Nel corso della chiacchierata a Thomas Mahler, CEO di Moon Studios, sfugge più di una volta la parola “capolavoro”. Sta parlando dell’imminente Ori and the Will of the Wisps, il sequel di un ottimo metroidvania come Ori and the Blind Forest, pubblicato nel 2015; e poi delle sue motivazioni personali, di quelle della squadra, e del motivo per cui, dopo un decennio, lo studio ha prodotto solamente due giochi, compreso quest’ultimo, in arrivo l’11 marzo.
Definire capolavoro una cosa che hai fatto, prima ancora che sia uscita, potrebbe sembrare arrogante—un po’ pretenzioso, persino presuntuoso—in altre circostanze. Ma in questa occasione? Ci sta. Semplicemente ci sta. Ori and the Will of the Wisps potrebbe anche rivelarsi un’opportunità persa. Qualcosa potrebbe andare storto. Potrebbe non rivelarsi così buono. Ci sono tanti “potrebbe”.
Probabilmente però non andrà così: l’esperienza del primo titolo, e il fatto che Microsoft, publisher del gioco e partner dello studio (pur non possedendolo—Moon Studios mantiene la propria indipendenza) abbia evitato di metterci le mani, permettendo al team di sviluppo di prendersi il proprio tempo, sembrano essere tutti segnali positivi, che portano nella giusta direzione.
Questo sequel sarà dunque un capolavoro? Non possiamo saperlo finché non sarà uscito. Quando Mahler dice che lui e la squadra, distribuita in giro per il mondo, puntano ad averne realizzato uno, però, abbiamo motivo di credergli. Come si sarà intuito, abbiamo parlato con Mahler di Will of the Wisps: influenze, speranze e aspirazioni, la questione del capolavoro, e perché questo gioco starà al precedente come Super Mario Bros. 3 stava al Super Mario Bros. originale.
Come sono cambiate le cose nello studio dopo il primo gioco?
Abbiamo uno studio completamente diverso ora—quando abbiamo iniziato a lavorare a Blind Forest eravamo circa 20 persone. Lo abbiamo pubblicato nel 2015 e, da allora, siamo diventati uno studio con 70 persone, e abbiamo molteplici progetti in fase di sviluppo.
Perciò sono cambiate parecchie cose. Negli anni passati abbiamo cambiato dimensione, facendo dello studio un luogo in cui potessimo lavorare con così tante persone, pur continuando a farlo in maniera distribuita.
L’idea per lo studio è sempre la stessa: proviamo a tenere unite tante persone di talento, che hanno una grande passione per lo sviluppo di questi giochi e vogliono spingersi verso nuovi traguardi, lasciare un segno nel settore, realizzare capolavori.
Lo facciamo però in un modo più maturo adesso.
In che modo questi cambiamenti hanno contribuito allo sviluppo del sequel?
Quando abbiamo iniziato Will of the Wisps, l’idea era questa: sapevamo di aver fatto qualcosa di buono con Ori and the Blind Forest, eravamo molto contenti dei controlli delle sezioni platform, e in Blind Forest la componente platform era centrale.
Quando eravamo partiti con quel progetto, ero deluso dal fatto che i tipici metroidvania non avessero controlli particolarmente complessi, e a volte nemmeno troppo buoni—di solito sono molto basilari.
Se pensi a titoli come Castlevania: Symphony of the Night, ma pure Hollow Knight, giochi del genere sono molto basilari; le sezioni platform non sono sullo stesso livello di ciò che trovi in qualcosa tipo un Mario in 2D. Perciò in Blind Forest la nostra sfida era questa—volevamo essere all’altezza di Nintendo in termini di level design e di controlli.
Con Will of the Wisp è stato differente—sapevamo di avere del buon materiale, ma mi era chiaro che non doveva essere un seguito per fare cassa, non volevamo fare un sequel noioso—non siamo quel tipo di studio.
Siamo sempre stati alla ricerca di partner che ci permettessero di farlo, e Microsoft è stata ottima in questo—hanno capito alla perfezione che volevamo essere lo stesso tipo di studio che era Blizzard tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, in cui sapevi che un gruppo di gente folle stava cercando di rifinire i propri giochi fin nei minimi dettagli, provando a fare dei capolavori. Ogni volta che pubblicavano qualcosa era un evento.
Mi capita di fare paragoni con Super Mario Bros. 3—se pensi a quei giochi, il primo Super Mario Bros. era un platform davvero essenziale. Era un buon gioco, ha rivoluzionato il modo in cui funzionano i platform, con lo scrolling orizzontale e livelli progettati decisamente bene, e così via—ma poi hanno dovuto decidere in che direzione andare con Super Mario Bros. 3.
Hanno aggiunto tanti altri elementi di cui il gioco ha beneficiato—una mappa per ogni mondo, sprazzi di non-linearità, i costumi, la possibilità di volare, c’erano così tante caratteristiche che rendevano l’esperienza complessiva più profonda e soddisfacente. Potevi giocare una nuova partita e magari non usare il costume Tanooki, e l’esperienza di gioco cambiava.
È stata un’evoluzione naturale, consentita dall’aggiunta di nuovi elementi, e noi abbiamo fatto la stessa cosa con Will of the Wisps.
Come si progetta un buon platform?
Con un’iterazione costante. Ogni livello di Ori è progettato in modo che ogni salto sia soddisfacente. Anche per i controlli ci vuole un’iterazione costante. Con Blind Forest abbiamo passato più di un anno e mezzo solamente perfezionando i controlli, facendo sì che ogni salto, ogni abilità, ogni azione possibile per il giocatore fosse soddisfacente.
Con Will of the Wisps ci siamo spinti oltre—abbiamo ricercato la precisione, i valori migliori, cercando di rendere tutto ancora più perfetto. In sostanza, si tratta di avere i designer seduti insieme ai programmatori a provare lo stesso salto un centinaio di volte, cambiando i valori di uno 0,02%—è una pazzia, ma molte volte è così che arrivi al momento in cui trovi la quadra.
È una forma d’arte, ci sono certi valori di fronte ai quali il cervello umano ha l’impressione che le cose siano giuste. L’unico modo in cui puoi ottenere tale risultato è provare e sbagliare, provare un altro valore, sbagliare, provare ancora, finché non funziona.
Ci sono state modifiche rilevanti rispetto al primo gioco?
È sempre un metroidvania, ma è più aperto. Direi che Blind Forest era molto più lineare; Will of the Wisps a un certo punto si apre e puoi fare quello che vuoi. Penso che sarà interessante vedere in che modo giocheranno i giocatori, cosa sceglieranno di affrontare prima, o se si perderanno nell’esplorazione.
Il cuore del gioco—è un platform, con un level design molto rigoroso—resta lo stesso, ci sono tante sezioni platform che richiedono precisione. Sono solamente mescolate di più con tutti i nuovi elementi.
Cosa è cambiato in termini di strumenti di sviluppo?
Il punto con questi progetti è che alla fine della produzione gli strumenti sono ben calibrati; diventa davvero facile progettare altri livelli e mettere insieme i vari pezzi.
In generale però il nostro desiderio era fare un salto di qualità—non volevamo che qualcuno lo ritenesse il classico sequel; volevamo che per i giocatori questo sembrasse un Ori 3, dopo aver saltato il secondo capitolo, per quante novità presentava.
Per quanto riguarda gli strumenti di sviluppo, stiamo lavorando con Unity per le fondamenta del gioco, e il motivo sono le molte ottimizzazioni che abbiamo dovuto aggiungere al motore al fine di avere una grafica come quella che abbiamo e mantenere comunque prestazioni stabili a 60 frame per secondo su console e a 120 o 240 hertz su computer.
I nostri strumenti e il motore di gioco sono cambiati così tanto che abbiamo iniziato a chiamarlo Moonity—la maggior parte delle cose che facciamo con Unity le facciamo usando roba sviluppata da noi.
Si tratta solo di una costante iterazione con questi strumenti, cercando il flusso di lavoro migliore per ciascuno. Abbiamo molti strumenti social nei nostri canali, perché lavoriamo in maniera distribuita—con 70 o 80 persone è sempre una sfida.
Due giochi in dieci anni: come mai questo approccio artigianale?
Ci piace. Sono molto grato a Microsoft per averci permesso di lavorare in questo modo—non ci hanno chiesto un sequel nel giro di un anno, non si sono mai comportati così. Li abbiamo contattati e abbiamo proposto loro un sequel, ma l’ultima cosa che volevamo fare era un seguito realizzato in tutta fretta.
Volevamo badare alla sostanza. Penso che in questo siamo simili a Playdead—credo che esistano da più tempo di noi, e hanno fatto Limbo e Inside, nient’altro. Mi piace questo approccio, perché proviamo sempre a fare dei capolavori. Giochi che, se usciranno, lasceranno un segno; giochi a cui i giocatori possano affezionarsi, progetti rispetto ai quali possiamo dire di aver fatto tutto il possibile per ottenere qualcosa di eccellente.
Definiresti il primo Ori un capolavoro?
È stato il nostro primo progetto—siamo fieri di quel che abbiamo fatto, questo è certo. È stato difficile mettere su lo studio, lavorare in remoto con 20 persone, avere quel livello di ambizione, e arrivare al traguardo. Passare dall’essere un artista che lavora alle animazioni e produce prototipi per conto proprio, al proporre questo progetto, all’essere scelti da Microsoft—ci sono un sacco di passaggi che i giocatori non conosceranno mai.
Molti sforzi sono stati necessari per mettere su uno studio, e formare un’azienda. Siamo molto orgogliosi di Blind Forest e di ciò che proponevamo con quel gioco. È una domanda difficile. Io sono fiero di quel che abbiamo prodotto. È un buon gioco. Davvero buono. Ovviamente ci sono cose che sentivo avrebbero potuto essere fatte meglio, altrimenti non ci sarebbe stato un sequel.
Come pensate di mantenere lo stesso impatto emotivo e lo stesso livello di coinvolgimento nel sequel?
Abbiamo la storia di questo orfano che in sostanza perde la madre e vive tutte queste cose, passa attraverso queste esperienze. Mentre con Will of the Wisps si parla più che altro di consanguinei, e di come viene influenzata la loro vita; perciò, prendendo il lato umano della vita, Ori si presenta come un’allegoria.
Raccontiamo queste storie di fantasia con spiriti della foresta e creature strane e via dicendo, ma in realtà, alla fine, tutto riguarda il lato umano. La ragione per cui i giocatori si sono affezionati ai personaggi di Blind Forest è semplicemente il fatto che, quando la madre di Ori muore, ciò che ti viene in mente è subito qualcosa di relativo a quell’esperienza, se hai perso qualcuno che ami è la prima cosa a cui pensi.
In Will of the Wisps abbiamo fatto qualcosa di simile—non si tratta tanto di proseguire la storia, quanto di chiedersi quale sia il lato umano qui: come possiamo narrare una storia e affezionarci di nuovo e renderci ancora vulnerabili, con un racconto che i giocatori possano realmente connettere con le proprie esperienze di vita.
Se tali connessioni riescono, e coinvolgono veramente qualcuno a questo livello, allora penso che succede qualcosa di magico. Sono piuttosto sicuro che quando i giocatori completeranno Will of the Wisps—suona un po’ come una cosa impegnativa da dire, ma lo so già—il finale li colpirà duramente.