Un dialogo su Prey, il gioco di Arkane Studios pubblicato nel 2017 e ambientato nella stazione spaziale Talos I, dove la specie aliena dei Typhon ha preso il sopravvento.
GN: Parto dall’inizio, perché dopo pochi minuti di gioco in Prey c’è un colpo di scena notevole. Più ci penso più mi sembra stare lì come l’annuncio di un capolavoro, e oltretutto ho l’impressione che si tratti di un momento abbastanza unico per le modalità con cui si presenta. Il motivo è presto spiegato: i videogiochi, così come il cinema, ci hanno abituato a colpi di scena narrativi (penso a Bioshock, o a Il sesto senso), gli stessi che si potrebbero trovare in un libro. Quello di Prey invece è un colpo di scena puramente visivo, e si tratta di merce molto più rara. In ambito videoludico non ricordo particolari esempi, nel cinema mi vengono in mente i colpi di scena nei finali di Solaris o Il pianeta delle scimmie, che tra l’altro hanno la stessa funzione di quello di Prey, vale a dire mettere in discussione la natura del mondo in cui si trova il protagonista. Quei due film però piazzano quelle scene un attimo prima dei titoli di coda, mentre Prey, che pure riserva un secondo colpo di scena conclusivo, si permette il lusso di piazzare un momento del genere in apertura.
AL: In The Witness, di Jonathan Blow, tecnicamente è possibile raggiungere l’area finale del gioco qualche minuto appena dopo aver avviato la partita. Pur essendo un colpo di scena nascosto, letteralmente, alla luce del sole, nessuno potrebbe coglierlo senza l’esperienza maturata attraverso il gioco stesso. Nonostante questo approccio non lineare possa sembrare tipico del medium videoludico, anche il film Fight Club di David Fincher mostra il colpo di scena, attraverso frame subliminali, durante tutta la durata dell’opera. Quello di The Witness, così come quello di Fincher, potremmo definirlo un colpo di scena espanso: si tratta di una rivelazione sempre a portata di mano, non essendo dettata da una drammaturgia lineare, bensì da un cosiddetto eureka moment. Prey, come giustamente riporti, ricorre a un primo coup de théâtre lineare che sconvolge proprio per il suo posizionamento narrativo. Nel suo complesso, l’opera di Arkane Studios appare come un test attitudinale simile, nella sostanza, a quello a cui veniamo sottoposti, da una equipe di scienziati, durante l’incipit del gioco. Per molto tempo, ai videogiochi è stato associato il concetto di punteggio, al quale corrisponde, a sua volta, una valutazione. Prima di essere un’esperienza da vivere, il videogioco era molto spesso qualcosa da battere, to beat. Pur essendo molto meno distintivo, tale concetto sopravvive anche nel videogioco contemporaneo. Dopo una serie di critiche poste dalla community, la valutazione al termine delle missioni di Hitman non pertiene più soltanto la performance, ma anche lo stile di gioco. La valutazione racconta al giocatore chi è, come uno specchio didascalico. Perde così di rilevanza il valore che esprime, numericamente o simbolicamente, l’abilità di chi gioca. Il giocatore vuole, invece, riconoscersi nel gioco. La conclusione di Prey ruota proprio attorno al concetto di valutazione: superando il punteggio come espressione di abilità, il giudizio del videogioco riguarda infatti l’ambito comportamentale e morale. L’epilogo di Prey stupisce soprattutto perché tale giudizio è diegetico, posto cioè all’interno della narrazione. La parte centrale del gioco, tuttavia, resta più tradizionale, mentre una scelta così brillante avrebbe forse meritato di essere portata alle sue estreme conseguenze, magari attraverso l’eliminazione o la contestualizzazione del game over.
GN: C’è di più secondo me, perché con questa valutazione morale diegetica Prey rende trasparente la pratica sempre più diffusa, e decisamente opaca, di registrare le scelte di chi gioca per ricavarne un profilo psicologico, magari da rivendere a terzi. Si tratta di un tema delicato—per non dire problematico—già affrontato qua e là, che credo sarà sempre più centrale e dibattuto nei prossimi anni. Ad ogni modo, a te è piaciuto questo epilogo? Te lo chiedo perché se c’è una cosa che non mi è piaciuta di Prey è proprio questa. Un epilogo che contraddice il finale è un’operazione rischiosa: lo fa Soma—in sostanza una magnifica alternate take dell’esperimento mentale del teletrasporto da Marte—e lo può fare perché date le premesse entrambe le conclusioni restano vere, perciò la manifesta contraddizione è in realtà la perfetta chiusura di un cerchio. In Prey invece, mentre il finale è una diretta conseguenza delle scelte fatte durante il gioco, l’epilogo segue una direzione tutta sua. Alla luce dell’epilogo, insomma, ogni azione precedente assume i contorni di una “scelta fatale”, per dirla con Jean Baudrillard, ovvero “un’impresa nella quale opera una reversibilità involontaria, per il meglio o per il peggio. Un’impresa nella quale tendere verso i propri scopi vi trascina irresistibilmente in senso contrario, oppure nella quale non perseguire dei fini vi ci fa arrivare senza volerlo. C’è in ogni caso un superamento di ogni volontà”. Siamo di fronte allora all’invenzione di un destino, cioè a una risoluzione verso cui tutto precipita in totale spregio dell’agency di chi gioca, solo per poter lasciare le porte aperte a un eventuale sequel.
AL: Effettivamente, la parte centrale e preponderante di Prey potrebbe essere autonoma: sarebbe così stata una narrazione più lineare, ma anche meno interessante. La presenza dello sceneggiatore Chris Avellone, probabilmente, ha fortemente contribuito all’aggiunta di un’ulteriore stratificazione, rappresentata dall’epilogo. Anche nel suo capolavoro, Planescape: Torment, Avellone aveva evidenziato quanto il destino potesse essere tragicamente beffardo: come autore, sembra quasi suggerire che volontà e destino siano una diade difficile da distinguere, tanto da potersi rivelare, anche, una monade. La problematica della profilazione, invece, è affrontata anche in Death Stranding. Nel gioco di Hideo Kojima, la rete viene presentata come duplice: essa è uno strumento che permette alle persone di creare legami rendendole, tuttavia, anche più facili da sorvegliare, come in un panopticon telematico. Una relazione, allora, può essere simboleggiata tanto da una corda tanto dalle manette, qualora questo legame fosse di tipo costrittivo. La profilazione, dunque, diventa una pratica negativa quando serve a uno scopo predatorio: quando, cioè, non serve a dialogare positivamente bensì a manipolare. Citando ancora Hitman, il titolo di IO Interactive viene spesso criticato per il suo costante bisogno di una connessione internet, pur essendo un gioco single player. Al costo di una più libera fruizione del gioco, gli sviluppatori possono così raccogliere dati sulle attività dei giocatori, per migliorare, a detta loro, l’esperienza. Si tratta, comunque sia, di uno degli aspetti ritenuti più controversi della produzione. La posta in gioco della valutazione, nella narrazione di Prey, è molto alta: il futuro stesso della specie umana. Gli ambienti dell’astronave Talos I, costruiti attorno alla misura dell’uomo, sono un luogo un tempo sicuro ma ormai compromesso dalla forza oscura proveniente dall’esterno, quello spazio profondo nel quale l’astronave stessa aleggia. Come nella room di Silent Hill 4, Talos I rappresenta la dimensione domestica che viene invasa dall’esterno, il luogo familiare dove avviene l’incontro violento con l’ignoto. La schermata di caricamento, prima di assistere all’epilogo vero e proprio, indica che ci troviamo in un “luogo nascosto”. Dove ci trovavamo realmente? In questo gioco di titoli di coda e di testa che è Prey, la memoria stessa è divenuta il luogo dell’immortalità, un luogo nel quale poter ri-vivere qualsiasi esperienza.
GN: A proposito degli ambienti dell’astronave Talos I, ci sono parecchi luoghi che a distanza di tempo mi sono rimasti impressi nella memoria. A doverne scegliere uno su tutti, sarebbe senz’altro una stanza abbastanza anonima, uno dei tanti laboratori di ricerca. Non so se sia possibile visitarla prima, ma ricordo di esserci entrato nelle fasi avanzate della storia: avevo già dovuto abituarmi all’idea di poter sempre essere attaccato all’improvviso dai Mimic, gli alieni in grado di assumere le sembianze di un oggetto qualsiasi. La stanza di cui sto parlando è piena di strumenti con attaccata sopra un’etichetta con scritto “not a Mimic”. Mi ha davvero impressionato: in maniera indiretta esprime alla perfezione la paranoia che doveva essersi diffusa tra il personale della stazione spaziale. Prey fa un largo uso della narrazione ambientale, e ha il grande merito di non limitarsi, come spesso accade, a spargere in giro una quantità di testi da leggere. Quella stanza è un buon esempio; un altro potrebbe essere l’architettura delle varie parti della stazione, che contribuisce a raccontare la storia di Talos, costruita negli anni Sessanta dagli americani—in un’ucronia in cui Kennedy non è stato ucciso—a partire da un primo avamposto russo, e poi resa tecnologicamente all’avanguardia dalla corporation Transtar. Gli sviluppatori di Arkane Studios hanno fatto un lavoro incredibile non solo durante il processo creativo, ma anche nella fase preparatoria della documentazione; sono andati a spulciarsi di tutto, dagli archivi fotografici del Cern alle illustrazioni di John Berkey, fino a progetti come Time Machines di Stanley Greenberg. La Lobby, uno spazio che si visita già all’inizio e a cui si torna ripetutamente per tutta la durata del gioco, come racconta il lead visual designer Emmanuel Petit al Guardian—ma ti immagini un articolo del genere su una testata mainstream italiana?—ha come fonte di ispirazione i monumentali interni di una banca spagnola, la Caja Granada, a cui poi è stato dato un aspetto art déco, aggiungendo infine pezzi di interior design come divani Chesterfield e lampade sferiche in stile Bauhaus. Un lavoro pazzesco. In Prey non manca da leggere, ma anche ogni spazio ti racconta qualcosa se presti attenzione. Da questo punto di vista è notevole pure Control, che si spinge addirittura verso dimensioni metafisiche—sicuramente i giochi che si svolgono in ambienti chiusi sono avvantaggiati sotto questo profilo. Però ci vuole anche tanta abilità, creatività e pazienza. In troppi titoli la narrazione ambientale inizia e finisce con i testi che si trovano in giro, ma è un espediente pigro: libri, documenti riservati e mail interne diventano semplicemente contenitori in cui buttar dentro tutta la lore e non pensarci più. La narrazione ambientale non dovrebbe mai consistere solo in testi da leggere, ma prendere sostanza ovunque nel mondo di gioco; poi si può trattare anche di scritte, figuriamoci—“not a Mimic” del resto è una scritta su un foglietto. Anche “the cake is a lie” era una scritta su un muro.
AL: La figura del Mimic ricorre spesso nelle narrazioni fantastiche. Nell’ambito prettamente fantasy, la troviamo nel gioco di ruolo cartaceo Dungeons & Dragons, ma anche nella saga giapponese di Dragon Quest. Il Mimic, capace di mutare le sue sembianze, assume sovente la forma di un forziere: l’illusione di un lauto bottino si trasforma così nella circostanza di un pericoloso agguato. In Prey, il Mimic è il primo nemico, nonché il più comune, che incontriamo durante l’avventura. Questa versione sci-fi della nota figura ne conserva la caratteristica principale: come suggerisce il nome, il Mimic è in grado di assumere le forme più innocue, per attaccare quindi di sorpresa. Questo esemplare alieno, simile a un ragno, rappresenta pertanto una forma subdola di violenza, quella celata dietro l’apparenza innocua del quotidiano. Gli alieni di Prey, i cosiddetti Typhon, appaiono come ammassi di antimateria. Essi sono un concentrato instabile di energia oscura, notturna come lo spazio profondo dal quale provengono. Il più pericoloso fra i Typhon, non a caso, è un gigantesco spettro, un agglomerato di buio che prende il nome di Incubo. Il nome di questa specie aliena deriva da Tifone, il figlio di Gea e Tartaro nella mitologia greca, e significa “fumo stupefacente”. Il fumo, che in fisica rappresenta un esempio di attrattore strano, descrive bene la forma dei Typhon che, per quanto delineata, sembra sempre sul punto di disperdersi. La scelta di rappresentare gli alieni attraverso forme così mutevoli, costantemente perturbate, è funzionale al tema del gioco, il quale ruota attorno ai concetti di coscienza e di identità. I Typhon rappresentano l’anatomia buia, ignota, dell’assolutamente altro. Anche l’empatia, elemento fondamentale nella comunicazione, assume un ruolo centrale nell’opera, durante l’epilogo. Senza fare anticipazioni, il discorso del titolo Arkane si struttura attorno alla possibilità di creare un ponte tra sé e l’alterità. La specie aliena dei Typhon, lo apprendiamo nel gioco, non possiede neuroni specchio. Questi neuroni, il cui ruolo è ancora oggi oggetto di dibattito, vengono associati all’imitazione automatica di azioni e, nella letteratura scientifica più divulgativa, vengono descritti come i principali responsabili dell’empatia. Gli individui che soffrono di disturbo narcisistico sembrano sprovvisti della capacità di provare empatia: per tale ragione, la loro capacità di porsi in un dialogo autentico con gli altri è, almeno parzialmente, compromessa. Riscontrando una certa difficoltà a nutrire autentico interesse per altre persone al di fuori di sé, il soggetto narcisista cerca di appropriarsi di una certa gestualità, per mascherare l’assenza di empatia: è ciò che fa il Mimic, quando si nasconde sotto sembianze rassicuranti, come quelle di una tazza da tè, o di un fermacarte. L’atteggiamento di una persona affetta da disturbo narcisistico è definibile, per l’appunto, come predatorio. Prey, aldilà del contesto sci-fi, descrive il delicato momento della negoziazione fra diverse coscienze e individualità. Questo potrebbe allora essere il vero significato del titolo del gioco: non preda ma, appunto, l’atto del predare. Prey sembra proprio ricordare che il fragile momento del dialogo è, anche, il momento di una possibile violenza.