Nel mio primo ricordo relativo al medium videoludico, mi trovo dietro a Eric, e lui ha i capelli neri. Sua madre non avrà badato a me più di una manciata di volte nella mia infanzia, ma riesco a visualizzare l’anticamera del soggiorno in cui ci troviamo come se fosse casa mia. Forse ho sette anni? Deve essere il 1993. Ricodo che Eric sta giocando Super Mario Bros., ma solo perché mio fratello piccolo si chiama Mario e la connessione mi confonde. Eric mi propone di giocare, una volta, e io impugno il controller come l’oggetto alieno che è. Provo a muovere Mario e in qualche modo muoio immediatamente. Eric riprende il controller e prosegue. Io guardo. Io sto sempre a guardare.
Non mi era permesso di giocare ai videogiochi da bambina. Mia madre li disprezzava, ne parlava come di tutti i canali televisivi che non fossero la PBS. (Solo i cattivi genitori, diceva, permettevano ai loro figli di figli rovinarsi il cervello in quel modo). Non sarebbe mai stato permesso in casa nostra. A casa sua, precisò.
Quando arrivò mio fratello—e divenne abbastanza grande da volere, e chiedere, queste cose—si era rilassata sull’argomento, chissà per quale motivo. Per lui, almeno. I miei pessimi genitori gli regalarono un Game Boy per una qualche vacanza; più tardi, una PS2. A volte prendevo in prestito il Game Boy e lo portavo in bagno per giocare a Pokémon tutta la notte. E a volte mi lasciava giocare con lui. Ma non durava mai molto. Non ero per niente brava. Non sentivo il ritmo quando giovavo; non avevo un senso intuitivo del processo. Non sembrava come leggere o scrivere. Era come se mi avessero chiesto di eseguire una danza di cui non avevo mai sentito parlare.
Ma mi piaceva comunque. Mi piaceva il senso di smarrimento; la chiarezza di un enigma risolto; il piacere di scoprire sempre una nuova meraviglia1. Mi piaceva così tanto che quando alla fine abbiamo preso un computer—avevo dodici, quasi tredici anni—ho portato i soldi del babysitting e del compleanno a Electronics Boutique, nel centro commerciale di Lehigh Valley2. Ubriaca di potere—i miei genitori non avevano ancora capito che i giochi per computer erano semplicemente videogiochi sul computer e non avevano avuto la lungimiranza di sconsigliarli—comprai 3-D Dinosaur Adventure (includeva degli occhiali 3D!); Myst e i suoi cloni (iconico); Theme Park (quando andavi in bancarotta, una cutscene mostrava il tuo uomo d’affari che saltava da un cornicione nel riflesso di una foto di famiglia sulla sua scrivania); una serie chiamata Eagle Eye Mysteries (l’Enciclopedia Brown passata attraverso “Boxcar Children”); un giallo storico intitolato Titanic: Adventure Out of Time; Oregon Trail e i suoi tanti sequel (non ha bisogno di presentazioni; iniziavo sempre il gioco come medico e portavo con me un’armonica e avevo l’abitudine di sparare male e di ferire qualcuno del mio gruppo).
Nei dormitori del college vivevo accanto a una stanza di giocatori esperti: giocavano così tanto ad Halo 2 che sono certa che il suono degli spari mi farebbe addormentare in questo momento. Quei giocatori, che sono diventati cari amici, hanno pazientemente cercato di aiutarmi a giocare diverse volte, ma io mi sono scoperta totalmente incapace di mirare o sparare e mi sono messa in un angolo a sparare alle pareti come una maniaca fino al misericordioso termine degli scontri. In seguito, quando alcuni di noi andarono a vivere insieme, mi appassionai al gioco Oblivion, della serie Elder Scrolls, e giocavo nei panni di una persona-gatto che combatteva a pugni; ci passai così tanto tempo che cominciai a sognare di essere io stessa un Khajiit, e di correre per il paesaggio di Cyrodiil mettendo KO ogni personaggio incrociasse il mio cammino.
Quando frequentavo il mio primo e peggiore fidanzato, ero completamente innamorata della sua copia di Fable II, un gioco di ruolo fantasy open world con una serie di incantevoli caratteristiche che adoravo, tra cui un cane da compagnia e l’abilità—come donna combattente—di fare sesso e crescere figli con altre donne. Il gioco mi piaceva così tanto che ho rimandato una rottura necessaria fino al momento in cui ho finito la trama principale.
Un altro fidanzato—il secondo e il migliore—non riusciva a credere che non avessi mai giocato a Portal. Nella sua camera da letto, mi fece sedere davanti al suo elaborato PC e mi infilò delle enormi cuffie nelle orecchie. «Cosa farai mentre gioco a questo?». Gli chiesi, e lui sorrise. «Guardo e basta», mi disse. Ho scrollato le spalle e ho iniziato a giocare, a urlare di gioia e a meravigliarmi per la fisica. Ogni tanto mi giravo e lui mi guardava; sembrava sinceramente soddisfatto.
Anni dopo, all’università e sulla scia della fine di una relazione orribile, tornai a Elder Scrolls—questa volta, Skyrim—e giocai sul divano del mio amico EJ. Mi rimproverò gentilmente per la mia ossessiva raccolta di cibo nel gioco; gli spiegai che mi sembrava assurdo passare davanti a qualcosa e non raccoglierlo. «Visto?», ho detto mentre saccheggiavo un giardino pieno di cavoli3, sentendo la serotonina scorrere a cascata nel mio cervello. Alla fine EJ si addormentò dolcemente sul futon accanto a me; io giocai fino al sorgere del sole e tornai a casa per le strade di Iowa City sentendomi più tranquilla di quanto non fossi stata da un anno a quella parte. Quando alla fine mi addormentai, sognai di raccogliere cose vicino a Ralston Creek: le rive piene di piatti e ciotole, libri e armature, erbe e prodotti secchi, tutti da aggiungere a un inventario con spazio infinito.
Finiti gli studi, quando mi sono trasferita a Philadelphia, prendevo spesso il bus verso New York per stare con il mio amico Tony, che aveva una PS4. È stato accanto a Tony—che, come il mio vecchio fidanzato, sembrava contento di vedermi giocare, e sinceramente felice di condividere qualcosa che anche a lui piaceva fare—che ho giocato The Last of Us, P.T., Until Dawn, e l’inizio di quello che sarebbe diventato uno dei miei franchise preferiti, Life Is Strange. Sul suo divano ho deciso di comprare una PlayStation tutta mia, dopodiché ho giocato videogiochi nello stesso modo in cui una donna affamata siede di fronte a una tavola piena di cibo—faticando a capire da dove iniziare; sorridendo selvaggiamente per il soddisfacimento di un appetito vorace.
Ho giocato giochi di ruolo, rompicapi, sparatutto in prima persona. Giochi indie che procedono come romanzi ergodici; giochi con lore oscure e impossibili da padroneggiare. Giochi horror che mi hanno fatto urlare e lanciare il controller per il terrore. Giochi che mi hanno reso triste. Giochi che ho giocato senza capirli davvero. Giochi abbastanza difficili da aver dovuto guardare i playthrough su Youtube, e scappare da certi boss, per poter andare avanti. Giochi così pieni di bug da averli dovuti cancellare. Giochi che non ho finito. Giochi a cui sono diventata brava in modo assurdo. Giochi che da allora ho rigiocato più volte. C’erano Horizon Zero Dawn e il suo sequel. Hollow Knight; Resident Evil: Biohazard; Resident Evil: Village. Hellblade: Senua’s Sacrifice e Assassin’s Creed (Odyssey e Valhalla). Ghost of Tsushima, Death Stranding, The Last of Us (di nuovo), The Last of Us Part II. Control, Far Cry, Fallout. Alien: Isolation. Red Dead Redemption 2. We Happy Few, Vampyr, Prey, The Last Guardian. Tutti i giochi della serie Bioshock. Life Is Strange, Life Is Strange: Before the Storm, Life Is Strange 2, Life Is Strange: True Colors. Everyone’s Gone to the Rapture. Stardew Valley. Witcher 3.
Avendo bisogno di altro—e volendo poter giocare durante una residenza d’artista o viaggiando, se dell’umore giusto—ho scaricato Steam sul mio computer e ho giocato Amnesia: The Dark Descent, The Beginner’s Guide, Broken Age, Dear Esther, Don’t Starve, Firewatch, Gone Home, Her Story, Inside, Kentucky Route Zero, Limbo, The Long Dark, The Novelist, Oxenfree, Return of the Obra Dinn, SOMA, The Stanley Parable, Tacoma, That Dragon Cancer, Undertale, The Walking Dead, The Witness, The Wolf Among Us. Ho iniziato a giocare con amici con talmente poca esperienza da non saper usare il controller da soli; non abituati alle meccaniche, la camera sullo schermo inizava a vacillare vertiginosamente, selvaggiamente, esattamente nel modo in cui una volta sparavo—leggi: non sparavo—in Halo 2. Così abbiamo iniziato a giocare insieme. Loro mi dicevano dove andare e io li portavo lì, loro mi dicevano cosa cliccare e io lo facevo, e in questa maniera andavamo avanti nella storia insieme; un passo alla volta.
In una prima bozza di questo saggio, mi concentravo molto sulla natura di genere di queste esperienze; su quanto spesso ricevessi (una competenza sui, un accesso ai, una capacità nei, un’esperienza coi) giochi da un maschio. Facevo riferimento alle mie ansie nell’identificarmi come gamer. Parlavo del Gamergate.
Ma mentre scrivo mi colpisce con molta più forza l’intimità del mezzo; il modo in cui l’esperienza che ne faccio è specifica, persino erotica. Cosa significava ricevere la tutela di qualcuno? Lasciarsi guardare? Aprirsi a nuovi modi di capire? Morire più e più volte? Sperimentare il piacere in modo vicario, una sorta di compersione. Fare esperienza solo di ciò che non si conosce, avere soggezione delle vie del piacere del mezzo4. Cedere al desiderio, giocare per giorni, imbrogliare, rinunciare. Lasciarsi tentare di nuovo. Condividere giochi che non sono nemmeno pensati per essere condivisi.
Nel 2018, quando stavo facendo un tour di presentazione per il mio primo libro, rispondendo alle domande al termine di una lettura, ho raccontato di aver provato a iniziare a giocare Bloodborne—il più recente capitolo di un franchise di From Software noto per la sua difficoltà—per poi rinunciare, perché lo trovavo noiosamente e inesorabilmente punitivo. Non ero riuscita a fare praticamente alcun progresso.
Al momento del firmacopie, un tipo che sembrava piuttosto nervoso si è avvicinato a me. Dopo essersi preventivamente scusato—chiaramente consapevole della percezione di un uomo che spiega il funzionamento di un videogioco a una donna—ha iniziato a balbettare una difesa del gioco. Non per sminuire, ma per spiegare che sì, aveva una curva di apprendimento ripida, ma una volta capiti i meccanismi, era come una magia. Man mano che parlava, diventava sempre più agitato; le sue mani si muovevano descrivendo come diventasse una danza, una danza perfetta. «Lo amerai», continuava a dire. «Lo amerai». Era così appassionato che tornai a casa, scaricai nuovamente il gioco e cominciai a giocare. E aveva ragione. Una volta trovato il ritmo, sono riuscita a farmi strada attraverso quel paesaggio desolato e terrificante; a calarmi nella follia della lore; ad apprezzare l’impegno con cui il gioco faceva la sua parte.
Successivamente, ho giocato al gioco successivo della serie, Sekiro; ora continuo a dedicare gran parte del mio tempo libero al fantasy horror del mondo aperto di Elden Ring. Recentemente, dopo aver tenuto un discorso a una raccolta fondi, sono stata circondata da diverse donne belle e alte che mi hanno dato consigli su come accedere a un livello particolarmente redditizio in termini di rune. Abbiamo parlato ad alta voce, con entusiasmo, per troppo tempo. C’era una tale gioia nella conversazione; un peculiare coinvolgimento nel successo di una sconosciuta in qualche oscuro compito condiviso. Ho scritto i loro consigli sulla mia mano. (Al momento in cui scrivo, non posso sconfiggere il comandante Niall per salvarmi la vita e ho bisogno della metà sinistra del Medaglione Segreto di Haligtree; per favore aiutatemi.)
Questa è un’antologia che contiene ogni modo in cui mi sono cari i videogiochi: il modo in cui ci consentono di provare piacere (Ander Monson, “The Cocoon”) e dolore (Jamil Jan Kochai, “Cathartic Warfare”) per procura. Il modo in cui ci arrivano dalla nostra infanzia (Octavia Bright, “Staying with the Trouble”) e ci connettono con altre persone (Stephen Sexton, “No Traces”). Il modo in cui ci domandano – ci richiedono, ci implorano – di pensare al nostro rapporto con le nostre case (J. Robert Lennon, “Ruined Ground”), alle nostre idee sul libero arbitrio (Charlie Jane Anders, “Narnia Made of Pixels”), e a come le nostre fantasie diventano i nostri miti, i quali a loro volta divetano la nostra storia (Vanessa Villarreal, “In the Shadow of the Wolf ”). Il modo in cui testimoniano, comunicano, alleviano e consentono metafore per la malattia (Elissa Washuta, “I Struggled a Long Time with Surviving”), la depressione (Larissa Pham, “Status Effect”), la disforia (nat steele, “I Was a Teenage Transgender Supersoldier”) e l’euforia di genere (Max Delsohn, “Thinking Like the Knight”), il lutto (Nana Kwame Adjei-Brenyah, “This Kind of Animal”), il complesso paesaggio delle nostre identità (Keith S. Wilson, “Mule Milk”), la redenzione (Hanif Abdurraqib, “We’re More Ghosts Than People”).
È un’antologia che dà spazio a scrittrici e scrittori che sono giocatori compulvisi (Tony Tulathimutte, “Clash Rules Everything Around Me”), ex giocatori (Alexander Chee, “Ninjas and Foxes”), genitori di giocatori (Eleanor Henderson, “The Great Indoorsmen”), e scrittori di videogiochi (MariNaomi, “Video Game Boss”). Giocatori riluttanti e giocatori avidi e persone che non si definirebbero nemmeno giocatori. Questo libro—il primo nel suo genere, per quanto ne sappiamo io e il mio co-editor—ha al suo interno più spazio di quanto ci si aspetti. È un piacere e un dono esserne al timone.
Il Covid infesta queste pagine, naturalmente. Siamo rimasti bloccati al chiuso per anni e in qualche modo siamo ancora bloccati, e i videogiochi sono un modo per riempire il contenitore di questo blocco. Ma la pandemia infesta anche i saggi ristampati, anteriori alla sua esistenza: chiamatela paura di sapere cosa sta per accadere. State leggendo questo libro qualche tempo dopo che ho scritto la sua introduzione, e quasi certamente avete lo stesso timore. Chi può sapere quali orrori si verificheranno tra il momento in cui scriverò questo testo e quello in cui lo leggerete? Faccio fatica a immaginarlo. I livelli che non ho raggiunto. I capitoli che non ho sbloccato.
Anche la gioia, però, infesta queste pagine. Giocare. Noi diamo un’impronta al mezzo e il mezzo si imprime su di noi. Anche quando siamo bloccati al chiuso, l’arte ci offre una finestra. Una porta. Una via di fuga. Una fessura, se non altro, per respirare.
Prima del book tour per il mio (triste, difficile, complicato da raccontare) memoir, ho comprato una Nintendo Switch. Alla fine di quasi tutti gli eventi, tornavo nella mia stanza d’albergo e giocavo a The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Uno degli unici modi in cui sapevo come tornare nel mio corpo—perché dopo le letture e le domande me ne andavo sempre completamente dissociata e vuota e vuota vuota—era quello stupido motivetto che si sente quando si cucina un pasto. Il crepitio del fuoco, un grugnito e poi un ronzio, il tintinnio del metallo che colpisce il metallo, lo sfrigolio e il ribollire ritmico degli ingredienti. La fanfara dei corni al termine della cottura. La risata deliziata di Link. A volte non facevo nemmeno missioni secondarie, non mi lanciavo in parapendio sul paesaggio e non combattevo i mostri; mi limitavo a cucinare cibo digitale finché non mi addormentavo. Questo mi portava sempre al mattino successivo. E poi salivo su un aereo e ricominciavo tutto da capo. Nel cielo, il vero cielo, in direzione del prossimo triste posto. Cucinando una cosa o l’altra. Quella canzoncina alla fine! Il rintocco ascendente.
In questo ricordo sono brava in qualcosa, ed è un ponte. Posso tenerlo con me, e muovermi nello spazio. È reale e non lo è. Mi porta via, per un po’. Mi farà attraversare una pandemia. (La pandemia ancora non c’è, ma sta arrivando.) Il ricordo del gioco mi porta attraverso il ricordo del tempo. Ma soprattutto: io gioco. Questa è la parte migliore. Nel ricordo, sto sempre giocando.
“Introduction” from Critical Hits: Writers Playing Video Games. Copyright © 2023 Carmen Maria Machado. Translated with the permission of Graywolf Press, Minneapolis, Minnesota, USA, www.graywolfpress.org
Note
- Non si può nemmeno negare che il fatto di venire scoraggiata—in generale e per motivi di genere—lo rendesse ancora più attraente. ↩︎
- O, per essere più precisi, io e i miei soldi del babysitting e del compleanno siamo stati portati al centro commerciale di Lehigh Valley, dove ho detto che intendevo andare in posti molto più consoni al mio personaggio, come Waldenbooks per l’ultimo capitolo di Animorphs, o Natural Wonders per una borsa di velluto con pietre semi-preziose burattate. Ho fatto anche quello, naturalmente, ma prima Electronics Boutique, con i suoi scaffali di scintillanti jewel case fino al soffitto. ↩︎
- Di recente, durante un viaggio a Cracovia, ho visitato una basilica con due lesbiche polacche e ho parlato con loro di—che altro?—essere attivi e passivi. Come fai a sapere chi sei. Quando la conversazione si è spostata sui videogiochi, una di loro ha detto: «Oh, questo è un altro modo per capirlo. Sei un assassino o un collezionista? Chi è attivo preferisce uccidere; chi è passivo collezionare». Ho ripensato a Skyrim e ai miei cavoli. Poi al mio amore per il combattimento in mischia; al modo in cui ci si sente a correre fendendo una folla di nemici. «Mi piacciono… entrambi?» Ho detto, scattando una foto del soffitto a volta affollato di stelle. «Ah», rise lei. «Una versatile». ↩︎
- Una volta, mentre giocavo a un gioco open-world mentre ero completamente fatta, mi sono accovacciata fuori da un accampamento di banditi da ripulire e ho ascoltato il chiacchiericcio insensato dei PNG (personaggi non giocanti) che pattugliavano l’area. Hanno le loro vite, pensai, emozionata oltre ogni ragione. I loro schemi assurdi, le loro abitudini, le loro relazioni e le loro esistenze. Dopo che il dialogo si è ripetuto più volte, la mia partner è entrata nella stanza e mi ha chiesto cosa stessi facendo. Ho cercato di spiegare che in sostanza stavo recitando Aspettando Godot, solo che Godot ero io. Ero Dio. Poi ho iniziato a piangere per la bellezza di tutto questo. La pazienza con cui mi guardava, caro lettore! La tenerezza. ↩︎