Abbiamo visto come il cinema abbia anticipato alcuni stilemi visivi che sarebbero poi diventati centrali per i videogame first-person shooter. In realtà, anche il game design ha influenzato in modo molto chiaro il cinema, nonostante più spesso se ne discosti nettamente. Le scene in cui Neo si addestra in Matrix assomigliano molto ai tutorial che avviano moltissimi giochi. Sia che siano incorporati nel flusso narrativo del gioco (Metroid Prime), sia che restino separati e distinti (Half-Life), questi livelli hanno lo scopo di far familiarizzare coi controlli e le meccaniche di base; sono proprio come l’addestramento di Neo, fondamentale per prepararlo al tuffo senza rete dentro la matrice. Oltre a questi richiami narrativi, ci sono anche molti esempi, in Matrix e altri titoli, in cui specifiche innovazioni formali videoludiche migrano e si riciclano nella grammatica filmica: parliamo in questo caso di cinema ludico (gamic cinema).
Steven Shaviro dice che la soggettiva non riguarda solo il vedere, ma anche e soprattutto il muoversi nello spazio. A proposito di Strange Days scrive1:
Gli eventi si svolgono in tempo reale, in un’unica ripresa, da un unico punto di vista. Queste sequenze sono tattili, aptiche, più di quanto siano visuali. La macchina da presa soggettiva non osserva solo la scena, attraversa attivamente lo spazio, viene colpita, si ferma e riparte, scivola e vibra, barcolla avanti e indietro, segue il ritmo dell’intero corpo, non solo degli occhi. Siamo di fronte a un regime di sguardo presoggettivo, affettivo più che cognitivo.
Ciò che il gaming può insegnare al cinema, per esempio, è che la macchina da presa può sia assumere un punto di vista soggettivo in relazione a un personaggio, come abbiamo ampiamente già detto, sia un punto di vista soggettivo in relazione a uno spazio computerizzato. Se un dispositivo ha uno sguardo proprio, è esattamente quest’ultimo. Il bullet time in Matrix è un’inquadratura soggettiva? Certamente no, ma solo se guardiamo alla definizione classica data da Bordwell e coautori. Se invece consideriamo lo “sguardo” della tecnologia, che renderizza spazi fisici tridimensionali in forme della geometria euclidea, come un avatar del punto di vista in prima persona dello spettatore o di chi gioca, allora la risposta sarebbe certamente sì. A questo proposito vanno citate almeno altre due posizioni, quella di Vivian Sobchack: “la presenza elettronica non ha né un punto di vista riconoscibile né una situazione di visione, come quelle che sperimentiamo, rispettivamente, con la fotografia e il cinema”2; e quella di Lev Manovich, che afferma come la visione computerizzata, pur riguardando il vedere, non c’entri più con la luce, ma con lo spazio. Il concetto di punto di vista cinematografico si perde in favore di una sua versione elettronica e gli shooter, gli sparatutto, insieme all’apparato che li costituisce, hanno definitivamente espanso i limiti della soggettiva. Ciò accade poiché negli FPS lo sguardo in prima persona è onnipresente ed è il fulcro della grammatica ludica tanto da diventarne diretta rappresentazione, un po’ ciò che Shaviro chiama “regime affettivo dello sguardo”. Le strategie linguistiche degli FPS, infine, si ripercuotono sul cinema man mano che i film diventano sempre più digitali.
Tutto ciò può essere sintetizzato come segue: lo sguardo ludico richiede uno spazio completo, renderizzato e agibile. La messa in scena cinematografica invece non richiede quasi mai la realizzazione di spazi completi. I progettisti di set e i carpentieri realizzano solo le porzioni che dovranno essere inquadrate e poco altro. Questo perché il regista mantiene sempre il completo controllo su ciò che viene visto e registrato: le posizioni della macchina da presa per una scena sono sempre note in anticipo e, una volta finite le riprese, non ne vengono certamente aggiunte. Anche quando si gira in esterna, sono sempre un ristretto numero di scorci a essere inquadrati, a parte qualche caso eccezionale come la panoramica a 360 gradi all’inizio di Cobra verde o i set rotanti di Lola Montes. Raramente si vede un paesaggio completo e comunque, anche in quei casi, l’ambiente è registrato, non renderizzato, e non può essere riesplorato, zoomato, spostato o ricaricato come accade a un modello tridimensionale. L’affascinante tecnica “a 100 videocamere” usata da Lars Von Trier in Dancer in the Dark, in cui decine di videocamere portatili sono collocate in diversi punti strategici dei luoghi delle riprese, per registrare in parallelo intere scene da punti di vista diversi, può essere considerata un’ingegnosa approssimazione del rendering digitale. Il risultato finale, tuttavia, ritorna sempre alle classiche convenzioni del montaggio cinematografico, cucendo insieme le diverse riprese per visualizzarne una alla volta. Il game design, al contrario, richiede esplicitamente la costruzione di uno spazio completo ed esplorabile senza l’aiuto del montaggio. In uno shooter, dato che il designer non può limitare il movimento del gamer, l’intero spazio di gioco deve essere renderizzato in anticipo o in tempo reale. La posizione della macchina da presa non è vincolata, anzi è chi gioca a controllarla, muovendo lo sguardo e il corpo del suo avatar. Jay Bolter e Richard Grusin lo spiegano molto bene confrontando Una donna nel lago con il videogame Myst3:
Myst può essere considerato un film poliziesco interattivo nel quale il giocatore assume il ruolo principale di detective. Ma è anche un film girato interamente in soggettiva, particolare questo che fa del gioco una rimediazione dello stile hollywoodiano, dove l’uso della soggettiva è impiegato molto di rado, con poche eccezioni, tra le quali i film noir degli anni quaranta. […] Myst è riuscito dove il film noir ha fallito: nell’attribuire al giocatore un ruolo attivo nello spazio visivo.
Cinquant’anni dopo il suo fallimento, Una donna nel lago trova dunque riscatto, anche se in un altro medium.
Un corollario di quanto dicevo poco fa a proposito dello spazio agibile è che il gaming ha reso il montaggio sempre più superfluo. Questa tecnica, propria del cinema, viene utilizzata meno da quando abbiamo assistito allo scivolamento estetico verso il videogame. Certo, i video di intermezzo (o cutscene) che popolano i videogiochi sono costruiti attraverso il montaggio, ma nel gameplay è praticamente del tutto assente. Ci sono ovviamente dei controesempi, che usano in particolare degli stacchi tra diverse modalità di visione: la mappa in World of Warcraft; il mirino del fucile da cecchino o i visori notturni; gli stacchi tra una camera e l’altra, o il guardare nello specchietto retrovisore in giochi di guida come True Crime. Anche un gioco come Manhunt usa il montaggio, ma solo quando replica esplicitamente le convenzioni dei video a circuito chiuso. Sebbene dunque il montaggio rimanga presente in alcune modalità di visualizzazione, nel gaming scompare nel momento in cui parliamo di gameplay. In questo senso, la predilezione del cinema odierno per una messa in scena “continua” (come per esempio in Timecode o Arca russa) è essenzialmente la sublimazione dell’assenza di montaggio nelle poetiche del digitale (e non è dovuta a dispositivi con sempre più spazio per salvare le registrazioni, come alcuni deterministi tecnologici vorrebbero farci credere).
I game designer non si devono mai fermare a sostituire la bobina (come Hitchcock in Nodo alla gola) e nonostante questo evitano del tutto il montaggio, rimuovendolo dalla grammatica di base del gaming e sostituendolo con trucchi ingegnosi, come per esempio in Metroid Prime, dove la transizione da terza a prima persona avviene non con uno stacco ma con un movimento in cui la macchina da presa, in terza persona, ruota alle spalle del personaggio controllato dal gamer e si sposta avanti, attraversandone rapidamente il cranio e infine fondendosi con gli occhi del personaggio stesso e di chi gioca, in prima persona. Queste soluzioni contribuiscono a creare una fluidità mai vista prima negli audiovisivi come cinema o televisione, e l’abbandono del montaggio crea di fatto le condizioni per la prospettiva in prima persona nei videogiochi. Non solo, il montaggio manca anche in quei titoli dove il punto di vista non è in prima persona, come per esempio quelli a scorrimento laterale o inquadrati dall’alto. Se quindi il montaggio crea fratture e discontinuità, il gameplay è fluido e continuo e lo sguardo ludico è molto più simile alla visione umana di quanto potranno mai esserlo il cinema, la televisione e il video.
Per fare un altro passo avanti potremmo dire che, nello sguardo ludico, tempo e spazio diegetici possono essere manipolati in modi mai sperimentati prima. I videogame infatti hanno il privilegio di esistere oltre il tempo reale, oltre ciò che vediamo: possono essere messi in pausa, possono essere velocizzati, rallentati, riavviati. Oltre a questo, possono anche sublimarsi in momenti di tempo sospeso, come per esempio nei giochi di ruolo a turni in cui si gioca (producendo strategie, analizzando statistiche, modificando schieramenti) solo nei momenti interstiziali fra un’azione e l’altra. I film non hanno mai avuto questa opportunità, sono basati sul tempo e devono svolgersi nel tempo per essere visti, sperimentati. Il bullet time di Matrix, l’iconico movimento di macchina che ruota attorno a un personaggio fermo in volo o fuori equilibrio, è uno di quei rari momenti di illusione cinematica in cui le estetiche digitali del gaming penetrano quelle cinematografiche: il tempo dell’azione è rallentato o completamente fermo, mentre il tempo del film continua a scorrere; e mentre il film procede in tempo reale, l’azione su schermo è ritardata in quello che Jameson descrive come “le mosse e le evoluzioni nello spazio di corpi che da qui in poi diventano soprannaturali”4, qualcosa che tradizionalmente solo i videogiochi (o qualunque mezzo di comunicazione che usi modelli tridimensionali generati al computer) sono in grado di fare. Potremmo quindi considerare il bullet time come un momento di cinema ludico, un momento in cui l’estetica del gaming sostituisce quella filmica, per poi ritirarsi pochi secondi dopo. L’ironia poetica del bullet time, infine, è che si basa su una tecnologia più vecchia del cinema, la fotografia, e qualunque amatore potrebbe replicare quell’effetto usando un buon numero di macchine fotografiche posizionate lungo un arco e un software per il montaggio: un semplice trucco tecnologico per rendere l’illusione di uno spazio tridimensionale.
Note
- Shaviro, Steven, Regimes of Vision: Kathryn Bigelow, Strange Days, in “Polygraph”, 2001, 13, p. 62. ↩︎
- Sobchack, Vivian, The Scene of the Screen: Envisioning Cinematic and Electronic “Presence”, in Caldwell, John (a cura di), Electronic Media and Technoculture, Rutgers University Press, Brunswick 2000, p. 151. ↩︎
- Bolter, Jay David, Grusin, Richard, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e associati, Milano 2002, pp. 127-128. ↩︎
- Jameson, Fredric, The Iconographies of Cyberspace, in “Polygraph”, 2001, 13, p. 126. ↩︎