Little Big Adventure, il senso di un remake

Ritrovare lo spirito di un gioco a trent'anni di distanza non è affatto facile.

Due cose soprattutto, ho pensato giocando il remake di Little Big Adventure: che questo titolo porta sullo schermo, ora come trent’anni fa, uno dei mondi alieni più affascinanti di sempre; e che un gioco come questo, oggi, è semplicemente improponibile. A riportarlo all’attenzione dei giocatori, sfruttando proprio l’occasione del trentennale, è lo studio 2.21, che ha tra i suoi fondatori alcuni tra i creatori del titolo originale, come Didier Chanfray, all’epoca responsabile di tutti gli oggetti 3D e delle animazioni.

Si tratta di un team, dunque, che aveva tutte le carte in regola per tirare fuori una versione moderna di Little Big Adventure praticamente perfetta; ma l’opera che ci troviamo di fronte è molto lontana dall’esserlo. Quali considerazioni abbiano condotto gli sviluppatori a prendere le decisioni che hanno portato a questo risultato, è difficile a dirsi.

Un’operazione del genere, però, può almeno interrogarci su quale sia il senso profondo della realizzazione di un remake; e per trovare una risposta, può aiutarci ricorrere alla fondamentale distinzione tra testo e opera. Senza addentrarci troppo nella teoria, la differenza si può cogliere al volo grazie a un paradosso proposto da Borges nel celebre racconto Pierre Menard, autore del Don Chisciotte. Eccone un gustoso passaggio:

È una rivelazione confrontare il Don Chisciotte di Menard con quello di Cervantes. Questi, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, prima parte, capitolo nono):
«… la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e consiglio del presente, avvertimento dell’avvenire».
Redatta nel XVII secolo, redatta dal «genio profano» Cervantes, quell’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, invece, scrive:
«… la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e consiglio del presente, avvertimento dell’avvenire».
La storia, madre della verità; l’idea è stupefacente. Menard, contemporaneo di William James, non definisce la storia come un’indagine della realtà, ma come la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che è avvenuto; è ciò che riteniamo che sia avvenuto. Le clausole finali – esempio e consiglio del presente, avvertimento dell’avvenire – sono sfacciatamente pragmatiche.
È anche nitido il contrasto tra i due stili. Lo stile arcaizzante di Menard – in fin dei conti straniero – soffre di una certa affettazione. Non così quello del precursore, che impiega con disinvoltura lo spagnolo corrente della sua epoca.

Quanto deve essersi divertito lo scrittore argentino, inventandosi un Don Chisciotte di un autore inesistente chiamato Pierre Menard, per poi confrontare due estratti del tutto identici, ricavando dalla loro analisi interpretazioni diametralmente opposte? Il senso sarà chiaro: a uno stesso testo (e l’esempio letterario può risultare fuorviante, ma la parola è qui da intendersi nel suo senso più ampio) possono corrispondere due opere diverse, perché il contesto è sempre fondamentale. Basta, ad esempio, immaginare di collocare un testo in un’epoca diversa, ed ecco che l’opera di un imitatore si trasforma in quella di un precursore; basta attribuire il testo a un autore con una poetica e una biografia diverse, ed ecco che un testo serissimo diventa una raffinata satira.

Little Big Adventure (Fonte: press kit)

Rispetto al caso proposto da Borges, forse al remake ideale dovrebbe riuscire esattamente l’inverso: con un testo diverso, restituire la medesima opera. È una missione impossibile, certo, perché il contesto di un’opera è sempre unico; ma si può senz’altro pensare di andarci vicino. Il contesto in cui nasce Little Big Adventure, poi, è davvero particolare, come ha spiegato il già citato Chanfray pochi mesi fa, intervistato da Retro Gamer (n° 260):

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ci furono eventi politici che alimentarono la nostra immaginazione: la Perestrojka, la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Apartheid. Soffiava un vento di libertà che portava grandi speranze, il declino della tirannia, delle dittature e dei popoli oppressi. Allo stesso tempo, paradossalmente, in Francia assistevamo, elezione dopo elezione, all’ascesa del Fronte Nazionale, rappresentato dal suo leader Jean-Marie Le Pen, apertamente razzista e omofobo. Il che lo rendeva il profilo perfetto per il nostro antagonista. Così abbiamo immaginato una dittatura guidata dal Dottor Funfrock. Questo tiranno ha inventato la clonazione e il teletrasporto per soggiogare il popolo e impadronirsi dei poteri magici del pianeta. Il design cartoonesco, gli animali parlanti, la palla magica, i colori vivaci, i suoni divertenti e le animazioni esagerate servono a stemperare la serietà dei temi affrontati, pur tracciando al contempo una caricatura del totalitarismo.

Non potendo fare affidamento sul contesto—perché, a prescindere da ogni considerazione su quanto l’attualità possa ricordare quel periodo, ogni epoca resta fondamentalmente irripetibile—un buon remake, per avvicinare l’opera originale, dovrebbe sistemare e aggiustare quel tanto o quel poco che serve a ritrovarne intatto, se non altro, lo spirito. In ambito videoludico, per abbellire e modernizzare senza cambiare nulla ci sono i remaster; un remake è giusto che si prenda invece la libertà di introdurre delle modifiche, soprattutto quando, come in questo caso, il titolo originale è ancora reperibile con facilità. Il Little Big Adventure del 2024 presenta in effetti tantissime modifiche rispetto a quello del 1994; il problema è che sono cambiate le cose sbagliate.

Si potrebbero fare molteplici esempi, ma mi limiterò a tre, che coprono altrettante componenti del gioco.

Little Big Adventure (Fonte: press kit)

La trama: nel titolo originale il protagonista, Twinsen, viene arrestato a causa dei sogni che fa; nel remake, finisce in prigione perché ha giocato a palla con la sorellina—che sostituisce la fidanzata come damigella da salvare—nonostante fosse proibito. È una premessa più debole, tremendamente meno efficace sia nel calarci in un’ambientazione distopica, sia nel rappresentare un mondo dove sono in azione forze incontrollabili, magiche ed esoteriche.

Il sonoro: basta confrontare due scene identiche, come questa del 1994 e quest’altra del 2024, per accorgersi che la colonna sonora è decisamente meno evocativa. Si limita a fare da commento, il più delle volte rinunciando a dare un reale contributo all’atmosfera del gioco; nonostante abbia lo stesso autore, Philippe Vachey, sembra di essersi spostati di trent’anni indietro, e non in avanti. Probabilmente le musiche originali sono state giudicate troppo intrusive, ma è facile immaginare una via di mezzo tra questi due estremi opposti.

La grafica: in assoluto, è stato fatto un lavoro splendido, ma la scarsa definizione dei poligoni del gioco originale trasmetteva un’ambiguità che, nella sua vivace alta definizione, il remake perde completamente. Gli ambienti sono più generici, meno carichi di mistero. A volte ti sembra di essere un pazzo omicida che si aggira in una convention di mascotte: i nemici che sotto il loro “design cartoonesco” nascondevano l’orrore della repressione e dell’esercizio della violenza in una dittatura, ora spesso sembrano solamente pupazzi colorati.

Tutti questi—e molti altri ancora—sono cambiamenti di cui si sarebbe potuto fare a meno, o che si sarebbero dovuti progettare meglio. Ancora più grave, però, è non trovare qui le modifiche che sarebbero state invece necessarie. Little Big Adventure, nonostante il suo fascino, era un gioco tutt’altro che perfetto. L’incipit della recensione pubblicata da Computer Gaming World (n°126) riassumeva bene il concetto: “Alcuni giochi sono grandi grazie ai loro punti di forza, altri nonostante le loro debolezze. Relentless è un ottimo esempio di quest’ultimo caso”. Il recensore, segnalando i principali difetti del gioco (intitolato Relentless in Nord America, Asia e Oceania) scriveva inoltre che “un gameplay più user-friendly sarebbe stato apprezzato”–un’affermazione fatta, vale la pena evidenziarlo, nel gennaio del 1995, avendo come metro di paragone gli atroci standard dell’epoca.

Semplificate alcune soluzioni che erano un po’ troppo cervellotiche persino negli anni Novanta, come la necessità di cambiare modalità di comportamento—scegliendo tra “normale, “atletica”, “aggressiva” e “discreta”—a seconda della situazione, molte delle caratteristiche più frustranti del titolo originale sono ancora presenti. La palla magica è imprecisa e soprattutto lentissima da usare, e perciò compromette il ritmo del gameplay e rende macchinosi e ripetitivi tutti gli scontri. Le animazioni di Twinsen invece, con il suo buffo modo di muoversi, sono senz’altro uno dei marchi di fabbrica del gioco, ma probabilmente sarebbe stato possibile renderle più fluide senza snaturarle, e fare in modo che le sezioni platform non risultassero più ingiustamente difficili—sono abbastanza rare, ma restano un autentico incubo. Insomma, gli unici aspetti in cui questo remake sembra riuscire a essere fedele al gioco originale sono quelli che nessuno avrebbe voluto ritrovare trent’anni dopo: Little Big Adventure si sarebbe davvero meritato qualcosa di più.