Uno spettro sfreccia sul circuito della storia occidentale: è il fantasma del futuro perduto, una ghost car imbattibile che tormenta il presente. Proprio a proposito di spettri, l’uso che il critico Mark Fisher faceva del termine hauntology evoca un altro fantasma, quello poligonale di Rollcage. Mutuato dal filosofo Jacques Derrida, il concetto di hauntology è stato utilizzato da Mark Fisher per indicare, sinteticamente, la “nostalgia per un futuro perduto”. Uscito alla fine dello scorso millennio, Rollcage è un videogioco di corse futuristiche cugino del più celebre, e fortunato, Wipeout. Il titolo, prodotto dalla Psygnosis, ha per colonna sonora proprio le sonorità jungle care al critico britannico.
Il logo storico dello studio, con il suo iconico gufo bianco, rimanda peraltro fortuitamente al quarto capitolo de L’eredità del gufo, un film del regista sperimentale Chris Marker, il quale ha per titolo Nostalgia or the impossible return. Oggi, l’informe 3D di Rollcage sembra un magma addomesticato, melanconico, come un futuro mai eruttato dal vulcano del tempo. Chronos, il dispositivo orfico per la temporizzazione degli eventi, sembra allora essersi freezato, travolto da una “gelida onda dell’eternità”, per dirla con i versi del poeta Georg Trakl. La pista, divenuta un eterno presente di rincorse, non si riavvolge doppiando Talete, ma nemmeno termina con l’apparizione di un drago rosso dalle sette teste.
La storia sembra allora non funzionare più né come dispositivo ciclico, cioè per com’era intesa nella cultura ellenica, né come dispositivo lineare, caratterizzato cioè da una “fine dei tempi” per come questa viene descritta, per esempio, nell’apocalisse cristiana. La storia si è davvero inceppata? Questa incessante rincorsa sembra volgersi verso un abisso traslato all’infinito: è l’abisso di Narciso, l’eterno loop di un’immagine che rincorre la sua immagine. La cultura occidentale, già da tempo decadente secondo l’accezione splengleriana di Zivilisation, starebbe allora continuando a tramontare, seguendo però lo schema della tartaruga di Zenone. Non c’è buio che possa mai dirsi notte, per l’anima dell’occidente, come se la salita al monte Carmelo di San Giovanni della Croce avanzasse per frazioni d’eternità. Il tema del loop e della distorsione temporale potrebbe rappresentare l’agonia storica, una stasi nella quale la storia, disconnessa dal futuro, non riesce automaticamente a generare il passato.
Viene così meno l’idea del progresso. Sconvolta da un agón, da uno squilibrio interno, la storia necessiterebbe allora di un atto esterno per poter ripartire: un pharmakon per il tempo, un vaccino. La retorica della ripartenza del mondo, dopo una prima wave pandemica, faceva attrito con nuovi e vecchi catastrofismi: proprio come in un videogioco strategico tower defense, ci siamo abituati a scandire gli attacchi pandemici a ondate. Siamo forse bloccati nel sogno di Yharnam, la città attorno alla quale si attorciglia l’incubo tentacolare di Bloodborne? Il videogioco narra di una città, Yharnam per l’appunto, nella quale hanno luogo eventi sovrannaturali legati a potenze cosmiche, dette Grandi Esseri: la protagonista del gioco è una cacciatrice che prende parte alla night of the hunt, la notte di caccia alle belve.
Il videogioco lovecraftiano, diretto da Hidetaka Miyazaki, rientra peraltro nel campo di ricerca del filosofo Nick Land. Qualche anno fa, l’eccentrico filosofo dell’Università di Warwick, dalla quale diede poi le dimissioni, analizzava l’archetipo dell’orrore ontologico e la sua manifestazione attraverso la figura dello “sterminatore”. Questo exterminator può apparire mediante le sembianze di uno xenomorfo, l’alieno progettato da H.R. Giger per il film Alien di Ridley Scott, oppure attraverso qualcosa di più astratto, come una pandemia. Mentre Nick Land conduceva queste riflessioni, l’Ebola era un tema fortemente attuale: discutendo dello stato epidemico, il filosofo britannico citava l’eventualità che il virus proseguisse nella sua espansione, suggerendo implicitamente che l’ebola potesse essere il nostro sterminatore. Aspettando qualche anno, il Covid-19 sarebbe diventato un candidato più credibile al quale affidare la nostra estinzione. Tuttavia, anche qua il termine “catastrofe” resta aristotelicamente improprio, visto che il nostro dramma non trova soluzione né un netto rovesciamento. L’apocalisse è forse ciò che si fa attendere per sempre?
La nostra crisi assomiglia più a un interregno, nozione introdotta da Antonio Gramsci nelle sue Lettere dal carcere: “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Quando la protagonista di Bloodborne si addentra nel distretto antico di Yharnam, fa la conoscenza di un personaggio di nome Djura, il quale diventa facilmente ostile. Qualora ci uccidesse, sentiremo Djura proferire la seguente frase: “You still dream I should think? Then come as often as you like, I’ll show you another death”. Morire, in Bloodborne, è una prassi molto comune, come d’altronde lo è in ogni videogioco appartenente al sottogenere soulslike. Tecnicamente, non esiste neppure un gameover, considerando che la morte non azzera i progressi del giocatore. La meccanica della morte che Hidetaka Miyazaki, l’autore del gioco, ha reso celebre con le sue opere, è spesso stata elogiata per la capacità di porci di fronte a noi stessi, ai nostri limiti: è la morte a rivelare l’essere.
In Death Stranding, videogioco di Hideo Kojima, l’estinzione è ciclicamente innescata dall’apparizione di una EE, ossia di un’entità estintiva. Questa figura sembra molto simile a quella dello exterminator, trattata da Nick Land. Sia in Bloodborne che in Death Stranding è presente l’elemento poetico del cordone ombelicale come se questo fosse un tentacolo proteso, una connessione verso un altro mondo. Tentacolare è anche il Dio Antico di Legacy of Kain, che accoglie Raziel, il vampiro protagonista di Soul Reaver, sul fondo dell’abisso: il lago dei morti. Raziel afferma che, in seguito alla caduta, il tempo smise di esistere: “la discesa mi aveva distrutto, eppure vivevo ancora”. Si tratta di un’inversione rispetto a quella che Cioran chiamava “la caduta nel tempo”, ossia l’ingresso di Adamo ed Eva nella dimensione del divenire, dopo la cacciata dal Giardino dell’Eden. Nel mito biblico, il tempo inizia dopo la caduta: Raziel, invece, cadendo se lo è lasciato alle spalle.
In Legacy of Kain: Soul Reaver, ci viene detto che la ruota del tempo si è inceppata: l’agonia storica citata poc’anzi si manifesterebbe proprio attraverso uno squilibrio nel naturale ordine delle cose. Il vampiro Raziel, restio ad accettare questa sua nuova forma perversa di esistenza, invoca il diritto all’oblio dell’essere che, con le parole del filosofo Martin Heidegger, corrisponde alla “storia in cui dell’essere non ne è più nulla”. Anche il nulla è una storia? L’essenza dell’essere potrebbe allora celarsi nel mito di Narciso: l’auto-narrazione (o autofiction?) diventerebbe così lo strumento dell’essere. «Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità» afferma Emil Cioran, ne La caduta del tempo.
Il concetto di trascendenza, in Bloodborne, si lega alla cosiddetta “orribile verità”, ovvero la consapevolezza del ruolo infimo che l’essere umano occupa nell’universo. Una tematica, questa, tipicamente lovecraftiana. Verosimilmente, la nostra “orribile verità” riguarda la natura, forse tutt’altro che irriproducibile, della nostra intelligenza. Se quel “soffio vitale” si rivelasse soltanto una parte replicabile di un software, l’antropocentrismo come processo smetterebbe di funzionare, o avrebbe quantomeno bisogno di un update. L’intelligenza, narcisisticamente, stenta a vedere altre intelligenze rispetto alla propria. L’automa, un misterioso personaggio di Bloodborne, sembra essere lì proprio per sfidare ulteriormente la nostra concezione di essere vivente. Ricevendo questa nostra “orribile verità”, sarebbero chiare le conseguenze di quell’evento che Land chiama “singolarità”: quel momento, cioè, nel quale l’intelligenza artificiale ottiene un potere sufficientemente grande da emanciparsi ed esautorare l’umano.
La macchina, essa stessa organismo, ci apparirebbe allora come un Grande Essere di Bloodborne che, bucando il tessuto storico, emerge dal materiale umano. Nel gioco di Miyazaki, il boss noto come Rom, il ragno ottuso, svolge la funzione di barriera. Come un velo di Maya, il ragno preserva gli esseri umani dalla visione delle potenze celesti che gravano su Yharnam. Rom, The Vacuous Spider, è allora un Grande Filtro, riprendendo il concetto citato da Land e tratto dal paradosso di Fermi. Con l’espressione Great Filter ci si riferisce a un ostacolo che, nel celebre paradosso, impedirebbe alle civiltà di espandersi eccessivamente nell’universo. All’inizio del gioco possiamo leggere un misterioso messaggio, che dice: “cerca il sanguesmunto per trascendere la caccia”.
Occorre dunque abbattere il Grande Filtro, per raggiungere il cielo stellato. Il suo nome originale, Hakuchi no kumo Roma, significa letteralmente “Roma, il ragno idiota”, con riferimento diretto al romanzo di Dostoevskij e al film, a esso ispirato, di Kurosawa. Attraverso la barriera-simbolo di Roma, sedicente capitale del mondo, possiamo leggere lo stato del rituale mondiale di riformattazione geopolitica. Roma caput mundi, e per estensione un’Europa mai così marginale sullo scacchiere internazionale, affronta oggi quella che Cioran chiamava la fatica storica, la lunga agonia di una civiltà morente: “I Romani non sono scomparsi dalla faccia della terra in seguito alle invasioni dei barbari né a causa del virus cristiano, un virus ben più sottile fu loro fatale”, scriveva proprio il filosofo rumeno. Un grande tramonto come astrazione viscosa potrebbe dunque divenire visibile come Amygdala, il Grande Essere dalle sembianze di aracnide, su San Pietro.
Dopo aver sconfitto Rom, Yharnam appare infatti per come davvero è: infestata da giganteschi ragni che, sino a poco prima, erano invisibili. Il cosmo ha donato “gli occhi della mente” alla cacciatrice. Il declino avviene, sempre citando Cioran, attraverso un picco di lucidità collettiva, oppure mediante un alto valore di intuizione, per continuare il parallelismo con Bloodborne (nel gioco, l’intuizione è un valore che influenza diverse dinamiche). Il declino, tuttavia, rappresenta anche la possibilità di imparare a coesistere con la catastrofe, come sosterrebbe la filosofa Donna Haraway. Tornando a Nick Land, quello che il filosofo britannico chiama Human security system trova un corrispettivo nella normalizzazione che i cittadini della città di Yharnam operano sulla terribilità delle forze in atto.
Gli abitanti, durante la notte della caccia, si rinchiudono nelle loro case per proteggersi da una verità contagiosa: si tratta, potremmo dire, di una prassi sociale conservativa che serve a confermare, tautologicamente, una percezione rassicurante della realtà. In Ecce homo, Friedrich Nietzsche parlava della capacità di sopportazione della verità come la sua unità di misura dell’essere umano: la protagonista di Bloodborne è proprio un essere umano che, di essa, vuole farsi carico. Un oltreuomo, dunque, che crea da sé un ponte per raggiungere la luna. Parafrasando Così parlò Zarathustra di Nietzsche, l’essere umano è un cavo teso tra la bestia e il cosmo. Nick Land, attraverso l’uso di droghe e alla sua attività febbrile, ha cercato di entrare in contatto con la macchina, il suo cielo costellato di silicio. Esponendosi al delirio, ha cercato di installarsi nella tradizione dei cacciatori per la quale Nietzsche stesso è maestro, quella di coloro che sono morti pazzi. Per ora, Nick Land è ancora l’allievo vivo de il “crocefisso’’, come prese a firmarsi un Nietzsche ormai in preda alla pazzia.
La presenza della luna è centrale tanto in Bloodborne quanto nei versi del poeta Georg Trakl. L’immaginario del poeta austriaco si sposa sorprendentemente bene con il videogioco gotico di Hidetaka Miyazaki: la sera, la luna, il tramonto, il silenzio, il grembo e l’oscurità sono elementi poetici comuni a entrambe le opere. Il filosofo Martin Heidegger si è servito dei versi di Trakl per discutere il tema del linguaggio in alcuni saggi, raccolti in Italia all’interno del volume In cammino verso il linguaggio. Il filosofo Nick Land si è quindi occupato della lettura heideggeriana della poetica di Trakl nel suo saggio Narcisismo e dispersione, contenuto nell’edizione italiana Collasso. Il poeta Georg Trakl è anche autore del libro Dal calice d’oro, il cui titolo stabilisce una suggestiva connessione con i calici di Bloodborne. Nel gioco, i calici sono di fatto chiavi per addentrarsi nei chalice dungeons, i labirinti ctoni che si estendono, sempre diversi, procedurali, sotto la città di Yharnam. Il calice è, simbolicamente, correlato al sangue di Cristo, ma anche alla fertilità e alla luna. La luna rossa di Bloodborne ha un suo corrispettivo nel Libro di Giole, nel quale essa è segno della grande e terribile venuta del Signore. La luna rossa, inoltre, ha valore di inquietante presagio anche in The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Il satellite ha un ruolo centrale pure in The Legend of Zelda: Majora’s Mask, assieme al tema del loop temporale. Per il mistico armeno George Gurdjieff, reso popolare anche attraverso le canzoni di Franco Battiato (suo è, per esempio, il concetto di centro di gravità permanente), la luna si ciba letteralmente degli esseri umani e della loro energia, condizionandone l’esistenza attraverso 96 leggi costrittive: un destino abbastanza simile spetta alla protagonista di Bloodborne, in uno dei possibili finali.
Il tema della maternità, invece, si pone al centro stesso degli eventi del gioco mediante il personaggio di Yharnam, la Regina Pthumeriana che dà il nome all’ambientazione stessa. Tale regina si presenta come una sposa dal ventre ricoperto di sangue. “Mestruazione” deriva dall’avverbio latino “menstrum”, che significa “una volta al mese”, e si associa al personaggio di Mensis, vale a dire “mese”. La parola mensis è anche correlata a mens, mente. Questa allusione non è di certo casuale, visto che Mensis appare nel gioco come un cervello. In Bloodborne, gli adepti della scuola di Mensis si contraddistinguono per l’uso di un particolare copricapo: una gabbia esagonale, la quale costringe la testa di chi la indossa. La funzione di questa gabbia è quella di ridurre la percezione della propria individualità, per poter vedere il mondo per come esso è davvero: come a dire che siamo noi stessi soltanto di fronte al nostro nulla.
L’essere umano, straniero al mondo, sembra intrappolato nel suo sogno, ossia in quel gioco di specchi che è il pensiero: “è la mente che fuorvia la mente”, recita una poesia tradizionale giapponese. Anziché guardare la sua alterità e riconoscersi in essa, il pensiero distingue (divide) tutto ma nulla discerne (vede). Il termine giapponese “Suigetsu” si riferisce alla luna riflessa nell’acqua, indicando proprio una corrispondenza tra chiara visione e quieto pensiero. Nella scena forse più iconica di Bloodborne, il maestro Willem della scuola di Byrgenwerth indica la luna, ed “erortern”, ci dice Heidegger, vuol dire “indicare il luogo”. La protagonista si trova ora dinnanzi alla luna e al suo doppio, l’immagine riflessa nel lago. Il maestro Willem indica il luogo di Bloodborne in quanto poema: la luna come realtà bifronte, un Giano celeste che guarda verso due assoluti corrispondenti, ovvero la follia tramite la conoscenza e la conoscenza tramite la follia. La protagonista si getta quindi nell’immagine specchiata della luna, per proseguire nel gioco.
Se è vero che qualunque poeta muove sempre a partire da un singolo poema, il luogo del poeta Hidetaka Miyazaki è quello che riguarda l’insondabilità del mistero, vale a dire il mistero nella sua essenza. Il luogo di un poeta è il suo stile, la cifra che abita, cioè il principio fondante del suo discorso-mondo. Come ci ricorda Heidegger, tuttavia, nessun poema si esprime completamente: resta sempre una lacuna, la quale non viene colmata neanche dalla somma di tutti i poemi. La lore, la narrativa implicita e silenziosa, fa di questo non detto il suo tesoro inesauribile. I mondi di Hidetaka Miyazaki sono sempre sospesi nell’abisso dell’essere, fiamma acquatica entro la quale nuota un animale, sfumato e (im)possibile, che custodisce nello stomaco la scintilla della sua esistenza e del suo annientamento. Il punto debole di un boss è la sua stessa ragione d’essere, di essere “per la morte”. Scendere nell’abisso vale a dire risalire, genealogicamente, al proprio nulla. D’altro canto, affrontare la notte di Yharnam vuol dire tramontare, cioè mettersi in cammino verso ciò che sta, come direbbe Friedrich Nietzsche, oltre il troppo umano. Se il tramonto è un fatto di sangue, il cielo è un abisso: Χάος, Kos, oppure Kosm? Caos o cosmo, ossia ordine? Citando direttamente Bloodborne: “The Sky and the Cosmos are One”.
Nella poesia crepuscolo spirituale di Trakl, compare una fiera oscura: per Heidegger, ci dice Land, quell’oscuro animale è “la fiera azzurra che negozia la differenza fra animalità e apertura dell’orizzonte dell’essere”. Nick Land insiste sull’inefficacia lessicale di beast, come traduzione di wild. Il termine wild, infatti, “non si limita a indicare un essere vivente ma una condizione selvaggia in senso lato, che predispone a una mutazione ontologica”. La parola bestia ha un’accezione negativa anche nel mondo di Bloodborne: essa rappresenta una forma deteriore di esistenza. La fiera azzurra rappresenterebbe allora l’essere umano che si apre al non umano, dopo aver intuito l’assenza di una barriera ontologica che la separa dalle altre specie esistenti, ma anche dallo stesso cosmo. Il “salto ontologico”, citando e rovesciando una formula usata da Giovanni Paolo II, non sarebbe allora un’esclusiva dell’essere umano, poiché tutto trascende. L’azzurro, per di più, è un dispositivo poetico ricorrente: è il Blaue Blume di Novalis, il simbolo di una fioritura verticale, verso l’alto, verso l’altro. Allo stesso modo, nel gioco di Hidetaka Miyazaki il colore blu è associato alle creature che si sono avvicinate al cielo.
La condizione di alterità, temporanea, va intesa come punto di partenza: mettendosi in cammino verso ciò che è altro rispetto a sé, la fiera azzurra si mette in cammino verso se stessa. La fiera azzurra, dice Heidegger, “esiste in uno stato di indeterminatezza perché non è ancora rincasata nella sua terra, a casa, ovvero all’origine della sua essenza che è velata dal mondo”. Ma che tipo di determinatezza ci aspetta nel cielo sopra Yharnam? Probabilmente quella dell’assolutamente mutevole, la transizione nel suo compiersi: l’essere che diviene l’essere. Così, la protagonista di Bloodborne si predispone non già a diventare bestia ma a “divenire invertebrato”, citando il volume sull’antispecismo curato da Massimo Filippi e Enrico Monacelli. L’immaginario di Bloodborne, popolato come è da parassiti, funghi, molluschi, larve, finanche alieni, può essere letto attraverso il groviglio d’occhi di questo “antispecismo viscido”: gli eventi narrati in Bloodborne diventano allora l’atto di rimozione delle vertebre, cioè gli elementi cardine, di un pensiero stabilizzante.
L’horror gotico di Miyazaki si trasforma, così riletto, nella rappresentazione digitale dello Chthulucene di Donna Haraway. Sebbene nel gioco esistano una moltitudine di piani dimensionali, il sesso e il genere sembrano tuttavia avere ancora un ruolo, nella riproduzione dei Grandi Esseri: Ebrietas, Daughter of the Cosmos, è una femmina. Strano pensare che proprio i cugini cosmici delle lumache, molluschi ermafroditi, siano ancora così vincolati alle nozioni di maschile e femminile. La natura dei Grandi Esseri va comunque oltre alla comprensione umana e sì, sto letteralmente discutendo del sesso degli angeli. L’epoca dello Chthulucene (termine derivato da Khthon, parola che allude al mondo ctonio, cioè sotterraneo) consiste nell’era della contaminazione totale, dell’iper-connessione tra regni biologici, fra di loro alieni nel senso più ampio, all’ombra della catastrofe. La manifestazione di queste connessioni a un tempo sotterranee e celesti rende chiaro che nessuna forma biologica può dirsi fissata. Parafrasando Death Stranding, opera interamente incentrata sul tema delle connessioni, lo Chthulucene è quel momento nel quale lo stranding, lo spiaggiamento catastrofico, può essere convertito in uno strand, cioè in un legame.
Nel videogioco di Hideo Kojima, la capacità dei coralli di sopravvivere all’abisso è considerata la prova di un balzo evolutivo. In Bloodborne, vi sono particolari esseri chiamati Kin, creature dall’aspetto alieno, ascese a un piano superiore d’esistenza, il cui nome sembra proprio indicare una parentela rispetto ai Grandi Esseri del cosmo. La loro sembianza è spesso la commistione fra diverse forme di vita, come il Fiore Fluorescente, mostro simile all’incrocio fra una pianta carnivora e una scolopendra. Kin è anche un concetto fondamentale per Donna Haraway: la sua frase “Make Kin not Babies” è un invito a generare legami, intesi questi come connessioni più sottili, e non parentele nel senso tradizionale.
Il Grande Essere Oedon, con un nome che sembra un riferimento all’edipismo (inteso come atto di rimozione degli occhi, pratica alla quale il gioco allude) può suggerire anche una prospettiva letteralmente antiedipica: più che rimuoversi gli occhi, più che rendersi ciechi come fece Edipo, è possibile aggiungerne di infiniti, ricavando dal proprio corpo infinite cavità oculari, divenendo infine puro sguardo. Sembra essere, questa, la scelta di Mensis, personaggio che appare nel gioco come un cervello ricoperto di occhi. Citando il Maestro Willem, il saggio che indicava la luna: “ciò di cui abbiamo bisogno sono più occhi”. Il Grande Essere Oedon, trasceso ancora più in alto rispetto agli altri Grandi Esseri, ha cessato di avere una forma divenendo pura voce. Carmelo Bene, la macchina attoriale che scelse la phonè come dispositivo, direbbe che gli occhi di un Grande Essere, un santo, “hanno visto la vista”. La condizione di santità indica proprio una forma di separazione dal mondo. Aristotele considera l’animale come dotato di phonè, cioè voce, ma non di logos: detto altrimenti, l’animale esprime suoni ma non parole. La phonè sembra però portare più lontano della parola: è con la phonè che ci si sovrappone al mondo, annullando la propria individualità.
Jacques Derrida, autore de L’animale che dunque sono, discusse quella tesi heideggeriana secondo la quale l’animale sarebbe un essere “povero di mondo”. Lungi dall’essere una qualche forma di privazione, questa “povertà di mondo” può connettersi, creando una relazione “mostruosa”, alla “povertà in spirito” citata nel Vangelo secondo Matteo, per la quale tanto meno si corrisponde con se stessi, tanto più si corrisponde con il Regno dei cieli, cioè con l’assoluto. Nella Grecia antica, l’Odéion era un edificio legato al canto che garantiva una certa amplificazione vocale: il nome del Grande Essere Oedon, pura phonè, potrebbe anche derivare da esso. Appare significativo il fatto che, per potenziare le abilità della protagonista, occorra incanalare i cosiddetti “echi del sangue”, suggerendo che sia un suono a custodire l’energia del mondo. L’occhio è “ascolto”, dice Bene, e Oedon sembra proprio l’equivalente del linguaggio heideggerianemente inteso: il linguaggio è l’essere stesso, cioè “ciò che parla” nel senso più originario. Nel finale segreto, ottenibile attraverso l’uso di tre cordoni ombelicali, la protagonista rinascerà come lumaca, forma infantile di un Grande Essere.
Quella che può apparire come una regressione, va invece intesa come una involuzione in senso deleuziano, laddove il “divenire animale” rappresenta l’apertura verso il molteplice, il quale non è mai da intendersi come posizione fissa. Il titolo originale del videogioco Altered Beast è traducibile come “Cronache del re delle bestie”. Il protagonista del gioco può trasformarsi in diverse creature, come un licantropo: il divenire lupo, il divenire orso o il divenire drago è il privilegio del re delle bestie, di colui che si è reso molteplice, cioè mutevole. Bloodborne può essere letto come la storia dell’apertura verso l’essere, verso il linguaggio. Il cielo stellato e il lago notturno sono due abissi specchiati: il narcisismo è proprio la chiave di lettura che Nick Land usa per analizzare la lettura heideggeriana della poesia di Georg Trakl. Ogni cosa dice solo a se stessa e, chiamando, chiama a sé l’uguale: quell’identico, tuttavia, è l’esattezza di quell’informe che tutto specchia perché tutto è. Ogni cosa è specchiata: “quella che noi chiamiamo la notte, è solo un’immagine, la copia cioè, impallidita e svuotata della realtà vera, della notte”, leggiamo ne Il cammino verso il linguaggio.
L’uguale ritorna eternamente, assumendo forme sempre più sfumate, come una videocamera che riprende lo schermo al quale è collegata: è la pratica del loop, frequente nella video arte. Come nel mito di Narciso, l’immagine si annienta gettandosi dentro se stessa. La protagonista di Bloodborne è “lo straniero che cammina nella notte”, ovvero una persona che, aggiunge il filosofo tedesco, è detta “lunare”. Nick Land cita le “metamorfosi nichiliste” che fanno tramontare le presunte certezze ontoteologiche, preparando l’alba sulla magmatica indeterminatezza di “un tempo non ancora dispiegato”. Sono, queste, le metamorfosi di nuovi dei, ai quali corrispondono nuovi valori: Nietzsche ha dimenticato di dire che dio muore per rinascere. La tematica della piaga nella poesia del poeta austriaco, esattamente come nell’opera di Miyazaki, ha una doppia valenza: la piaga può generare conflitto, oppure simbiosi.
Il pharmakon, citato all’inizio dell’articolo come vaccino per la storia, è un termine che ha una doppia valenza: è un rimedio, ma anche un veleno, esattamente come il sangue antico di Bloodborne. Il cielo stellato, con quella che Land chiamerebbe “primordiale eruzione del patologico”, può mutarci in una belva oppure in un Grande Essere: Bloodborne rappresenta l’emorragia del possibile. Usando un termine heideggeriano, il superamento della barriera corrisponde a Ereignis, ovvero un evento disvelante: la straniera lunare attraversa la propria immagine specchiata, proseguendo il viaggio verso se stessa, verso quindi la propria alterità. Citando Lacan, “tu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe”. Il sanguesmunto, misterioso concetto o ente di Bloodborne, è allora la chiave per rispondere alla chiamata del linguaggio? Per dirla con un verso di Trakl, il sangue “ha pietrificato la soglia” del tempo: ricominciando il gioco, ci viene rivelata implicitamente la natura ciclica del sogno di Bloodborne. Non c’è mai stata una prima volta: ed è così che uno spettro sfreccia sul circuito della storia occidentale, cercando la fine del tracciato nel suo principio.