Durante il primo anno di università frequentavo un corso di Storia e critica del cinema ed ero attanagliato da un dubbio. Come critico cinematografico in erba mi domandavo se fosse un mio dovere “professionale” guardare qualsiasi tipo di film, anche i blockbuster più penosi o i cinepanettoni più squallidi. Per risolvere il dilemma decisi di recarmi a ricevimento dal professore che teneva il corso, e rivolgere a lui la fatidica domanda. Il professore mi guardò con uno sguardo anaffettivo, che ancora oggi non saprei dire se conteneva più compassione o disprezzo, e mi disse che la vita era fin troppo breve per sprecare il mio tempo a guardare dei brutti film.
È un consiglio che ho seguito con un certo rigore, a volte fin troppo fondamentalista. Eppure, in più di un’occasione, mi sono reso conto che quella risposta non esaurisce affatto il dilemma. A volte è necessario battere le vie del denaro, perché possono raccontare cose che chi s’incammina a capo basso lungo le vie della critica colta alla fine finisce per ignorare.
Ad esempio, se guardiamo la lista dei dieci videogiochi più venduti degli anni ‘80, ci accorgiamo che in essa figurano ben quattro titoli della serie Super Mario (Super Mario Bros, Bros 2, Bros 3 e Super Mario Land) due della serie Zelda (The Legend of Zelda e Zelda II) e poi Tetris, Duck Hunt, Excitebike e Golf. Tradotta nel linguaggio dei generi la classifica ospita uno sparatutto, un puzzle game, due sportivi, due RPG e ben quattro platform. Proviamo ora a confrontarla con la lista dei dieci videogiochi più venduti nel 2017, stilata dalla rivista Forbes. Ci accorgeremo che in essa figurano due sparatutto in prima persona (Star Wars: Battlefront e Call of Duty: WWII), due giochi sportivi (Madden NFL 18, NBA 2K18), tre giochi openworld/sandbox (GTA V, Assassin’s Creed: Origins, The Legend of Zelda: Breath of the Wild), un survival game (PUGB) e Mario Kart 8.
L’unico platform presente in classifica è Super Mario Odyssey, uno dei titoli di lancio di Switch, l’ultima console arrivata in casa Nintendo. Questa marginalità dei giochi a piattaforme è la differenza che salta maggiormente all’occhio tra la classifica degli anni ‘80 e quella dei giorni nostri. Che fine hanno fatto i platform?
Un tempo Super Mario, Sonic e i loro epigoni erano praticamente ubiqui. Non solo venivano considerati i titoli di punta di ogni sistema di gioco, ma si erano conquistati lo status di “videogiochi per eccellenza”, quasi fossero la più precisa incarnazione possibile dell’idea stessa di videogioco. A vent’anni di distanza la situazione appare radicalmente cambiata e oggi come oggi i platform sembrano essere diventati un genere di nicchia, che resiste soprattutto nel giro degli sviluppatori indie. Mentre a livello mainstream il solo franchise ancora in grado di macinare risultati considerevoli in termini di vendite è Super Mario.
Spinti da sincera nostalgia, abbiamo pensato fosse una buona idea ricostruire la storia di questo fortunato genere videoludico, gettando una luce su quelli che sono stati gli anni dell’esordio (dal 1980 al 1988) e la sua vera e propria età dell’oro (dal 1989 al 1994). A questo punto non ci resta che premere il pulsante “start” e iniziare dal livello 1-1.
Gli esordi (1980-1988)
Ci sono fondamentalmente due titoli che si contendono il ruolo di “capistitpite” del genere platform. Si tratta di Donkey Kong, un gioco Nintendo del 1981, e Pitfall!, messo sul mercato da Activision l’anno successivo.
Donkey Kong è una sorta di riedizione 8 bit della storia del ben più celebre King Kong. La trama/idea del gioco è semplice: un gorillone poco raccomandabile ha rapito Pauline, la fidanzata del protagonista—un falegname di nome Jumpman—a cui spetta il compito di salvarla. Per farlo il giocatore deve far salire il personaggio in cima a una struttura di travi d’acciaio, evitando le botti, le molle e le fiamme che il gorilla fa rotolare dall’alto dell’impalcatura. Di tanto in tanto, lungo il percorso, Jumpman trova un martello che può usare per distruggere le botti senza essere costretto a saltar loro sopra. Il gioco è composto da quattro differenti schemi di livello, che si ripetono in sequenza e diventano mano a mano più difficili grazie all’introduzione di piccole variazioni, ad esempio nelle traiettorie degli ostacoli.
L’immaginario di Pitfall! invece ricorda i film di Indiana Jones. Il protagonista, Pitfall Harry, è una specie di esploratore che deve recuperare 32 tesori in un tempo massimo di 20 minuti; evitando serpenti, coccodrilli, tronchi rotolanti, sabbie mobili e voragini. Le meccaniche dei due giochi sono fondamentalmente identiche e la differenza principale tra i due titoli è la direzione di gioco: verticale in Donkey Kong, orizzontale in Pitfall!. I livelli di entrambi i giochi sono divisi in quadri. Quando l’avatar del giocatore ha attraversato l’intero quadro e ne ha raggiunto i limiti, la schermata si aggiorna ed è possibile accedere al quadro successivo. L’effetto è straordinariamente simile a quello dei tableaux vivant realizzati agli albori del cinema. Tutta l’azione e il (rudimentale) racconto accadono nella medesima inquadratura.
Titoli come Donkey Kong e Pitfall! hanno il merito di aver introdotto e definito meccaniche e stilemi ludici—ad esempio il salto come azione base eseguibile dall’avatar del giocatore—che di lì a poco sarebbero stati approfonditi da altri giochi, fino a diventare caratteristiche distintive di un genere, il platform appunto. Questo sarebbe accaduto solo intorno alla metà di quel decennio, quando il genere conosce il suo primo, vero, grande successo.
Nel 1985 Nintendo pubblica un titolo destinato a rimanere inciso a fuoco nella storia della nostra cultura: Super Mario Bros. Il gioco esce per il NES, la console che solo due anni prima ha rivoluzionato il mercato dei videogiochi, mettendo fine a una crisi che a molti addetti ai lavori pareva irreversibile e definitiva. Nel corso della sua storia Super Mario Bros ha venduto circa quaranta milioni di copie in tutto il mondo, inaugurando uno dei franchise più longevi e redditizi della storia.
Il successo del gioco ideato da Shigeru Miyamoto, forse il game designer più influente nella storia dei videogiochi, si deve all’amalgama pressoché perfetto tra la trama, il worldbuilding e le meccaniche.
La storia è piuttosto semplice. Bowser, una sorta di ibrido tra un dinosauro e una tartaruga, ha invaso il Mushroom Kingdom (Regno dei funghi) alla testa della Koopa Troopa, il suo esercito. I Koopa hanno la capacità di trasformare in blocchi di ghiaccio i Toad, i micologici abitanti del Regno dei funghi. Solo la principessa Peach Toadstool è in grado di spezzare l’incantesimo, per questo Bowser la rapisce. Ai fratelli Mario e Luigi spetta il compito di salvare la principessa e spezzare l’incantesimo. Per farlo devono attraversare otto mondi, fino a penetrare nella fortezza di Bowser per sconfiggerlo. Ridotta ai suoi elementi essenziali, la trama di Super Mario Bros non sembra essere altro che una riedizione dello schema di Propp: alla rottura di una situazione di equilibrio iniziale fanno seguito le peripezie dell’eroe, che consentono di ristabilire l’equilibrio di partenza. Il ricorso a uno schema narrativo tanto antico da essere diventato archetipico fa sì che lo scopo di Super Mario Bros sia immediatamente comprensibile a chiunque, facendo del gioco una moderna favola interattiva.
Una favola che si svolge in un mondo estremamente coerente, per quanto lisergico. Il Regno dei funghi infatti ha una sua geografia ben definita, una flora caratterizzata nel dettaglio e i suoi abitanti obbediscono a regole fisiche fissate con chiarezza. Una differenza fondamentale rispetto al precedente Donkey Kong, anch’esso frutto dell’inventiva di Miyamoto. Donkey Kong infatti si svolgeva in uno schematico non luogo, privo di qualsiasi caratterizzazione, come ci ricorda lo sfondo costantemente nero del gioco. In Super Mario Bros invece l’azione è sempre ambientata e le ambientazioni, anche quando si ripetono, possiedono sempre delle piccole variazioni che scongiurano la monotonia. Inoltre, un’altra differenza fondamentale tra i due giochi sta nell’aver trasformato il protagonista del gioco da antagonista ad eroe. Uno slittamento narrativo fondamentale per favorire l’immersione del giocatore nel racconto.
Tutto questo non avrebbe però significato gran che, se le meccaniche non si fossero dimostrate così coinvolgenti. Questo è senza dubbio l’aspetto più importante di tutto il gioco. Perché Super Mario Bros non dimostra solo di aver appreso alla perfezione la lezione dei proto-platform precedenti, ma è stato in grado di distillare quelle meccaniche e quegli stilemi in una formula capace di arrivare sostanzialmente intatta fino ai nostri giorni.
Calcolo, coordinazione, velocità di pensiero ed esecuzione, allenamento. Queste le abilità che non possono mancare a ogni giocatore di Super Mario Bros. L’improvvisazione è punita severamente, perché la capacità fondamentale richiesta ai giocatori e quella di identificare e superare una serie di schemi algebrici ricorrenti, che hanno soltanto una soluzione. Per farlo è necessario individuare ed eseguire nel modo più preciso possibile la corretta sequenza di comandi. Non solo, questa va eseguita in fretta, perché c’è un tempo limite entro cui è obbligatorio terminare ogni singolo livello, pena la perdita di una vita. Tutto questo, in un’epoca dove il salvataggio dei dati è soltanto una confusa speranza nel progresso dell’umanità, richiede applicazione costante e l’infinita ripetizione di schemi e combinazioni di tasti. Una sorta di metodo Lobanovskyi applicato al divertimento non senza una punta di cinismo, viste le frustrazioni che era in grado di procurare.
Il salto è sempre l’azione di base eseguibile dall’avatar del giocatore, ma la sua funzione si arricchisce. Non è solo l’azione che consente di attraversare indenni gli ostacoli posti lungo il percorso, muovendosi di piattaforma in piattaforma. Ma diventa anche strumento di offesa e di interazione con l’ambiente circostante. I diversi nemici che popolano i livelli del gioco possono infatti essere eliminati saltando loro in testa e alcuni elementi dell’ambiente, i famosi blocchi, possono essere colpiti per essere distrutti o per rivelare oggetti nascosti.
Questo genere di oggetti vengono definiti power up, che si potrebbe tradurre con “potenziamenti”. Si tratta infatti di oggetti (monete, funghi, fiori, stelle) che hanno la capacità di modificare lo stato del personaggio, aumentandone le abilità e introducendo meccaniche proprie di altri generi, come fa il fiore che permette a Mario di sparare piccole palle di fuoco rimbalzanti. Tutto questo rende Super Mario Bros una pietra miliare del suo genere.
La formula che il gioco di Miyamoto contribuisce a definire, infatti, caratterizza l’intera epoca del NES, perché viene ripresa in un numero incredibilmente alto di altri giochi. Tra questi ci sono alcuni dei titoli più importanti della storia della console a 8 bit di Nintendo. Possono variare le ambientazioni (Castlevania) o venir introdotte meccaniche action o riprese da altri giochi come gli sparatutto (Contra, Mega Man, Metroid) ma le architravi del genere non vengono modificate. Lo schema a tableau vivant dei primi platform lascia il passo a un level design ad azione scorrevole (orizzontale o verticale fa poca differenza), attraversabile solo dopo averne individuato gli schemi. Qua e là, attraverso i livelli, il giocatore s’imbatte in power up che modificano le abilità del suo avatar e alla fine di ogni livello o cluster di livelli ci si deve confrontare con un boss più potente dei nemici standard per poter proseguire nell’avventura.
L’età dell’oro: i 16bit (1989-1994)
La più grande guerra culturale del ventesimo secolo ha inizio sul bagnasciuga di una spiaggia nel 1990. È qui che Tom Kalinske, un uomo d’affari dell’Iowa, viene avvicinato per la prima volta da Hayao Nakayama, mentre si gode lo spettacolo delle figlie intente a giocare con la sabbia. Nakayama è un giapponese dalla calvizie incipiente, a malapena mascherata dal vistoso riporto che gli copre la testa. Nel 1984 è diventato presidente della Sega, la ditta famosa per aver prodotto Periscope, uno dei primi giochi arcade elettromeccanici. Kalinske invece ha un passato in Mattel, dove, nel ruolo di CEO, ha contribuito al rilancio di alcuni marchi storici della celebre casa produttrice di giocattoli. Tra i brand rivitalizzati dalle sue cure ci sono Barbie e Hot Wheels. Ma il suo successo più importante è senza dubbio il lancio del marchio Master of The Universe; quello di He Man, tanto per intenderci.
Nel 1990 Sega subisce fortissima la concorrenza di Nintendo. La casa giapponese non solo è sopravvissuta alla grande crisi che il settore ha attraversato all’inizio del decennio precedente, ma ha saputo imporre i suoi prodotti come vero e proprio sinonimo di videogioco. Per sfidare la grande N sul suo terreno serve un generale preparato. Kalinske lo è e sa di poterci provare, per questo accetta l’offerta di Nakayama. Ma nessun generale, per quanto esperto e addestrato, ha mai vinto una guerra da solo. Oltre allo stratega servono buone armi e Sega ne ha sviluppata una davvero avveniristica: il Sega Genesis, una console a 16 bit conosciuta in Europa come Sega Mega Drive. Nintendo ovviamente non assiste passivamente alla corsa agli armamenti della sua rivale più pericolosa. Nel giro di un paio d’anni dall’uscita del Genesis sviluppa e mette sul mercato il Super Famicom, una console a 16 bit distribuita in Europa e negli USA col nome di Super Nintendo.
A questo punto, per completare i preparativi bellici, mancano soltanto due campioni. Figure di spicco in grado di ispirare i soldati e guidarli sui campi di battaglia. Simboli che incarnino il valore dei brand sulla sabbia dell’arena più sanguinosa, quella del mercato. Nintendo il suo campione ce l’ha già da quasi un decennio: Super Mario. Il buffo idraulico baffuto, è un personaggio che all’epoca è già entrato nel cuore e nella fantasia dei videogiocatori di tutto il mondo, rappresentando il marchio in tutto e per tutto, perfino nel colore, il rosso, che condivide con la corporate identity dell’azienda.
Sega invece, nel 1990, non ha ancora un campione in grado di rappresentarla. O meglio, qualcuno ci sarebbe. Si tratta di Alex Kidd, un ragazzino che ricorda una scimmietta con le sue orecchie enormi, le basette e una salopette rossa. Alex Kidd è stato la mascotte non ufficiale della Sega fin dalla sua apparizione nel 1986. Ma all’alba degli anni ‘90 non sembra avere la tempra giusta per poter rappresentare l’azienda nello scontro senza quartiere con Nintendo. Non solo non è abbastanza caratterizzato, ma con quella salopette rossa assomiglia troppo a Super Mario. Per vincere la guerra è necessario differenziarsi.
Fu così che l’illustratore giapponese Naoto Ōshima diede vita a Sonic the Hedgehog (Sonic il riccio) che nasce per sostituire Alex Kidd e rivaleggiare con Super Mario. Inizialmente Sonic è battezzato con il nome di Needlemouse e il suo colore è verde. Successivamente, per identificare maggiormente il personaggio col marchio, Sonic viene colorato di blu. Alcune delle sue caratteristiche sono riprese da personaggi reali. Le scarpe di Sonic, ad esempio, si ispirano agli stivali indossati da Michael Jackson nell’album Bad. Mentre personalità, atteggiamento e tono di voce suonano come un omaggio al futuro presidente degli Stati Uniti Bill Clinton.
A differenza di Shigeru Miyamoto, che di Super Mario è il padrino a tutti gli effetti, Ōshima non è l’unica mente creativa coinvolta nello sviluppo di Sonic. Un ruolo di primo piano lo hanno anche Hirozaki Yasuhara e, soprattutto, Yuji Naka che viene indicato da più parti come il vero ideatore del gioco, nonché l’autore dei demo tecnici che Yasuhara utilizzò come base per la realizzazione del gameplay del gioco.
Sonic the Hedgehog è, ovviamente, un platform. Se è possibile ancor più veloce, adrenalinico e schizzato di Super Mario, ma senza particolari innovazioni nelle meccaniche che avevano reso celebre la serie dell’idraulico italiano.
Perciò anche l’era dei 16 bit si apre sotto il segno di questo genere e, per un breve ma esaltante periodo, Nintendo e Sega si contendono il mercato in una lotta accanita e bellissima, grazie alla quale vedono la luce alcuni giochi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia di questa forma di espressione. Anche in questo caso, i giochi a piattaforme ricoprono un ruolo di spicco nel delineare il panorama della storiografia videoludica del periodo.
Rispetto alle macchine precedenti, le console a 16 bit offrono a programmatori e game designer tutto un mondo di nuove potenzialità da esplorare. Di questa espansione beneficia, tra gli altri, il rilancio di uno storico personaggio Nintendo, Donkey Kong, quello da cui tutto aveva preso inizio. Donkey Kong Country esce nel 1994 ed è uno dei primi titoli in cui la grafica perde la sua grana pixellosa e diventa più dettagliata e realistica. In particolare negli sfondi, che si arricchiscono di dettagli e sfumature, facendo dell’ambientazione un elemento caratteristico del gioco e non più soltanto l’equivalente videoludico della carta da parati.
All’evoluzione tecnologica corrisponde anche un salto in avanti nelle meccaniche di gioco. I processori sono ora in grado di gestire contemporaneamente sullo schermo un numero incalcolabilmente più alto di oggetti con cui interagire, permettendo di creare situazioni di gioco concitate e stimolanti. In Donkey Kong Country è possibile cavalcare quattro diversi animali, così come in Super Mario World, il titolo di lancio del Super Nintendo, era possibile cavalcare Yoshi, un simpatico dinosauro linguacciuto. Mentre in Super Turrican 2 le schermate sono affollate di nemici da combattere e gli effetti della battaglia si moltiplicano di conseguenza.
Oppure diventa possibile calcolare la fisica e i movimenti delle piattaforme in modi completamente inediti. Ci si può così trovare a dover recuperare l’orientamento in una camera le cui pareti ruotano intorno al centro della stanza o a saltare cercando di indovinare l’attimo giusto per centrare una piattaforma che si muove ondeggiando con un moto che ricorda quello di un pendolo. Tutte situazioni con cui ci confrontiamo in Super Castlevania IV.
L’elenco dei giochi che, in questo periodo, sperimentano nuove meccaniche e soluzioni tecniche all’avanguardia potrebbe continuare all’infinito. Per completezza vale la pena citare Super Metroid, Earthworm Jim, Castle of Illusion, Rocket Knight Adventures, Strider o ActRaiser.
Senza dubbio, l’epoca delle console a 16 bit è una vera e propria età dell’oro per il genere platform. Lo testimonia non soltanto l’ampio numero di ottimi titoli pubblicati, ma anche la popolarità che il genere acquista. Così vasta da spingere i videogiochi nell’orbita di alcune grandi multinazionali e dei loro uffici marketing. Emblematico è il caso di Global Gladiators, un platform targato McDonald’s in cui il giocatore controlla due ragazzini (Mick e Mack) il cui scopo è attraversare quattro mondi, i cui livelli possono essere superati soltanto raccogliendo un determinato numero di archi dorati (il logo della corporation di Oak Brooks). Lo scopo della multinazionale è ovviamente quello di piazzare il proprio prodotto a un target, quello dei gamer, che ha buoni margini di sviluppo. Lo stesso fanno Chupa Chups e 7-Up con Zool e Cool Spot. Tuttavia il suo messaggio ambientalista rende Global Gladiators ancor più particolare rispetto a questi due titoli. Ronald McDonald non ha qui in mente un’azione di puro marketing, ma una ben più complessa operazione di green washing.
Da questa rapida ricognizione appare piuttosto evidente come i giochi per console abbiano recitato la parte del leone nello sviluppo del genere platform. Tuttavia ci sono alcuni titoli sviluppati per PC che vale la pena ricordare per il loro contributo alla storia dei videogame a piattaforme. Si tratta di Prince of Persia, Out of this World e Flashback, che di Out of this World è considerato il seguito. Tutti e tre questi giochi hanno in comune la grafica rotoscopica. Il rotoscopio è una tecnica d’animazione utilizzata per aumentare la resa realistica delle figure umane. La tecnica prevede che le pose e le movenze dei personaggi vengano filmate e poi proiettate su un pannello di vetro traslucido. In questo modo le immagini diventano un supporto per il disegno dei personaggi. La procedura, così come l’apparecchio necessario per eseguirla, furono ideati dall’animatore e artista cinematografico polacco Max Fleischer, nella serie Out of the Inkweel (1918-1929) e in alcuni famosi cartoni animati degli anni ‘30, tra cui la celeberrima serie di Betty Boop.
Nei titoli sopracitati, l’uso di questa tecnica non si risolve soltanto nell’accresciuto realismo della resa grafica dei personaggi, ma influenza direttamente le meccaniche di gioco. Le movenze dei personaggi perdono la “linearità” dei movimenti che caratterizzava gli avatar dei più conosciuti giochi a 8 e 16 bit, rendendo così più difficoltoso calibrare con precisione gli spostamenti da una piattaforma all’altra. Ma non solo, la possibilità di mimare le movenze di un attore in carne e ossa all’interno di un gioco permette di introdurre movimenti nuovi, oltre ai classici salti, scivolate e capriole. In Prince of Persia, ad esempio, diventa possibile arrampicarsi sui muri e scavalcarli, oppure restare aggrappati a un cornicione per poi issarvicisi sopra a forza di braccia. Infine, questi giochi permettono di aggiungere alle dinamiche consolidate dei platform nuovi elementi, come la risoluzione di puzzle ed enigmi (Out of this World) o tipologie di combattimento fino ad allora inedite, come i combattimenti con la spada (Prince of Persia).
Elementi che verranno recuperati e rielaborati in una stagione successiva, quella delle grafiche poligonali e del 3D, che cronologicamente attende il genere platform dietro l’angolo. Ma questa è un’altra storia e spetta ad altri raccontarla.