Lake City, Ground Kontrol a Portland solo per fare qualche esempio.
Come si evince dai nomi, questi spazi celebrano il passato videoludico: vintage, lo-fi, low key. Qui l’arcade è arcaico. Un secondo trend, per certi versi antitetico, anticipa il futuro. Mi riferisco ai neo-arcade dedicati alla realtà virtuale oppure alle competizioni di eSports, due generi che richiedono macchine costose e altamente performanti, inaccessibili alle masse: è il caso del MOBA, a Torino e Milano. Studiare l’ascesa, declino e trasformazioni degli arcade può aiutarci a comprendere l’itinerario evolutivo di altri spazi dedicati all’intrattenimento, come il cinema, che oggi attraversa una fase di transizione. Lo streaming di Netflix, Amazon, Hulu etc. ha moltiplicato l’offerta di contenuti audiovisivi a prezzi irrisori, esacerbando le difficoltà dell’industria cinematografica. La crisi delle sale indipendenti di San Francisco—che nel giro di un decennio si sono più che dimezzate—dovrebbe far riflettere sul futuro del medium nel momento in cui lo smartphone è diventato, per una generazione, un cinema portatile a tutti gli effetti. Trovo affascinante, infine, che oggi molte competizioni di eSports abbiano luogo nei multiplex (penso alle iniziative di Cinemeccanica, come ESPARENA).
Enrico Gandolfi: Ci sono diversi modi di affrontare un tema del genere, che chiama in causa molteplici elementi generazionali e socioculturali. Il fattore nostalgia gioca un ruolo preponderante, e recuperare i luoghi della nostra infanzia è bisogno sentito da molti e sfruttato dall’industria stessa (da versioni aggiornate di vecchie console ai ritorni di fiamma su Kickstarter). In tutto il mondo le sale arcade stanno rifiorendo, ed è senz’altro un bene. Ne beneficiano l’archeologia videoludica e l’intrattenimento digitale. Non bisogna tuttavia scadere nel tipico slancio reazionario (anche subculturale) che vede socialità e condivisione patrimonio della golden age. La memoria inganna, e talvolta limita la visione. Per esempio, gli eSports sono sempre più organizzati quali eventi live capaci di raccogliere migliaia di spettatori. Molte università americane hanno spazi dedicati al lato performativo del videogioco, e i contesti di fruizione si sono moltiplicati invece che restringersi. Sul fronte economico, mai come ora assistiamo a produzioni indipendenti che tentano di porre in essere visioni alternative se non controculturali. Insomma, da quanto Sharp ha scritto il suo bell’articolo alcune—se non molte—cose sono cambiate. La domanda piuttosto è se il recupero a cui stiamo assistendo (cotanta retro-cultura—si pensi a Stranger Things e Ready Player One) sia operazione legittima o meno, fedele o distorta.
Le arene degli eSports sono ad oggi gli spazi più grandi dedicati alla pratica del videogioco, ma la partecipazione di massa è, di nuovo, spettatoriale; non c’è anche qui il rischio che il giocatore possa diventare man mano una figura Pro, a discapito di un giocatore comune, dalle abilità normali, che diventerebbe così spettatore puro—e, forse, anche giocatore? E che a beneficiarne sia tutto il circo mediatico costruito attorno, a livello di sponsorizzazioni.
Matteo Bittanti: La distinzione tra giocatore professionista e giocatore non-professionista non è manichea come la presentano i mass media, che fanno dell’hype la loro forma di comunicazione per eccellenza. Sul piano statistico, i giocatori che hanno intrapreso una carriera videoludica sono relativamente pochi. Il numero di giocatori casual e non-professionisti resta dominante, esattamente come i calciatori che militano nella Serie A, B o C sono numericamente inferiori ai calciatori tout court. Allo stesso tempo, è significativo che una percentuale rilevante di appassionati di eSports non videogiocano, così come molti spettatori di calcio non hanno mai toccato un pallone. In ogni caso, la professionalizzazione della competizione videoludica non è un fenomeno recente: risale alla nascita del medium. Si pensi al celebre torneo di Spacewar! organizzato all’Università di Stanford nel 1972 descritto sulle pagine di Rolling Stone dall’allora giovanissimo Stewart Brand. In alcuni paesi, come in Asia, il circo mediatico che citi è molto più intenso che nei paesi occidentali. Ciononostante, la visibilità mediale dei campioni di eSports non ha ridotto la pratica videoludica non professionista. Al contrario: lo conferma il fatto che il mercato videoludico più importante per dimensioni e volume d’affari è quello asiatico.
Enrico Gandolfi: Non vedo pericoli del genere. Si prenda l’esempio degli sport non elettronici, dove coesistono giocatori professionisti e giocatori-spettatori. Come la definizione del medium dovrebbe essere maggiormente flessibile, anche quella del giocatore necessita una revisione. Il videogioco è costrutto complesso, e come tale richiama una complessità di interessi e approcci. Molti persone non sono mosse dalla competizione, e ci sono svariati motivi per giocare, dall’aspetto sociale a quello riflessivo. Il piacere spettatoriale è un’altra cosa e non significa necessariamente uno stimolo all’emulazione—vedere soltanto questo lato del fenomeno rischia di sottodimensionare i giochi video in quanto tali, che non sono mera appendice ma ambito interagente e proattivo per l’intrattenimento (termine che può essere letto sotto diverse luci) digitale.
Nel saggio di Antonacci vengono messe in risalto le virtù del gioco video, come per esempio l’apprendimento (imitare un giocatore particolarmente bravo, al fine di migliorarsi); ma, di contro, non viene trascurata l’idea che le varie produzioni (soprattutto i let’s play) siano tutte riconducibili a multinazionali il cui scopo è accrescere i loro profitti; apprendimento vs. intrattenimento—intrattenimento che Antonacci stessa definisce a volte come alienante. Le due tendenze sono secondo voi in equilibrio? Oppure il piatto della bilancia pende da una parte?
Francesca Antonacci: Secondo me il piatto della bilancia pende decisamente a favore dell’intrattenimento perché gran parte del mercato è dominato da aziende private che hanno come fine il profitto e non la crescita e lo sviluppo degli individui. Allo stesso tempo, le piattaforme peer to peer, che hanno come fine la partecipazione e la collaborazione, possono sviluppare strumenti che soddisfano le esigenze dei giocatori. Se anche nel campo dello streaming videoludico emergeranno comunità e strumenti partecipativi e condivisi, allora la bilancia potrà cambiare direzione.
Lo slow machinima è da intendersi come una forma di resistenza al mercato videoludico? Oppure “Gordon Gekko diventa Oblomov” nel territorio del gioco video per pura sperimentazione artistica?
Matteo Bittanti: Entrambe le interpretazioni sono valide, considerando l’eterogeneità delle pratiche e delle intenzioni dei praticanti. C’è chi considera il videogioco come una forma espressiva popolare (leggi: rozza, infantile e sguaiata) che può diventare arte solo nel momento in cui un artista se ne appropria, la sovverte e la trasforma in qualcos’altro, per esempio, in un audiovisivo non interattivo—è il caso del regista sperimentale americano Phil Solomon—e chi invece vede il machinima—lo slow machinima in particolare—come parte integrante di un’ecologia del gaming che include esperienze interattive deliberatamente noiose, come Desert Bus (e le sperimentazioni artistiche collegate, penso a Dave Ball) o Flight Simulator di Hosni Auji o meditativi (dai walking simulators ai boring games). Se l’interattività è la marca di riconoscimento del videogioco, il suo “specifico” mediale, ogni intervento che mira a ridimensionarla, a sopprimerla, a rimuoverla completamente, non può che essere interpretata come una critica, un rifiuto.
Una previsione per il futuro: da qui a dieci anni, quale sarà la modalità principale di fruizione di un videogioco? La VR sarà davvero la terra promessa dell’intrattenimento videoludico? E, in caso, potrà sostenere l’ascesa dei Giochi Video?
Matteo Bittanti: Stando alle ultime ricerche di mercato, la piattaforma privilegiata per la fruizione videoludica è lo smartphone, una tecnologia che ha poco più di un decennio di storia. In un settore caratterizzato da ritmi di innovazione frenetica, fare previsioni anche a breve termine è difficile. I dispositivi di realtà virtuale sono in circolazione da quasi vent’anni e nonostante gli investimenti consistenti da parte delle aziende, il loro successo è stato modesto, per ragioni di carattere tecnologico, sociologico, culturale. Sony ha commercializzato oltre 80 milioni di PlayStation 4 e circa 3 milioni di PlayStation VR: il divario è significativo. Alcuni osservatori ritengono che il potenziale dell’AR sia nettamente superiore alla VR, se non altro perché non richiede periferiche o accessori come visori e controller. Il successo di Pokémon Go sembra confermarlo. Infine, il fatto che tra i maggiori evangelisti della realtà virtuale ci siano personaggi come Palmer Luckey e Mark Zuckerberg è motivo di grande preoccupazione.
Enrico Gandolfi: Difficile fare previsioni, soprattutto in merito alla realtà virtuale che da anni si presenta come la terra promessa. Certo, giocherà un ruolo importante per il futuro del settore, sia se di successo sia in quanto fallimento eclatante. Vedremo. Da ricercatore, sarà interessante comprendere se una simile immersione può potenziare o diminuire il consumo spettatoriale. Non oso dare risposte, troppo presto. Negli studi che stiamo facendo ora alla Kent State University, strumenti come Oculus Rift e Hololens (che è maggiormente realtà aumentata piuttosto che virtuale) aumentano il coinvolgimento ma non l’apprendimento in quanto tale. Il vero problema non e’ tanto la tecnologia, quando le esperienze disegnate per la stessa. E per ora abbiamo pochissimi esempi degni di essere considerati.