Un giorno mio padre tornò a casa con un sorrisetto stampato sulla faccia e una scatola di cartone a forma di valigetta, dentro c’era il primo computer portatile che io abbia mai visto. Era nero come un monolite, spesso come una bistecca, profumava di futuro. “Così finalmente potrò lavorare un po’ da casa e non andare sempre in ufficio” fu la frase con cui parò i raggi laser usciti dagli occhi di mia madre, non sapendo che l’avrei usata io stesso negli anni a venire per giustificare ogni acquisto tecnologico possibile, console comprese. Anche perché in casa sapevamo che in verità serviva solo ad avere uno spazio dove giocare in santa pace alle sue due grandi passioni: Sim City e Civilization.
Il primo mette il giocatore nei panni del sindaco di una città tutta da inventare, bisogna tracciare le strade, decidere come allocare gli spazi, scegliendo tra quartieri industriali, residenziali o commerciali, gestire le tasse, l’inquinamento, la sicurezza eccetera. Nel secondo dobbiamo gestire una civiltà dal suo primo accampamento, ancor prima dell’invenzione della ruota, fino all’epoca moderna, gestendo i rapporti con le altre popolazioni, l’amministrazione delle singole città e la crescita tecnologica.
Sono giochi che, per osmosi, ho amato e amo tuttora anche io, avendoli scoperti sul PC del suo ufficio e poi nella conversione per l’Amiga (c’è un intero capitolo dedicato a questo fantastico pezzo di hardware, e dagli un’occhiata se non l’hai già fatto). Questo amore era anche il riflesso di un’infanzia fatta più di computer che di console. Su queste ultime, infatti, era molto difficile trovare titoli strategici, visto il sistema di controllo basato su un gamepad; al contrario, su Commodore 64 e Amiga c’erano ovviamente giochi d’azione, ma erano meno veloci e spettacolari di quelli presenti sul Super Nintendo, mentre, grazie a mouse e tastiera, regnavano le avventure grafiche, le simulazioni e, appunto Sim City e Civilization.
Sim City in particolare aveva un fascino tutto suo, quello dei castelli di sabbia. Perché li costruiamo? Per sfida ingegneristica, per ambientarci le lotte dei soldatini, per vedere quanto riusciamo a farli grandi, ma parte del divertimento sta anche nel distruggerli, nel saltarci sopra come se fossimo Godzilla. Ecco, Sim City funziona allo stesso modo: puoi decidere che vuoi costruire la città perfetta, oppure puoi vedere quanto puoi andare avanti cercando di avere un tasso di inquinamento pari a zero, quanto grande può diventare la tua città prima del collasso e puoi persino invocare terremoti, uragani e mostri giganti per distruggerla.
Perché in Sim City tu sei Dio e qual è lo scopo di Dio? Di sicuro non lo sa chi vive nella tua città, anzi, non lo sa nessuno. Perché il bello di questi giochi sta nel loro paradosso: sono ‘non giochi’, ovvero titoli in cui non c’è uno scopo prefissato, un obbiettivo o, addirittura, una fine. C’è anche chi li definisce ‘software toy’, perché in fondo qual è l’obbiettivo di un giocattolo? Lo decide il giocatore. E quanto puoi giocarci? Finché ti va.
Quando si parla di videogiochi spesso ci si concentra su quelli che sono più spettacolari da vedere, che ci mettono nei panni di eroi incredibili o che scatenano più polemica. Stranamente, nessuno sembra interessato alla storia di un preadolescente che cerca di capire come gestire una città con efficienza o che impara a conoscere le figure storiche come Gandhi o Montezuma stringendo con loro trattati di pace. Se i walking simulator (c’è un capitolo apposta, ovviamente, se si vuol andare a vedere) puntano tutto sulla narrazione e i giochi open world come Grand Theft Auto (c’è bisogno che dica che anche per GTA c’è un capitolo dedicato?) allargano gli orizzonti della nostra esplorazione, ci sono generi che già da molti anni offrono un concetto di libertà simile a quello di Minecraft, ma virato verso meccaniche completamente differenti.
I ‘non giochi’ sono esattamente questo e al loro interno rientrano titoli che di solito identifichiamo come ‘gestionali’ o ‘god game’, oppure a volte anche titoli più strategici su vari tipi di scala. La forbice di ciò che ci è concesso infatti è estremamente ampia: a volte sei letteralmente un dio, altre volte il sindaco di un paesino, il regnante di una dinastia o il gestore di un parco giochi. In fondo alla scala c’è la gestione di un singolo essere umano in un sobborgo benestante di una città occidentale, ovvero The Sims.
Se la classificazione dei titoli si basa sull’incastro tra ciò che puoi fare, come puoi farlo e dove puoi farlo, questi titoli sono quelli che meno di tutti fissano un vero e proprio obiettivo da raggiungere, lasciando anche grandissima libertà sulla rotta. In alcuni casi c’è un obiettivo di massima, ad esempio il trionfo della nostra civiltà sulle altre, ma più che uno scopo o una missione è un po’ come decidere di fare un viaggio intorno al mondo lasciando che le tappe vengano decise sul momento. Questi titoli spesso ci permettono più di tanti altri di sperimentare con la nostra natura o vivere nei panni di chi non saremo mai, facendoci provare il brivido di disporre della vita di interi eserciti di fedeli, di un assessore all’urbanistica o un’architetta festaiola che cerca di bilanciare vita privata e lavoro.
Curiosamente, due esponenti di spicco del genere vedono la luce lo stesso anno, nel 1989. Questo non vuol dire che prima non esistessero altri esempi di ‘software toy’ o prodotti del genere; Elite, un titolo incredibile che ti permetteva di esplorare intere galassie facendo il camionista spaziale, il contrabbandiere e mille altre cose, è di due anni prima, tuttavia questo parto gemellare dell’89 è singolare. Uno dei giochi è proprio Sim City di Will Wright, l’altro si chiama Populous e lo sviluppa Peter Molyneux. Sono due opere con una storia per certi versi simile, ma che conducono lungo percorsi molto differenti. In entrambi i casi la scintilla arriva dal paesaggio.
Nel caso di Molyneux parliamo di un uomo che ha da poco aperto una software house con alcuni amici, chiamandola Bullfrog Productions, per capire cosa fare su questo nuovo potente computer chiamato Amiga. Improvvisamente si trova di fronte un paesaggio virtuale in isometria creato da un suo collega. Verdi colline, spiagge, specchi d’acqua, tutto coloratissimo e bellissimo per gli standard dell’epoca. Ciò lo affascina tanto che deve assolutamente farci qualcosa. Proprio come un dio, comincia a metterci degli omini che camminano, poi gli alberi, poi le case.
Un giorno si rende conto che il suo piccolo popolo ha dei problemi di programmazione: gli esserini quando si avvicinano all’acqua si bloccano, smettono di esplorare. Non sapendo come risolvere il problema, lo aggira: modificando il codice fa in modo che con un click del mouse il terreno si alzi e sostituisca l’acqua: questo ‘sblocca’ gli omini, che continuano con l’esplorazione. Poi si ferma un attimo a pensare e si rende conto che il solo gesto di alzare e poi abbassare il terreno può essere molto divertente. Tuttavia in giro per la mappa c’è troppa gente, il gioco rallenta, come risolviamo questo problema? Se uno di questi ometti, che loro chiamano ‘peeps’, trova uno spazio pianeggiante, quello diventa una casa. E più terreno c’è più la casa diventa grande e più aumenta la popolazione.
Attraverso difetti e limitazioni Populous comincia a prendere forma. Mentre Molyneux e i suoi soci giochicchiano con lo scenario pensano “e se ci mettessimo dei disastri naturali, tipo vulcani, terremoti, fulmini, esondazioni?”; buona idea, ma il potere infinito annoia, ci vuole qualcosa di misurabile, una forza che può crescere o diminuire. Quella forza sarà chiamata ‘mana’ ed è la fede garantita dai nostri seguaci ogni volta che si stabiliscono in una casa. D’altronde, come insegna Neil Gaiman con American Gods, non sei granché come divinità se nessuno crede in te. Volendo inserire un po’ di competizione, Molyneux introduce lo scontro con un’altra civiltà e inserisce un potere per far terminare la sfida, che altrimenti può andare avanti per ore e ore: con un tasto tutti i tuoi fedeli diventano soldati e danno vita a una vera e propria jihad in tuo onore. Se hai più fedeli dell’avversario, vinci e si passa allo scenario successivo.
Quando Molyneux cerca di proporre il gioco non lo vuole nessuno, parliamo di uno che si rivelerà tra i titoli più influenti sul futuro del settore ma nessuno è interessato perché la moda nel 1989 prevede giochi con più azione, astronavi, alieni eccetera. Uno pensa che ora, mentre esce questo libro, il mercato sia fiaccato dalle decisioni aziendali, e invece a quanto pare è sempre stato così. Alla fine a dire di sì è un’azienda che ha aperto da poco e ha un buco libero nel calendario: Electronic Arts. C’è solo un piccolo problema: alla Bullfrog Productions erano talmente estasiati dal gioco, dalle meccaniche di costruzione e da tutto il resto, che si sono dimenticati di inserire un finale dopo i 500 livelli previsti. Il massimo che si sono inventati è la faccia di un tizio che ricorda vagamente un goblin che si congratula con te alla fine di ogni livello e ti invita alla prossima sfida. Il problema è tuttavia relativo: credo che ben pochi abbiamo completato i 500 livelli del gioco, molti invece si sono divertiti sperimentando col terreno, con i vari scenari e con i poteri. Che te ne frega della fine quando sei un dio?