Qual è lo scopo della storia in un videogioco? Questa domanda è al centro sia della scrittura che del design narrativo. È solo un contesto per il gameplay o deve anche essere un modo per coinvolgere il giocatore e continuare a farlo giocare evitando che si stanchi delle meccaniche di gioco? Oppure serve a colpirlo dal punto di vista emotivo, a insegnargli qualcosa su se stesso e ad allargare i suoi orizzonti, come fanno spesso le grandi opere in altri media?
In Pyre il giocatore guida, attraverso un paesaggio devastato chiamato Downside, un gruppo di esiliati che si trovano lì dopo essere stati banditi dal Commonwealth, una nazione problematica bisognosa di una rivoluzione. Tre del gruppo alla volta competono in rituali sportivi religiosi noti come riti. Alla fine di ogni evento, la squadra vincente libera uno dei suoi componenti; perdonate le sue colpe, sarà nuovamente accolto nel Commonwealth.
Vincere un campionato e selezionare un personaggio da liberare è una scelta difficile, poiché si perde sia il suo valore strategico come membro della squadra (vedendo quindi ridotta la possibilità di liberare più persone in futuro), sia la sua presenza sociale tra le partite. Ma ci sono anche altre motivazioni in ballo: lo scopo è quello di provocare una rivoluzione nel Commonwealth, e le probabilità di successo sono legate proprio al rimandare indietro gli individui più adatti.
Oltre a questo, il giocatore si affeziona ai suoi personaggi. Ognuno merita di essere liberato, ma è impossibile liberare tutti poiché i riti sono solamente sette. Inoltre alcuni degli avversari saranno ottimi candidati da liberare, perciò in certe situazioni si arriverà a prendere in considerazione l’idea di perdere una partita di proposito.
In passato ho definito il modello ideale di una scelta etica complessa come una decisione con enormi poste in gioco e un numero di variabili troppo elevato perché siano prevedibili, ed è per questo che le scelte di liberazione in Pyre funzionano così bene. Inoltre, tutte le scelte coinvolgono un personaggio. Anche quando per la partita successiva si decide di prendere una strada costiera veloce ma esposta, oppure di attraversare una giungla (più lenta ma più sicura), ogni scelta è accompagnata da un personaggio che spiega la propria preferenza, e in questo modo la narrazione relativa al percorso preso rivela un aspetto in più del suo carattere. Qual è lo svantaggio, dal punto di vista dello scrittore? Il giocatore si perde enormi porzioni di dialogo, tutte quelle che riguardano i percorsi non scelti.
Pyre è stato il primo tentativo dello studio di affrontare il problema della morte. Sotto il profilo narrativo, il principale effetto di un gameplay di azione sportiva è che il fallimento non è più uno stato definitivo. I personaggi sono liberi di elaborare i loro fallimenti invece di vederli cancellati da un riavvio, e ciò, oltre a portare a relazioni più realistiche, significa anche che il gioco può rispondere a uno spettro più ampio di prestazioni del giocatore: sfumature di vittoria ma anche sfumature di sconfitta. Al contrario, Hades risolve la morte semplicemente facendo del morire in continuazione il punto del gioco. I personaggi elaborano costantemente la sconfitta e solo occasionalmente sperimentano la vittoria.
L’ultima opera di Supergiant racconta la storia di Zagreus, figlio del mitologico Ade, e della sua ricerca, che si ripete all’infinito, di una via di fuga dal labirintico mondo sotterraneo gestito da quel terribile padre. Lungo la strada il giocatore si imbatterà in una famiglia allargata di dei e di mortali, e ogni volta che li incontrerà loro avranno nuove cose da dire. La storia avanza in particolare tutte le volte in cui si muore e si ritorna al punto di partenza, dove il tentativo fallito viene ricompensato dalla presenza di un gruppo di personaggi con cose nuove e ben scritte da dire, che esortano il giocatore a ripartire.
Dietro le quinte, la storia funziona mettendo in coda linee di dialogo contrassegnate da diversi livelli di priorità e da varie condizioni che devono essere soddisfatte prima di poterle sbloccare. Quando si incontra un personaggio, il gioco seleziona l’interazione più interessante dalla libreria. Quindi, se di recente ho sconfitto per la prima volta il personaggio di Meg, nella prossima occasione in cui parlerò con il mio mentore Achille il gioco esaminerà i dialoghi disponibili e salterà quelli a bassa priorità; noterà che una conversazione un po’ più urgente su Meg è stata sbloccata e mi presenterà quella.
Heaven’s Vault era più o meno un intero gioco basato su questo, come lo era The Stanley Parable nel 2011, ma Hades è la prima volta in cui è stato applicato bene a un genere di per sé appassionante. In Hades però ci sono così tante interazioni possibili che spesso vengono gestite male, e i personaggi rivelano i loro meccanismi interni. Molte volte i contenuti si presentano in un ordine strano, rompendo l’illusione di incontrare personaggi credibili e desiderosi di parlare delle ultime imprese del giocatore; è come guardare un attore di teatro dimenticare in quale scena si trova.
Ad esempio, sono arrivato alla fine del secondo livello infernale la prima volta che l’ho raggiunto. Più di un personaggio ha commentato il mio incontro con il boss finale del livello, poi, molto più tardi, mi è stato detto «Oh, ho sentito che hai raggiunto il secondo livello? Ben fatto!». Sfortunatamente, questo significa che non vedo più i personaggi come tali e sto invece pensando a come manipolare il modo in cui sono programmati. Non riesco più riconoscere nell’attore teatrale il suo personaggio.
Hades è quanto accade quando uno scrittore scrive cose con tante variabili a ramificazioni e poi si sente frustrato dal fatto che i giocatori se ne perdano molte. Per far vedere di più al giocatore, crea un gioco fondato su una rigiocabilità infinita con contenuti per la maggior parte non ramificati. Ora tutti vedono una parte molto più ampia del tutto. Ma la sola cosa che può rendere avvincenti le scelte narrative e interattive è la posta in gioco. Per trovarsi di fronte a un dilemma davvero memorabile bisogna avere qualcosa di unico da guadagnare, e quindi altre cose da perdere. Senza questa posta in gioco la scelta diventa irrilevante. Ciò che ci coinvolge in Pyre, o Mass Effect, non è pensare di aver visto tutto, ma sentire che la storia era unicamente nostra.
Se nello scrivere un gioco l’obiettivo è fornire una storia abbastanza avvincente perché il giocatore voglia scoprire tutto, allora Hades fa un buon lavoro. Dopo venti ore di gioco, la storia non è stata emotiva o trascendentale come il debutto di Supergiant, Bastion, ma mi ritrovo affascinato dal suo mistero principale: capire perché quella famiglia è così disfunzionale. Ho accumulato più run in Hades che in Pyre.
Se però l’obiettivo è colpire il giocatore nei sentimenti per regalargli un’esperienza indimenticabile, Pyre vince. I momenti in cui bisogna fare scelte critiche decisive in Pyre sono angosciosi, e sapere che stanno arrivando incoraggia a passare del tempo a pensare ai suoi personaggi come a esseri umani complessi, dando corpo ai loro desideri e ai loro difetti nella propria testa. Per quanto mi riguarda, Pyre fa centro.