Non gioco ai remake che non includono la grafica del titolo originale. Preferisco prendere dallo scaffale una di quelle bellissime confezioni dei videogiochi per PS1, aprirla con molta attenzione (sappiamo tutti quanto siano fragili), dare un’occhiata al libretto di istruzioni che, da solo, costituisce un buon 50 per cento del piacere di possedere la copia originale, rovesciare il cd per vedere la luce riflettersi sulla superficie nera, inserire il disco nella console, fissare gli occhi sullo schermo e ascoltare il jingle. Purtroppo il mercato dei giochi usati per PS1 ha raggiunto delle cifre non proprio abbordabili, quindi a volte non posso che acquistare il remake di Spyro, Crash Bandicoot o Resident Evil, altrimenti non disponibili su PC.
Non sono un grande fan dell’accuratezza grafica, perché credo che la personalità di un videogioco non dipenda dalla possibilità di osservare i pori della pelle dei personaggi non giocanti. Invece adoro i colori sgargianti dei titoli prodotti nella seconda metà degli anni Novanta, quando una nuova generazione di console mise gli sviluppatori nella condizione di lavorare con modelli poligonali abbastanza curati. Su Tumblr seguo blog che raccolgono gli screenshot più evocativi dei vecchi Tomb Raider, una delle serie che considero più interessanti dal punto di vista della resa estetica.
Nel mio gioco cult di quel periodo, King’s Field, il padre nobile di Dark Souls, un tamburo, una nota di sintetizzatore molto bassa, un clavicembalo e altre sonorità minimali si sposano perfettamente agli ambienti spogli e ai colori sbiaditi delle ambientazioni. Un level design così rarefatto era dettato da necessità, ma oggi King’s Field è più angosciante e mortuario che mai, come se l’ondata pestilenziale che ha fatto rinsecchire i giardini e oscurare il cielo abbia divorato i pixel e la ricchezza delle ambientazioni.
Convinto della bellezza dei primi poligoni, ho aperto una pagina Facebook dedicata ai tramonti a 32 bit, in cui la disponibilità limitata di colori crea muri compatti di arancione e rosso che regalano ai livelli un tono magico. Quando torno nella mia provincia di origine e realizzo che non è più la piccola e confortevole città in cui passare i primi anni di vita o quando ripenso ai lunghi viaggi in macchina che affrontavo con la famiglia per andare in vacanza, immagino che l’ultimo immutabile frammento di infanzia sia rimasto incastonato in quei panorami surreali, che non rispondono né alle leggi della verosimiglianza né a quelle del tempo.
Lo ammetto, il fascino che esercitano i primi esperimenti in 3D su un’intera generazione di videogiocatori ha a che fare con la nostalgia. Ma è tutto qui? Metal Gear Solid, Bugs Bunny: Lost in Time, Croc non hanno nulla da dire, oggi, nella loro veste grafica originale? Vorrei affrontare il discorso da un punto di vista prettamente estetico. Facciamo un passo indietro.
Gli sprite hanno avuto un grandissimo successo tra gli sviluppatori indipendenti. Dead Cells, premiato ai Video Game Awards, possiede una cifra artistica nonostante ricalchi il 2D dei titoli usciti negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. A volte la scelta di lavorare con i pixel ha a che fare con una questione di costi, ma è innegabile che gli indie games abbiano un certo appeal. Chi li ha sviluppati è riuscito a ridurre la grafica ai minimi termini senza intaccarne la funzione fondamentale: conferire personalità al gioco. All’esterno, la pixel art fa il paio con la sbornia, appena passata, degli anni Ottanta: Stranger Things, le Reebok e la linea classic dell’Adidas, le sonorità italo-retrò dei The Giornalisti e così via.
Ho letto molti articoli sull’infatuazione per un decennio che alcuni di noi neanche hanno vissuto. Vulture ha dedicato un osservatorio permanente agli “eighties”, in cui si sostiene, tra le altre cose, che furono un periodo d’oro per la pop culture, un’epoca riportata in vita dalla generazione di creativi cresciuta con la televisione e il cinema di 40 anni fa. Personalmente credo che l’accessibilità di internet a ogni tipo di contenuto abbia reso questo legame più forte e forse ci affascina anche il tipo di narrazione luminosa dei film e delle canzoni di quel periodo, in cui gli amori sono felici e le avventure a lieto fine (il contrario del modo in cui racconta se stessa quest’epoca disillusa). Ma adesso l’estetica dei nostri consumi culturali si sta muovendo verso il decennio di Titanic. I videogiochi seguiranno il trend?
C’è chi dice che negli anni Novanta il 2D avesse raggiunto un ottimo livello tecnico, mentre i primi giochi tridimensionali dovevano tenere conto di tutta una serie di limitazioni che li hanno resi, di fatto, brutti da vedere. Eppure, in architettura, abbiamo costruzioni che esibiscono gli elementi strutturali. In questi casi pilastri e travi, condotti di aerazione, viti e bulloni diventano parte di una facciata e la valorizzano. Lo stesso vale per il glitch, riprodotto in videoclip di ultima generazione, un po’ come Tarantino e Rodriguez hanno rovinato le immagini del dittico di Grindhouse in modo da conferire al prodotto finale un aspetto da pellicola graffiata. In tutti questi casi, l’incidente di percorso diventa un fiore all’occhiello, e viene ricostruito scientemente quando i mezzi tecnici consentirebbero di farne a meno.
I primi titoli 3D non sono privi di storture, che però potrebbero essere valorizzate. Non mi vengono in mente molti videogiochi che lo abbiano fatto. L’esempio più eclatante è Minecraft, il cui stile grafico è nato da risorse scarse e l’esigenza di avere uno spazio che si estendesse anche in profondità. In poco tempo, l’estetica del mondo dei costruttori digitali divenne così caratteristica da essere riprodotta in Dragon Quest Builders, sviluppato con molti più mezzi a disposizione.
Un’altra obiezione potrebbe essere che qualcosa di simile ai pionieri della profondità già esiste, ed è la grafica lowpoly, in cui la fanno da padrone modelli con un basso numero di poligoni, più leggeri e stilizzati. Tuttavia la maggior parte dei giochi lowpoly declina quell’estetica in una chiave più “hipster” (con toni sognanti e sofisticati) e secondo una gamma di colori più ampia di quanto i 32 o i 64 bit dell’epoca consentissero di fare. Più che da un revival della vecchia grafica nascono da un downgrade di quella attuale, ed è per questo che la connessione con il passato si spezza.
Tanto più che parte del feeling che emanano i giochi con cui la mia generazione è cresciuta non ha a che fare soltanto con la grafica. I saldi di Steam rappresentano l’occasione migliore per acquistare, anche a meno di un euro, il biglietto per un viaggio nel passato. In queste occasioni il gameplay è l’ultima cosa che guardo. Piuttosto mi concentro su tutto quello che c’è attorno, dai menù, alle musiche, ad alcuni tipi di narrazione. Preferisco i titoli oscuri a quelli che hanno fatto la storia perché spesso sono privi di idee forti, quindi attingono più facilmente allo spirito del tempo. Potrà trattarsi di Bad Mojo, che con i poligoni non ha nulla a che fare ma rappresenta un certo gusto per il repellente (si impersona una blatta!) che ritrovo anche in X-Files; Rascal, un pessimo titolo per PS1, che però aveva per protagonista il classico ragazzino ribelle degli anni Novanta, con occhiali a maschera e cappello all’indietro; Lifeforce Tenka, che metteva in scena un’idea di spazio retrofuturistico e decadente.
Questi ed altre opere potranno essere superate, dal punto di vista tecnico come dei contenuti (7th Legion di Epic Games estremizza la lotta sociale, mentre oggi siamo ossessionati dallo spettro delle dittature), ma costituiscono un archivio che i nuovi sviluppatori potrebbero “estetizzare” in un’epoca in cui la moda, i film, le serie tv si ispirano ai prodotti di venti anni fa. E poi c’è il canale YouTube di 98DEMAKE, che ha “riprogrammato” i videogiochi più famosi degli ultimi anni come se dovessero girare su PlayStation o Game Boy. Il risultato è esilarante, ma fa riflettere. Pur essendo piena di difetti e approssimazioni, la grafica degli anni Novanta aveva una sua misteriosa bellezza. Gli art director avrebbero chiaramente il compito di rielaborarla e renderla digeribile alla nostra sensibilità contemporanea, ma abbiamo così tanti giochi pixellati, e così pochi ispirati alla seconda metà degli anni Novanta, che le possibilità artistiche di quel segmento di produzione sono, ancora, una prateria inesplorata.