Sono passati più di undici anni dall’uscita di BioShock, è questa è solo l’ultima volta che si torna a parlare del capolavoro di Ken Levine. Nel mio caso dipende dal fatto di aver finalmente trovato il tempo di rigiocare l’intera trilogia, dopo un primo approccio problematico negli anni dell’università, quando avevo a disposizione un computer che stava insieme con lo scotch e che sarebbe crashato anche con una versione emulata di Tennis for Two. Questo articolo invece è stato scritto con una macchina più performante, la stessa che utilizzo per il gaming, e in un’epoca in cui il digital delivery è accessibile e conveniente. Grazie ai saldi di Steam, ho acquistato BioShock, BioShock 2 e BioShock Infinite a circa quindici euro. Al termine del viaggio ascendente, che dalle profondità dell’Oceano Atlantico mi ha portato ai cieli di Columbia, ho cercato qualche articolo per confrontare le mie impressioni con quelle di giornalisti più esperti.
Come dicevo, le analisi fioccano ancora oggi. Le ultime sono state pubblicate appena pochi mesi fa. Leggendole, sono rimasto colpito da quanto ci si focalizzasse sull’aspetto narrativo della trilogia. Certo, la profondità della visione di Levine è indiscutibile e negli anni ha addirittura acquisito valore, se pensiamo a come Rapture e Columbia abbiano anticipato le due crisi, economica e politica, che stiamo vivendo. L’inferno sottomarino di Andrew Ryan, infatti, è ispirato alla dottrina economica neoliberista, la stessa che, secondo gli storici, ha consentito al mercato finanziario di crescere spropositatamente e collassare nel 2007 (BioShock è dello stesso anno, ma è stato messo in cantiere da prima). Inoltre, le affinità tra l’ideologia di Columbia e l’attuale situazione politica americana sono più che evidenti, nonostante nel 2013 Trump fosse ancora soltanto un imprenditore.
Tuttavia non avremmo passato tutto questo tempo a scavare nell’immondizia di Neptune’s Bounty, alla ricerca di ogni singolo audiolog, se Levine non avesse reso il suo gioco terribilmente divertente. Se questa vi sembra un’osservazione scontata, forse è il caso di confessarvi una cosa: mi sembra che oggi valga la pena rituffarsi nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico soprattutto per confrontarsi con un gameplay senza degni eredi. Proverò a spostare il discorso su un piano storico senza appesantire troppo le argomentazioni.
In BioShock – In nome del padre, pubblicato nel 2011 da Unicopli, Filippo Zanoli ripercorre la storia dello sparatutto in prima persona. Secondo l’autore c’è un momento, con il quale tutti ci siamo confrontati in veste di videogiocatori, in cui l’FPS e l’action in terza persona assumono il ruolo di “generi forti” in grado di assorbire i “generi deboli” come il survival horror, lo sport game o il picchiaduro a scorrimento. Il risultato del mash-up sono i vari Portal (FPS + puzzle game) e The Elder Scrolls (FPS + gioco di ruolo), che tramite una visuale in prima o in terza persona si propongono come la nuova frontiera dei tripla A. Chiaramente anche BioShock è stato tra i protagonisti di questo processo di selezione darwiniana, ma alla creatura di Irrational Games va riservato un posto speciale.
Tendenzialmente, i videogiocatori veterani sono scontenti dello stato corrente dei blockbuster virtuali. Chi è cresciuto con PlayStation o Windows 95 ha conosciuto e amato i generi finiti nel cocktail delle grandi produzioni in una forma pura, ma soprattutto complessa. La stessa profondità, invece, viene diluita nelle hit moderne, che devono risultare accessibili al numero di giocatori più ampio possibile. BioShock invece trova un diverso punto di equilibrio: grazie a un’ambientazione suggestiva e a un gameplay hardcore ma confortevole riesce sia a soddisfare la nicchia di gamer esigenti, sia a rappresentare un’esperienza interessante per l’utenza di videogiocatori episodici.
Il giocatore ha a disposizione ben otto tasti (su PC) per scegliere l’arma adatta a un determinato tipo di situazione, ai quali vanno aggiunti i sei tasti (ancora su pc) da utilizzare per scorrere tra i plasmidi. Non bisogna considerare soltanto l’arma e il plasmide più adatti alla contingenza, ma è necessario valutare la loro combinazione. Il plasmide Electro Bolt, ad esempio, paralizza il bersaglio con una scossa, quindi è più adatto ai colpi di precisione rispetto a Incinerate!, che invece porta i nemici ad agitarsi tra le fiamme rendendo un headshot più difficile. In BioShock è necessario sfruttare ogni margine di vantaggio, prestando molta attenzione al potenziamento di armi e abilità (un’altra caratteristica mutuata dal gioco di ruolo, insieme alla possibilità di raccogliere dal corpo degli splicer ammazzati medikit e munizioni).
Per evitare che il giocatore abbassi la guardia, i creatori di BioShock si sono ispirati al survival horror, e non mi riferisco soltanto alle atmosfere lugubri e ai momenti di puro gore degni di un giovane Peter Jackson. Il senso più autentico di un’esperienza survival horror, infatti, dipende dalla capacità di trasmettere al giocatore la percezione della propria inferiorità rispetto alla schiera di splicer, Big Daddy e marchingegni assassini. Per raggiungere questo obiettivo, BioShock ci affama di munizioni, così che alle tre variabili elencate qui sopra (qual è l’arma migliore per questo scontro? Qual è il plasmide migliore per questo scontro? Qual è la combinazione migliore tra le due cose?) si affianca una valutazione sull’opportunità di provocare il Big Daddy: giocherete le vostre carte migliori adesso, o le conserverete per una fase successiva del gioco?
Non finisce qui. C’è un’altra considerazione da fare prima di lanciarsi nella mischia. Alla scelta orizzontale dell’arma, se ne affianca una verticale, riguardante tre diversi tipi proiettili per ciascuno degli ordigni. Sebbene in questa sede ci piaccia scomporre i pezzi e dissotterrare le radici di un capolavoro, la sintesi di meccaniche così complesse è a tal punto efficace che il giocatore non impiega molto a prenderci la mano. Sorprendentemente, è più facile giocare BioShock che spiegare BioShock. Verso la metà del gioco, si è perfettamente in grado di arrivare preparati a ogni tipo di situazione. E in più bisognerà pensare strategicamente, perché l’austerità dell’anima survival fa in modo che le opzioni di personalizzazione dell’avatar e dell’equipaggiamento non possano restare un di più. Ogni margine va utilizzato, a meno che non preferiate morire centinaia di volte.
BioShock 2 si muove nella stessa direzione del prequel, ma BioShock Infinite modifica l’impostazione generale. Al giocatore viene consentito di portare con sé solo due armi per volta. Il caricatore di questi ordigni, inoltre, può contenere un solo tipo di munizioni. Si tratta di una semplificazione importante, che abbandona l’approccio hardcore e si avvicina alle soluzioni light degli sparatutto moderni. Certo, la possibilità di evocare ripari, alleati (nella forma di torrette o mitragliatrici sospese in aria con dei palloncini), munizioni e medikit grazie all’aiuto di Elizabeth complica un po’ le cose, ma non c’è dubbio che con Infinite Levine ci abbia servito un’esperienza meno articolata. Tuttavia il cambiamento più grosso è negli ingredienti di partenza. Il terzo capitolo sostituisce alla componente survival horror, presente solo in alcuni livelli del gioco, alcune dinamiche del platform game. Booker DeWitt esplora Columbia sugli skyline, binari sospesi tra le varie parti della città. Durante i combattimenti, è possibile agganciarsi a queste rotaie per accedere ad aree più elevate o piombare sui nemici con un assalto aereo.
BioShock Infinite rappresenta un’alternativa più dinamica allo sparatutto posato e strategico dei primi capitoli. Non è necessariamente un aspetto negativo (dipende da cosa è nelle vostre corde), ma ancora una volta gli sviluppatori di Irrational Games riescono nell’impresa impossibile di omologare generi apparentemente lontani. Allora sarà vero quel che dice Zanoli nel suo libro citato prima: “Nel post moderno è prassi che il plauso, più che alle idee originali, venga fatto allo sforzo di traslazione da un sistema segnico all’altro e la conseguente ristabilizzazione (e ridinamizzazione) dell’insieme”. Con BioShock questo è più vero che mai: le soluzioni adottate da Levine e soci esistevano già, sparpagliate in generi separati che sembravano avere poco a che fare l’uno con l’altro. Irrational Games trova il punto di equilibrio funzionale: prima con il survival horror, poi con il platform, partorendo un gameplay profondo e per molti versi ancora vecchio stampo. Vi meraviglia che undici anni dopo si parli ancora di BioShock? Considerando i presupposti, io mi stupirei del contrario.