What makes a good JRPG is some cool guys with some white ass hair.
utente reddit di cui non ho salvato il nickname
È il 29 giugno del 1998 e da pochi giorni, in Francia, sono cominciati gli ottavi di finale dei mondiali di calcio.
Le otto di sera: c’è un Olanda-Jugoslavia che voglio vedere a tutti i costi, perché, nonostante i miei dodici anni appena compiuti, l’idea di una carriera da giornalista sportivo è già un desiderio forte e preciso, delineato: al punto che ho già preparato penna, quadernone e album di figurine Panini per prendere appunti su tattiche, statistiche della partita e singole giocate dei calciatori meno noti.
Mio padre non c’è: fa il tassista e gli è toccato il turno di notte. Mia madre è in cucina, a vedere un film, o chissà cosa: l’ho implorata di lasciarmi il televisore grande del salotto per vedere meglio la partita. Così sono qui da solo, quasi al buio, illuminato dai lampi bianchi dello schermo (che non era poi così grande; ma all’epoca mi dava l’impressione di essere non meno che un quaranta pollici).
Mi sento eccitato, libero. Ecco: soprattutto libero. Fin troppo libero di fare quel che mi pare.
Mancano venti minuti alle nove, il telegiornale è finito da un pezzo, c’è un noiosissimo pre-gara con vecchi giornalisti Rai di cui non capisco le battute e allora, con gli occhi, comincio a vagare per tutto il salotto: tra soprammobilini e scaffali, e libri dalle coste verdi gialle marroni, e mattonelle, modellini di macchine e statuine di calciatori della nazionale italiana di USA ’94; fra questi, il giorno prima ho messo di traverso la custodia di un gioco per la PlayStation che un mio amico mi ha prestato senza entusiasmo («Giocaci tu, io mi sono bloccato: non m’ha convinto granché»), e io, che all’epoca ne avevo sentito parlare bene, benissimo, su svariate riviste, chessò, tipo PSM, avevo accettato il prestito per curiosità e per sfida: forse mi sarebbe piaciuto; magari sarei riuscito ad andare più avanti del mio amico.
In quel periodo non ero affatto un giocatore dai gusti raffinati: FIFA 98 fu il motivo per cui mi misi a piangere davanti a mio padre perché sborsasse il necessario per portare a casa una PlayStation; dopodiché, Crash Bandicoot 2 e Street Fighter EX plus alpha, e un paio di edizioni platinum di giochi come Mortal Kombat Trilogy e Road Rash, bastarono per farmi trascorrere gran parte del semestre, tenendomi ben lontano dai compiti a casa e dallo studio in generale. La mia vita e il mio entusiasmo da possessore di PSX era tutta in questa manciata di titoli: corse, salti, pugni e calci: questo era il mio repertorio, la mia piccola dimensione videoludica a quell’età.
L’unica escursione che m’era stata possibile, un passo laterale in una tipologia di gioco poi per lungo tempo dimenticata, se non rimossa, risaliva ai primi anni Novanta, quando mio padre—stavolta di sua iniziativa—portò a casa un NES e, pochi giorni dopo, con ancor più sorpresa da parte mia e pure di mia madre, una costosissima copia dorata della cartuccia di The Legend of Zelda. Uno strano gioco con un’inquadratura dall’alto: a differenza di Super Mario Bros. (che trovai in bundle con la console) non bisognava saltare ma procedere lentamente, esplorare, usare oggetti, farsi largo in un mondo vastissimo, scoprire passaggi segreti, uccidere mostri dalle forme e dai poteri più insoliti. Tutto questo era nuovo e mi piaceva, mi rapiva: su The Legend of Zelda passai ore, giornate—ma senza mai finirlo. E poi, da un giorno all’altro, accantonato il NES, quel tipo di gioco smise di interessarmi. Sarà stata l’età, l’ambiente, gli amici? Boh. Comunque mi buttai a capofitto nelle simulazione sportive, nei picchiaduro, nelle corse di moto illegali. Il prototipo dell’adolescente ad alto rischio causa videogiochi, Signori della Corte.
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Il gioco prestato da quel mio amico—amico che incredibilmente si ritrova, a distanza di vent’anni, anche lui nella redazione di Ludica—era diviso in tre CD («Tre CD? Ma perché? Ma che @%£!$ ci sarà mai dentro?» mi chiedevo) e aveva una copertina bianca con una strisciata blu come di vernice, con l’estremità inferiore raggrumata in una figura sferica – anche qua, grandi dubbi: «Ma che è? Una mano stretta a pugno?, un masso gigante?»
Avevo accennato a uno strano, smisurato senso di libertà circa quella sera del 29 giugno 1998: ancora un po’ di tempo prima dell’inizio della partita: di nuovo, tutte le riviste lette fino a quel momento ne parlavano come un capolavoro: e allora, perché non provare una decina di minuti questo tanto declamato Final Fantasy 7?
Niente pugni, né calci, né salti, né velocità; bisogna dare il nome a un personaggio super-deformed, altrimenti noto come Cloud, e mandarlo in giro lungo dettagliatissimi fondali bidimensionali, sperando di riuscire a trovare la porta o il portale adatto per approdare alla schermata di gioco successiva. Nel frattempo, a caso, partono dei combattimenti dove i personaggi stanno fermi e a turno, come rispettando un semaforo, portano a compimento i loro attacchi, le loro strane animazioni; con due colpi di spada o di mitra—dipende da uno dei due personaggi che all’inizio è dato controllare—la battaglia finisce e si torna così all’esplorazione.
Anche molti dialoghi. In inglese, ovviamente. L’inglese, all’epoca, per me era arabo: mandavo avanti senza capire nulla. Anzi, poco o nulla: qualcosa capivo, suvvia. Ma vedevo succedere delle cose interessanti: porte che si aprivano, bombe che venivano innescate, personaggi che correvano per scappare da un immenso reattore nucleare in fiamme. Ero catturato. Come stessi guardando un buon film. E il gameplay mi era quasi familiare, dato che in parte somigliava a The Legend of Zelda, ma era meno coinvolgente nella parte di combattimento—poca action, insomma. Sentivo però una cappa d’atmosfera davvero densa: mi stavo scoprendo uno story oriented player.
Dopo aver fatto esplodere due reattori nucleari, aver sconfitto un paio di boss con quello strano sistema di battaglia, esser caduto in una lucentissima chiesetta diroccata custodita da una ragazza che avevo intravisto già nella scena iniziale, quella in computer grafica, decido di salvare il gioco, soddisfatto e su di giri, e mettermi a vedere il secondo tempo di Olanda-Jugoslavia. Ma in realtà non posso. Piccolo dettaglio: è l’una di notte passata. Mi affaccio in cucina ed è buio. Mia madre è in camera: sta dormendo. E io ho giocato a Final Fantasy 7, perdendo la cognizione del tempo, per quasi cinque ore.
Role Playing Game, Gioco di Ruolo, “boh?”, mi risuonava in testa; perché questi giochi si chiamano così? Dopo cinque ore d’esperienza, la prima, vaghissima risposta a questa domanda fu: perché ci sono molti personaggi che interpretano molti ruoli e che parlano tantissimo. Da vero ignorante, questo fu il mio primo tuffo nel mondo degli RPG. Anzi, meglio: dei JRPG.
RPG alla “occidentale”: breve excursus
Ispirati ai giochi di ruolo da tavolo, come l’intramontabile—nonché capostipite—Dungeons&Dragons, gli RPG occidentali, nella loro forma videoludica, hanno sempre mantenuto delle peculiarità fondamentali: massima libertà d’azione e di scelta per il giocatore all’interno del mondo da esplorare; una storia tutt’altro che lineare e autoconclusiva. In un RPG occidentale, nella maggior parte dei casi, si va avanti liberamente, per quest e per crescita del personaggio, al fine di un potenziamento massimo; lo svolgimento di una storia sceneggiata, scritta a priori, non è mai un aspetto primario: tanti tipi di finale quante diramazioni può prendere il carattere del personaggio.
Il JRPG (dove la J sta per Japan: e per cos’altro poteva stare?), invece, pur prendendo spunto dal classico concetto gygaxiano di Gioco di Ruolo per quanto riguarda crescita dei personaggi e combattimenti, fa l’esatto contrario: cala il giocatore in una storia, in un testo “chiuso”, che può prevedere sì delle quest collaterali, ma del tutto ininfluenti al compimento della vera e propria missione, della storyline principale. Il JRPG è in pratica un manga interattivo—proprio per ridurre all’osso la questione. Ah, e poi c’è la questione del protagonista: per questo, vi rimando alla citazione in esergo. O in alternativa al bel visino poligonale di Cloud Strife.
RPG Maker, ovvero: Game Design for dummies
Balzo in avanti di qualche anno: tre, per l’esattezza. Torno a casa dalle vacanze estive e a passeggio per il viale del quartiere vedo l’immancabile bancarella di CD masterizzati che, a occhio e croce, propone il suo solito centinaio di titoli per PSX—siamo nel 2001, l’idea del giornalismo sportivo è sempre viva, ma come videogiocatore sono cresciuto molto: ora conosco Chrono Cross e ho giocato a capolavori del calibro di Xenogears.
Mi fiondo sulla bancarella. Di quei giochi non me ne manca nessuno. Giuro. Ho persino un gioco di scacchi che non ho fatto mai girare nella console, ma essendone un estimatore, be’, non potevo non comprare una versione almeno tarocca.
Non me ne manca nessuno—ma no, in realtà vedo una strana copertina: il disegno di un ragazzo in maglietta bianca, chino su una pergamena di quelle medievali, che con una penna d’oca in mano, presumibilmente, sta scrivendo delle cose misteriose che evocano, dalla stessa pergamena, mostri e demoni giganteschi. Il titolo di questo gioco è RPG Maker, prodotto dalla Enterbrain e distribuito da ASCII. Afferro il gioco alla svelta, lancio diecimila lire al proprietario della bancarella e torno a casa correndo.
Dopo l’esperienza di Final Fantasy 7, andando a ritroso e con l’aiuto di internet e degli emulatori, mi sono costruito la mia libreria di JRPG: ho citato Chrono Cross—adorato; da fan di Toriyama, poi—ma sono riuscito a recuperare tutti gli altri Final Fantasy, e poi i Dragon Quest, i Breath of Fire, i Phantasy Star—e Super Mario RPG, ovviamente. Nei miei sogni più alti, in realtà, in barba al giornalismo sportivo, mi vedevo capo creativo della Squaresoft. E mo l’ho detto.
RPG Maker è un semplicissimo strumento che consente a chiunque di realizzare il proprio JRPG. La versione per PSX, uscita in negli USA nel 2000, è stata la cosa più bella che potesse capitarmi in quel periodo—siamo fra nerd o pseudotali: ci siamo capiti.
Pur essendo poco più di una specie di sandbox, RPG Maker, col suo ristretto armamentario di fondali e musiche già pronti, un centinaio di personaggi fra eroi, chierici, guerrieri e mostri cui cambiar colore, dava effettivamente la possibilità di creare la propria storia, il proprio percorso ludico; prenderci la mano è stato semplice, e in un paio di mesi mi sono ritrovato col mio bel RPG finito, pronto per esser giocato.
Ecco: come per qualsiasi opera, per prender vita, anche il mio RPG aveva bisogno di un pubblico; e siccome non volevo creare un gioco di cui conoscessi ogni singolo segreto per poi giocarmelo da solo, il mio primo gioco amatoriale, il mio RPG numero zero, l’ho concepito mettendoci dentro i miei amici e i riferimenti del nostro vissuto—il tutto in un ambiente grafico fantasy: un delirio totale. (Mi vergogno a parlarne oltre; il titolo? A quei tempi leggevo Berserk di Kentaro Miura e andava di moda aggiungere Saga a ogni serie di giochi di ruolo.)
Non passa molto tempo che mi imbatto nella versione free e tradotta in italiano di RPG Maker 2000, sviluppata per PC. E qui, se prima il mondo si era appena aperto, ora si spalanca, frantuma qualsiasi margine e diventa un universo sterminato.
Nella versione PSX si possono creare degli oggetti-evento, ossia dei veri e propri riquadri da piazzare in un luogo preciso del dungeon, della world map o del villaggio in cui avrà luogo un’esplorazione. Questi eventi possono essere dei semplici “trasporti” da una mappa all’altra, o dal villaggio all’interno di un’abitazione, e viceversa; oppure possono essere degli NPC (Non Player Character), che scambiano con voi due chiacchiere o, in presenza di un qualche oggetto particolare nel vostro inventario, possono rivelarvi il passaggio, il sentiero nascosto che stavate cercando. In poche parole, una rudimentalissima sezione di programmazione—con tutto il rispetto per chi programma davvero.
La versione per PC è ancora più potente: pur non disponendo di un vero e proprio linguaggio di programmazione, così da poter scriptare come matti tutta la notte, la sezione Eventi permette di lavorare su costanti e variabili—proprio come succede usando un linguaggio di programmazione: ma qui è tutto più elementare e preimpostato.
E non è tutto: la possibilità di creare un gioco potenzialmente all’altezza di un RPG dell’epoca d’oro dello SNES cresce a dismisura se si pensa che è possibile importare la propria grafica e la propria musica (inizialmente solo .mid, ma poi, grazie a una patch, anche file .mp3).
La community, le demo, il concorso di “The Games Machine”
Non ci credo mica. Appena installo RPG Maker 2000 sul PC non c’è verso di scollarmi dalla sedia, di trascinarmi via dallo schermo. Scopro così la community italiana di supporto, e le decine e decine di siti che del tutto gratuitamente mettono a disposizione risorse grafiche di ogni tipo: personaggi, background, ambientazioni. Anche musiche ed effetti sonori. Uno dei siti che saccheggio di più è gaminggroundzero—di cui oggi, purtroppo, non c’è più traccia. Ci si trova di tutto: dagli sprite creati da zero fino a quelli rippati da giochi come l’immancabile Chrono Cross al mistico Seiken Densetsu 3—e non solo i personaggi, ma anche i chipset: ovvero i singoli elementi grazie ai quali è possibile ricostruire i villaggi, i boschi, la world map, insomma, ogni ambientazione del gioco, riassemblabile (se il rip è ben fatto) a piacimento: si può in pratica ricostruire un mondo diverso con gli elementi di un gioco 2D per SNES.
Bombardato da un’infinità di stimoli, per qualche tempo mi limito a prendere confidenza col nuovo programma, e finisco un paio di RPG molto semplici, come quelli fatti per PSX: uso la grafica base del Runtime Package, il sistema di battaglia di base, ovvero un ATB (Active Time Battle) alla EarthBound, e anche a livello di complessità della trama non vado oltre una lineare storia da non più di una mezz’ora, sempre improntata sulla vita mia e dei miei amici, e con un tono comico-parodistico obbligatorio.
In rete, ogni membro della community italiana è impegnato ad alzare l’asticella sempre più in alto, giorno dopo giorno.
Se è vero che la programmazione è limitata agli oggetti che la sezione Eventi mette a disposizione, va detto che questi oggetti prevedono anche condizioni IF e THEN—concetti con i quali non ho molta confidenza, ma che capisco subito essere fondamentali. In mano a utenti esperti, RPG Maker 2000 diventa così un tool in grado di creare giochi che potrebbero competere quasi alla pari con alcuni RPG dell’epoca SNES. E infatti, ogni utente, giorno dopo giorno, implementa le proprie capacità e conoscenze, e in poco tempo piazza sul forum il download del demo del proprio gioco—demo è una parola chiave: team di sviluppo non sono rari, ma la tendenza è quella di realizzare da soli il proprio gioco, e questo vuol dire un grosso sacrificio di tempo e un’immensa mole di lavoro.
Queste demo sono fantastiche: chi è riuscito a programmare il proprio ATB, rendendolo simile a quello di un Final Fantasy 6, chi invece riesce a tirar fuori un Action RPG—e qualche folle, persino un RPG all’occidentale, con una storia che si sviluppa autonomamente in varie ramificazioni in base alle scelte e alla crescita del personaggio principale. Rimango senza parole. E decido che è arrivato il momento di impegnarmi e lasciar stare i giochini comico-parodistici.
Solo una cosa: l’impresa non è per niente facile.
Scarico un sacco di risorse grafiche, apro Paint e mi metto a cambiare il colore dei capelli, pixel per pixel, al charaset di Crono, che da redhead diventa moro; scarico lenti tappeti musicali per rendere le mie ambientazioni oscure—anni darkettoni: che posso farci?—scarico le demo degli altri e le studio, leggo guide di programmazione, prendo confidenza con la logica dietro l’informazione automatica; passo dopo passo riesco anche io a produrre la mia demo: ma è un’accozzaglia di roba stonata e senza significato.
Frequento forum e chat, ed è così che comincio a capirci qualcosa: chiedo direttamente agli sviluppatori e, chi più chi meno, mi rispondono. Ovviamente, più mi addentro nella faccenda, più mi accorgo che è un lavoraccio: la passione c’è, ma in merito alla parte grafica siamo di fronte a un lavoro di artigianato puro, la parte di “programmazione” richiede concentrazione e sacrificio e passaggi a vuoto; la componente immaginifica deve rimanere viva, ma rischia di finire travolta da quella materiale.
Chat su IRC e forum sono dei veri e propri laboratori: ci si scambia idee, risorse grafiche e sonore, piccole guide per creare oggetti di programmazione (sistemi di battaglia e menù innovativi, per esempio), e, immancabilmente, si cazzeggia anche—e molto.
Nell’estate del 2002—e spero di non sbagliarmi—il movimento RPG Maker Italia cresce così tanto che la rivista The Games Machine decide di distribuire un suo numero con allegato il CD Rom di RPG Maker 2000, patchato in italiano—amatorialmente—da un membro della community; e non è tutto: viene indetto un contest a tema Magic (sì, proprio il gioco di carte collezionabili creato da Richard Garfield).
L’esilio e l’oblio. O forse, solo un arrivederci
Succede l’irreparabile: per il contest viene dato un mese di tempo, e quel mese è agosto. Io ho solo un PC fisso, e i miei per quel periodo hanno già affittato una casa in una zona di villeggiatura sul litorale romano. Gli chiedo se posso portarmi dietro tutto l’armamentario, ma il loro no è talmente perentorio che nemmeno mi metto a fare le solite scenate.
Cado in disgrazia. Non ho internet e passo tutto il tempo a scrivere la storia del bellissimo RPG che avrei creato una volta tornato a casa. Mi immergo nella lettura de Il signore degli anelli—anche questo mi è stato prestato da quello stesso amico che ora scrive qui su Ludica—e il calciomercato, da bravo giornalista sportivo ormai in pensione, mi passa accanto senza che me ne accorga: per vendetta, per rivalsa, adesso mi sono messo in testa di diventare l’Hironobu Sakaguchi italiano. Sono sicuro che a settembre, cascasse il mondo…
Altro balzo in avanti: stavolta più lungo. Siamo nel 2010. Scarico RPG Maker 2000 e NEStopia, poi la ROM di The Legend of Zelda. Mi metto a rippare la grafica. Un lavoro certosino: quadrato per quadrato, sprite per sprite. Importo le grafiche in RPG Maker e comincio a programmare la parte action. In un paio di giorni, tre schermate della Hyurle originale sono pronte e Link può uccidere un mostriciattolo con la sua spada di legno, premendo la barra spaziatrice.
Le community italiane esistono ancora, RPG Maker è andato avanti con le sue versioni; molta gente sta lavorando a progetti che diventeranno delle vere e proprie perle non solo di nicchia, ma del videogioco in generale—vedi Kan Gao e il suo To the Moon, cui è seguìto poi Finding Paradise.
Ricreare The Legend of Zelda come si ricrea una una nave in una bottiglia: questo, alla fine, sto facendo: quando me ne accorgo sono ancora in tempo per lasciar perdere. E questo è quel che faccio.
Oggi sono un semplice giocatore—non che prima fossi chissà cos’altro. Perché mi è venuto in mente di scrivere questo pezzo? Non per la solita nostalgia. Forse sento di nuovo la voglia di rimettermi all’opera, e mi serviva un punto di partenza, una spinta emotiva. RPG Maker oggi è alla sua versione MV, che consente addirittura di integrare comandi touch per dispositivi mobile, e, per quanto riguarda la programmazione, finalmente, per i più esperti, la possibilità di scriptare in JS. Esiste persino un mercato: se ben fatti, ben congegnati, gli RPG di stampo classico vengono premiati dal pubblico del 2018.
Ovvio: non riuscirò mai a tirar fuori il To the Moon italiano: si è capito: sono troppo pigro.
Ma voi che potete, se siete davvero appassionati e volete raccontare qualcosa—anche all’occidentale: la J non è vincolante—provateci. Vedere il vostro personaggio che gira per la mappa da voi architettata, fosse anche una sola, è comunque una bella sensazione.