Durante un piovoso pomeriggio d’agosto, sul Playstation Store, sfogliavo l’elenco di videogiochi da poco usciti. Al solito, nella lista delle recenti pubblicazioni trova spazio almeno un titolo delle uscite ben pubblicizzate, del quale pure si sarà già sentito parlare nel chiacchiericcio virtuale. Si tratta di videogiochi normalmente riconoscibili, nelle liste-pozzo, anche grazie a una presentazione visiva più accattivante e, magari, a un titolo più evocativo della media. Liste-pozzo, dicevo: l’abisso infinito, quindi virtuale, da sfogliare verso il basso, per il quale la nostra intenzione d’acquisto vale come punto d’arresto, una superficie iperspaziale, per la monetina lanciata nel pozzo. Scandagliare le profondità degli store digitali, scrollando verso il basso, significa imbattersi nei software più anomali e bizzarri. La mia moneta digitale, del valore di 0,99 centesimi di euro, si è arrestata all’altezza abissale di un videogioco quantomeno particolare, dal titolo Organic Engine. Qualche ora più tardi avrei visto al cinema Crimes of the Future, l’ultimo film di David Cronenberg.
Decido, senza pensarci troppo, di acquistare il gioco: sono sempre stato affascinato dal body horror e, meno nello specifico, da qualunque rappresentazione che presentasse l’organico come elemento poco, o per nulla, rassicurante. Da Shin’ya Tsukamoto al già citato Cronenberg, passando per Junji Ito, la mia immaginazione si è sempre nutrita di fantasie d’ibridazioni estreme, fra sistemi organici e inorganici, e di altre mutazioni, con una forte enfasi sul senso di disagio dovuto al coesistere con un corpo divenuto alieno, o alienatosi rispetto al suo funzionamento ritenuto normale. Non solo Le avventure del ragazzo del palo elettrico di Tsukamoto, allora, ma anche gli esseri-fungo nella miniserie televisiva di Fantaghirò, per la regia di Lamberto Bava. Gli ortaggi antropofagi, poi, sono l’apice grottesco del suddetto racconto fantasy, che tendo anche ad associare al dipinto Vertumno di Giuseppe Arcimboldo, il celebre volto costituito da verdure.
Fantasticando sul gioco appena adocchiato, sbrigo alcune faccende relative alla sicurezza della mia carta di credito, quindi perfeziono, come si dice, l’acquisto. Al peso di Organic Engine, decisamente modesto, corrisponde un download praticamente immediato. Appena avviato, realizzo come questo videogioco sembri uscito proprio dall’immaginario del regista di Videodrome: la materia organica, costituita da vertebre e tentacoli, si muove per alimentare qualcosa che, anche al termine della partita, verrà lasciato nel mistero più totale. Un mistero celato anche dietro all’impersonale sfondo nero, il quale sarà anche l’unica ambientazione, per così dire, del gioco: ancora più misterioso, tuttavia, è il gameplay. Organic Engine si colloca nel particolare filone dei videogiochi chiamati incremental games, ovvero un genere volontariamente basato sull’assenza di interazioni complesse, nel quale spesso occorre semplicemente cliccare un pulsante, per poter progredire nel gioco.
In Organic Engine si genera valuta, per l’appunto, con la pressione compulsiva di un tasto, e con tale valuta si possono acquistare nuove componenti del motore organico, che di fatto automatizzano tale processo. La sola eventualità negativa, capace di invertire il processo della crescita organica, è quella del breakdown, un malfunzionamento che causa la perdita di denaro. L’aspetto curioso di questa dinamica è che tale evento negativo viene completamente neutralizzato dopo una manciata di minuti soltanto, trascorsi i quali l’automazione, garantita dagli innesti acquisiti, fornisce gli introiti per una crescita comunque sempre esponenziale. Dopo aver dato il la, l’organico orchestrale della carne esegue la sua partitura, mentre al giocatore, il logos che ha fornito la scintilla di questo movimento, non resta che scegliere l’ordine di acquisto delle nuove componenti organiche.
Aggiungendo poco al nulla, va detto che neppure l’ordine di acquisizione degli innesti, tra i quali figurano tumori, cristalli e un misterioso cubo organico, condiziona il risultato finale, che resta sempre il medesimo. Una volta realizzato quanto irrilevante sia l’ordine di acquisizione delle componenti, non rimane quindi che acquistare come un ossesso qualunque elemento sia nel frattempo divenuto alla nostra, sempre (es)crescente, portata economica. Le ossa, gli ammassi tumorali, il grembo e la sovra-mente del motore, andranno allora ad assumere una collocazione predefinita, una volta spesa la valuta necessaria all’acquisto. Il motore organico ha soltanto una possibile forma, raggiunta la quale il gioco termina, peraltro molto brevemente. Non c’è spazio per l’agency, o per la personalizzazione del motore: al contrario, questo videogioco sembra uno spazio digitale adibito alla spersonalizzazione di chi lo gioca.
Organic Engine consiste, allora, nello spossessarsi della propria coscienza, assistendo a quello spettacolare quanto sanguinoso ammassarsi del reale sul reale che prende il nome di vita. Come dimostrata l’assenza di libero arbitrio, osserviamo non già il frutto della nostra azione, la conseguenza del tasto cliccato, ma il processo del quale siamo stati un mero tool, uno strumento anche noi automatico di accumulazione. In Crimes of the Future, attualmente nelle sale cinematografiche, David Cronenberg racconta la vita di un artista il cui corpo genera, spontaneamente, nuovi organi. Si tratta di un film riuscito, molto canonico rispetto alla cifra stilistica del regista canadese e, forse anche per questo, molto preciso sia strutturalmente che concettualmente. Ritorna il body horror, anche se l’orrore può essere percepito soltanto dallo spettatore: nel nuovo film del regista canadese, la dimensione del dolore sembra essere abolita. Un po’ come per gli incidenti automobilistici del film Crash, sempre di Cronenberg, e ispirato all’omonimo romanzo di Ballard, dalla chirurgia estrema i personaggi del racconto traggono piacere sensuale.
Il motore di Organic Engine sembra uno dei congegni biomeccanici ai quali ricorre il protagonista di Crimes of the Future, per favorire il sonno e gestire la sua, problematica, digestione: si tratta di dispositivi che sfidano continuamente la nozione di organismo biologico. Utilizzando un aggettivo che descrive le prospettive del caso, anche o soprattutto videoludico, potremmo definire la condizione del protagonista del film come una generazione procedurale di materia organica. Un big bang nell’universo corporale, come lo era quello di Akira ma dentro un altro corpo, quello urbanistico di Neo Tokyo. Crimes of the Future si concentra sul concetto di evoluzione, sugli scenari biologici più inattesi.
Per quanto visivamente cronenberghiano, Organic Engine mostra invece il motore predeterminato dal calcolo, il dato di fatto e meccanico dell’essere: l’esistenza come fenomeno incrementale, come forza finalistica rispetto a uno scopo che resta, tuttavia, umanamente incomprensibile. Se, ventenne, avessi letto il pessimismo antinatalista di Ligotti e Zappfe, avrei di certo concordato con loro. Oggi, per dirla alla Nick Land, sono più dalle parti di coldness be my god: forse, ho cliccato troppe volte sul cadavere di Dio. La volontà di Schopenhauer, il software di questo motore organico, ci vede benissimo: è il nostro corpo, che preme compulsivamente sul tasto del senso, a essere un suo cieco strumento.