Ho giocato Neva due volte di fila, e potrei farlo ancora. Perché è breve, ma soprattutto perché in termini narrativi è fondamentalmente un loop. Anzi, potremmo dire che Neva è il loop per antonomasia, quello della vita biologica, un invito convinto a ricominciare l’avventura del tempo ciclico una volta che sembra giunta all’epilogo. Allora non è un caso che il dramma, nel titolo di Nomada Studio, si inneschi in piena estate: nel pieno della vita si annida già la morte, la decadenza. Una consapevolezza che fa diventare adulti: quello che è più difficile da accettare, anche una volta cresciuti, è che la morte sia necessaria a creare altra vita, al ripetersi del tempo ciclico (per cui la vita inizia a germogliare già nel più gelido inverno). Se non fosse per l’arrivo dell’infestazione e per la morte di sua madre, Neva non crescerebbe con Alba, non incontrerebbe l’altro lupoide, non potrebbe mettere al mondo Bruma. E così via, di generazione in generazione.
Non sappiamo cosa sia questa infestazione nera e melmosa che colpisce la natura. Inquinamento, infezione, cancro… potrebbe essere semplicemente parte del naturale corso delle cose, dato che in alcuni momenti anche la regina dell’infestazione esibisce delle corna da cervo proprio come Neva e la sua stirpe di lupoidi che, al contrario, sono in grado di rigenerare la vita. Ed è molto probabile che Alba, il personaggio controllato dal giocatore, sia semplicemente un elemento funzionale nel continuo processo di morte e rinascita: il suo ruolo è quello di custode e accompagnatrice dei lupoidi, per quanto possiamo saperne—e sono sempre più convinto che meno cose sappiamo, in un videogioco, meglio lo vivremo, come accade con le favole e i racconti popolari.
A proposito di favole: Neva, come sua madre prima e la piccola Bruma in seguito, è un animale guida, uno spirito della foresta. È sia tangibile che invisibile (può sparire a suo piacimento ed essere rievocata da Alba con un semplice richiamo) e, oltre a restituire vita e luce ululando, sa dare e anche intuire la morte. L’uccello che all’inizio e alla fine della storia precipita nel campo fiorito è un cattivo presagio che Neva riconosce subito (come fiuterà in anticipo, nel corso del gioco, diversi pericoli che Alba non sospetta neppure). Nell’inquadratura successiva, Alba è già pronta al combattimento. Non si pone domande. Sguaina la spada ed è pronta a battersi per provare a fermare l’orrore nero. Sa già che nel corso della battaglia perderà Neva come ha perso altri amici animali in passato, sa già che la cicatrice che ha sull’occhio sinistro è la stessa portata da tutti i lupi, sa pure che il ciclo proseguirà con l’allevamento di Bruma come prima ancora era accaduto con Neva e sua madre.
Non è un caso che nel gioco non ci siano testi né dialoghi. Come nelle fiabe e nelle storie popolari, ancora una volta, la stilizzazione è la cifra principale di Neva. Non c’è bisogno di spiegare che si nasce e si muore continuamente nell’indifferenza di ciò che ci circonda. Sono consapevolezze naturali e preverbali, rappresentano la premessa per l’efficacia di ogni racconto esemplare. Non c’è un lieto fine, in Neva, perché non c’è un vero e proprio finale.
C’è però molta comunicazione, quella relativa al rapporto tra Alba e Neva. Da cucciola, la bestia va protetta. Quando resta indietro, va rassicurata. Va abbracciata e coccolata quando incespica e costantemente difesa dai terribili insettoidi che stanno parassitando il mondo. Non ho idea se, lasciata in balia dei nemici, Neva possa morire: immagino che nessuno abbia cuore e coraggio a sufficienza da lasciare i comandi per scoprire se può accadere davvero. Soprattutto nell’incipit Neva mette insomma molta tensione, per cui non ha molto senso parlare della qualità del suo combat system nel corso delle prime battute: lo vedremo evolversi, come gli altri elementi ludici, col passare del tempo—cioè con la crescita e la maturazione di Neva.
Da adulta, Neva ci viene in soccorso. Può essere cavalcata, mentre a volte, quando si accanisce sui nemici, va calmata con un richiamo o un sussurro. Diventa un’arma vera e propria da scagliare contro gli avversari, e si rivela indispensabile per scalare altezze e risolvere piccoli enigmi ambientali. Il gioco non ha fretta di introdurre questi “potenziamenti” che arrivano col susseguirsi delle stagioni, andando così a espandere gradualmente l’esperienza ludica. Pur essendo molto breve, Neva si prende tutto il tempo di cui ha bisogno per dipanare il proprio potenziale ludonarrativo. A partire dal secondo capitolo sia i puzzle che le fasi platform e il combattimento esaltano l’idea che non siamo soli, che è necessario cooperare con un altro animale e con l’ambiente circostante per proseguire (parlo di cooperazione perché a ben guardare ogni aspetto di Neva cospira insieme per la morte e la rinascita del mondo). Ne viene fuori un gameplay semplice, sempre fluido nella complessità di una stratificazione che sa come restare in superficie senza risultare banale né frustrante.
In molti hanno paragonato Neva a Gris, il lavoro precedente di Nomada Studio già distribuito da Devolver Digital, cercando di stabilire quale dei due fosse superiore. Ma ciò che conta sono soprattutto le differenze tra le due opere. Entrambe hanno in comune una direzione artistica straordinaria, benché qui e lì derivativa, e la già citata stilizzazione del racconto che procede per allusioni, evocazioni e allegorie specchiandosi nell’ideale dimensione del 2D, senza dimenticare l’immaginifica colonna sonora dei Berlinist. Ma se Gris era una storia individuale di solitudine e isolamento (e forse lutto e depressione), Neva pone al centro l’ineluttabilità della comunicazione e della coesistenza con gli altri—con ogni cosa, vale la pena ripetere, anche nel conflitto apparente contro gli agenti della distruzione. Con la liberazione finale della sua protagonista, Gris si presentava in fin dei conti più luminoso di Neva, che racconta invece di gioia e dolore eternamente imprigionati nella ripetizione, dell’eterno ritorno dell’una nell’altro.
Ma torniamo al gameplay, che è la vera voce dei videogiochi. Come Gris, Neva ha l’intelligenza di non dire ma di far provare (nel senso dell’inglese to feel) attraverso l’interazione, espandendo però la portata emotiva delle vicende narrate per mezzo di meccaniche di gioco maggiormente approfondite, riuscendo quindi a rendere più intenso il racconto attraverso l’evoluzione e una crescente combinazione degli elementi base della sostanza videoludica (in questo caso, appunto, puzzle – platforming – combattimento).
Sono abbastanza certo di andare oltre le intenzioni di autori e sviluppatori affermando che l’andamento ciclico di vita-morte messo in scena da Neva sia, anche, una riflessione sulla natura stessa del videogioco, sui suoi continui e infiniti loop di successo e fallimento. In fondo Insert coin, Try again, Continue? sono ancora i pilastri del medium che in Gris mancavano, perché in quel caso non erano contemplati né morte né game over. Potremmo dunque sostenere che Neva sia un’esperienza più marcatamente videoludica rispetto a Gris proprio perché inserisce il fallimento e la morte tra le sue possibilità? Non esageriamo. Ma intanto potremmo azzardare che, se non lo è per il genere cui si richiama, Neva è un roguelike per la storia che racconta, che è la storia dell’universo intero. Morte e rinascita, creazione e distruzione. Vivere, morire, vivere, morire, e via all’infinito. Per questo ho giocato a Neva due volte di fila, e potrei farlo ancora. Così ricomincia daccapo anche la mia storia.