Noto fino a poco tempo fa con il titolo Once Upon a Coma, Neversong si presenta come un videogioco d’autore sulla sofferenza interiore: lo si evince dai titoli di testa nei quali, dopo un’avvertenza sulle tematiche affrontate, appaiono i nomi degli autori dell’opera. Non si tratta però, come spesso accade, di una formalità, di un logo applicato sul nero digitale come un marchio di fabbrica. Thomas Brush (Atmos Games) e il team Serenity Forge, gli autori del gioco, vogliono evidentemente rimarcare il loro intento autoriale, la loro ambizione di raccontare un tema delicato come il lutto.
La morte viene posta, così, al centro di un gioco interessante ma sin troppo breve. Le quattro ore scarse necessarie a completare il titolo, per la loro qualità complessiva, meriterebbero di essere dilatate: Neversong è, per probabili ragioni di budget, un videogioco d’avventura in formato ridotto, quasi una miniatura. Il titolo recupera molto dagli stilemi imposti dai capisaldi del genere, persino l’uso di uno strumento musicale, un pianoforte, che può quantomeno far pensare a The Legend of Zelda: Ocarina of Time.
La progressione, come da tradizione, è scandita dall’ottenimento di sempre nuovi strumenti, ai quali corrispondono diverse abilità perlopiù legate all’esplorazione. Da una mazza da baseball sino a uno skateboard, questi upgrade sono sufficientemente vari e ben congegnati tanto da poter sostenere, in termini di game design, un’espansione ipotetica e meramente quantitativa dei loro rispettivi segmenti di gameplay. Questa, tuttavia, non è affatto una nota di demerito, quanto più una lusinga indiretta alla pulizia generale del concept di gioco. La sensazione è che gli autori di Neversong, a fronte di un budget evidentemente ristretto, siano stati molto attenti nel calcolare realisticamente le loro possibilità produttive, perdendo in nessun caso il controllo sullo sviluppo del gioco: nessuna meccanica appare infatti abbozzata o non compiutamente espressa, quantomeno da un punto di vista meramente qualitativo.
Un valore, questo, che il titolo spartisce con Forma.8, un’altra avventura sviluppata su Unity e rilasciata nel 2017 da un team torinese. Anche il metroidvania italiano, sviluppato da Mixed Bag, esibiva infatti una progettazione limpida e cristallina, capace di scavalcare le insidie tipiche delle produzioni indipendenti. Una manciata di idee precise, sviluppate al meglio, rendevano Forma.8 un ottimo esponente del genere: con poche riserve aggiuntive, lo stesso può essere detto di questa recente avventura statunitense.
Costituito prevalentemente da fasi esplorative, Neversong propone una formula action-adventure classica, equilibrata e divertente, nella quale gli immancabili boss rappresentano i punti di svolta del racconto. L’incedere lineare del gioco può essere spezzato da un back-tracking facoltativo, mai invasivo, necessario solo alla raccolta delle carte collezionabili. Interamente costruito attorno a una suggestione musicale, pianistica per l’appunto, l’immaginario di Neversong sembra in debito rispetto alle fantasie gotiche di Tim Burton, ricordando vagamente anche Psychonauts di Tim Schafer.
La direzione artistica, tutto sommato gradevole, non dimostra mai un carattere davvero totalizzante. Pur non volendo compiere un raffronto diretto, siamo distanti dalla cifra stilistica di Limbo e Inside, autentiche eccellenze di art direction. La ouverture di Neversong è affidata a una filastrocca, corredata da illustrazioni fiabesche; la voce del narratore, con la sua parlata rimata, tornerà ancora per accompagnare i momenti salienti della narrazione.
I primissimi minuti di gameplay, adibiti a prologo, possono ricordare la struttura circolare del celebre playable teaser di Silent Hills. L’orrore, d’altronde, permea anche il villaggio attorno al quale ruota questa nuova avventura, per quanto sia qui fortemente edulcorato da un’estetica fanciullesca. L’inquietudine della quale è intriso il mondo di Neversong è la medesima che, a guisa di nube, aleggia sopra il cranio degli adolescenti durante un racconto estivo, notturno: una narrazione, sul ciglio della strada, nella quale l’elemento surreale interviene a tenere insieme, a rendere decifrabile, il mondo sfilacciato degli adulti.
L’opera di Brush e Serenity Forge corrisponde, allora, a quell’ultimo racconto in una calda mezzanotte di luglio, quando, da ragazzi, l’approssimarsi dell’ora più piccola suona come una trasgressione irresistibile, una conquista. In questo scenario, nell’estate come un luogo fisico, gli autori innestano l’ombra di un incubo ctonio, latente, celato appena dietro a un velo di calda spensieratezza estiva. A conti fatti, occorre però dire che l’avviso iniziale, inerente alla gravità delle tematiche trattate, appaia perlopiù come un altisonante disclaimer. Neversong non vanta infatti un modo particolarmente audace di raccontare la sofferenza interiore e, pur nella complessiva pregevolezza della produzione, appare difficile lasciarsi impressionare davvero dai suoi contenuti. Metafore e allusioni semplici, talvolta un po’ pacchiane, conciliano meglio con la sua direzione artistica piuttosto che con una trattazione tale da giustificare l’iniziale dichiarazione d’intenti.
Il videogioco, allora, funziona meglio come fiaba grottesca che come dramma: Once Upon a Coma, con il suo rimando alla celebre formula letteraria, sarebbe forse stato un titolo più efficace. Videogiochi quali Hellblade: Senua Sacrifice, così come il meno recente Silent Hill 2, affrontano il tema della perdita in maniera innegabilmente più penetrante, rispetto a Neversong. Quest’ultimo, nonostante un racconto più stratificato, si avvicina maggiormente a Celeste.
Il platform di Matt Makes Games struttura, a margine di un gameplay decisamente convincente, una narrazione metaforica e tuttavia molto semplicistica sulla sofferenza psichica. La scalata di Madelaine al Monte Celeste, pur alludendo alla depressione, non intende però certo essere ricordata per una ricerca accurata o particolarmente virtuosa sulla malattia mentale. Hellblade: Senua Sacrifice, aldilà di un gameplay discutibile, ha invece approcciato il tema in maniera decisamente più complessa, a partire dall’uso drammaturgico delle nuove tecnologie. Basti pensare, più che alla già ampiamente sperimentata tecnica del motion capture, all’audio binaurale, con il quale sono state tradotte le allucinazioni uditive di Senua, la protagonista del gioco.
Uno degli aspetti più interessanti del titolo di Ninja Theory consiste nell’uso della malattia mentale come premessa e non come rivelazione. Normalmente, si ricorre all’allucinazione, o a un più generico onirismo, per allestire un plot twist capace di far rivalutare la natura degli eventi raccontati. L’avventura di Senua, invece, rappresenta un drammatico viaggio verso quella verità che il giocatore, diversamente dalla protagonista, ben conosce già dall’inizio. Il racconto di Silent Hill 2, costretto purtroppo fra le maglie di una struttura ludica oramai obsoleta, resta ancora oggi impressionante.
Non stupisce, infatti, che il secondo capitolo della famosa serie horror sia divenuto quello più celebrato, superando, in termini di apprezzamento, anche il capostipite della saga. La ragione risiede soprattutto nell’utilizzo che Silent Hill 2 fa della grammatica del genere horror, assegnando alla componente orrorifica un ruolo parallelo, sovrastrutturale, rispetto al fondamento drammatico della vicenda. Occorre dire, comunque sia, che il videogioco di Team Silent conserva sempre uno strato, anche consistente, di ambiguità, perlopiù a causa della presenza di finali multipli.
Gli eventi surreali del videogioco possono però essere facilmente letti attraverso le lenti della psicopatologia, riducendo, per così dire, la vicenda narrata a un racconto tragicamente realistico e verosimile. Spesso accostato al gioco è, non per nulla, l’aggettivo “lynchano”, con diretta allusione al soggettivismo tipico del regista di Lost Highway. Spogliata allora dell’elemento orrorifico propriamente detto, Silent Hill 2 diventa un’opera drammatica che, per questo motivo, viene sovente consigliata anche a chi non frequenta il genere di riferimento. Il primo storico capitolo, con il suo racconto più sfuggente, meno delineato, non esiste autonomamente rispetto alla sua specifica componente horror.
Similmente a Silent Hill 2, la trama di Neversong si dipana attraverso un elemento surreale che si rivelerà essere uno strumento di rimozione del reale, quasi come a sostenere che la patria dell’orrore più autentico sia la realtà stessa, e non un’alterità capace di sovvertirla. Il gioco di Thomas Brush e Serenity Forge, anche a fronte delle sue componenti più modeste, dimostra di essere sia un videogioco appassionante, sia una promessa per il futuro dello studio. Un’altra avventura, realizzata in circostanze produttive meno stringenti, potrebbe davvero rappresentare un punto di svolta per gli autori di Neversong.