Parlare oggi di LSD: Dream Emulator vuol dire spesso fare riferimento al fenomeno di culto che questo gioco ha generato diversi anni dopo la sua pubblicazione. Quando uscì nel 1998 sulla prima Playstation, infatti, ottenne ben poco seguito, tant’è vero che non venne mai pubblicato al di fuori del Giappone.
Ma parlare di LSD oggi vuol dire anche dare per assodate le riflessioni fatte da Alexander Galloway sugli atti della macchina e dell’operatore1, e tutta la conseguente presa di coscienza riguardo al fatto che, quando giochiamo a un videogioco, c’è anche un algoritmo che sta giocando con noi. Tutto ciò non era per niente scontato a fine anni Novanta. Anzi, gli stessi studi accademici sulle specificità del videogioco prenderanno piede solo nei primi anni Duemila2.
Quando Osamu Sato decise di programmare videogiochi, però, lo fece con l’intento di produrre arte attraverso quel medium. La scelta di sviluppare LSD su CD-ROM andava proprio in quella direzione, dal momento che questa tecnologia stava aprendo la strada a nuove sperimentazioni, come l’ormai leggendario Myst3.
Lo spot pubblicitario del gioco fu una vera e propria dichiarazione d’intenti. Un velocissimo montaggio di frame e sequenze, scelte tra le più folli di LSD, è seguito da una scritta che recita “Questo non è un gioco”. Vi consiglio di recuperarlo prima di proseguire la lettura.
Esiste un’analogia tra questo spot e il noto quadro di Magritte Il tradimento delle immagini, dove il disegno di una pipa è accompagnato dalla scritta “Questa non è una pipa”. Come vedremo in seguito, LSD rinuncia alle convenzioni di un gameplay classico allo scopo di mostrare le specificità del medium videoludico nello stesso modo in cui Magritte ha dovuto tradire le immagini per poter far emergere la loro natura4.

Lo so, è complicato, ma vedrete che, una volta spiegato cosa diamine sia questo gioco, tutto vi sarà più chiaro.
LSD è sostanzialmente un walking simulator in prima persona. Il gioco è diviso in giornate: ogni giorno, cliccando il tasto start sul menu, si entra in uno dei vari ambienti tridimensionali che Sato ha creato. L’eccentricità di questi mondi, sorta di spazi liminali ante-litteram, è probabilmente la caratteristica più famosa del gioco: si va da spaventose strade notturne a ponti arcobaleno, passando per templi buddhisti, castelli colorati e corridoi infiniti. A volte si possono incontrare anche gli abitanti di questi luoghi, tra cui un bambino gigante, un essere composto da due facce in stile Giano Bifronte e il famosissimo gray man, di cui parleremo più tardi.
Collidendo con un qualsiasi oggetto, parete o personaggio si attiva un link e si viene teletrasportati in un altro ambiente, secondo una complessa equazione che decide il luogo d’arrivo in base alle esperienze che abbiamo fatto precedentemente. Quando il sogno finisce, sullo schermo appare un grafico con un puntino luminoso che indica il nostro umore: questa variabile determinerà il primo ambiente che visiteremo il giorno seguente.
Questa è l’unica forma d’interazione che il gioco prevede, ad eccezione del menu iniziale. A volte i sogni possono essere composti da un racconto testuale oppure da un breve video ma, oltre queste poche eccezioni, l’esperienza prosegue identica per 365 giorni, a seguito dei quali si assiste a una sorta di video conclusivo.
Qui arriva già la prima particolarità: laddove la maggior parte dei giochi si definiscono in base al loro scopo, LSD non ha obiettivi. Anzi, il suo fine è il giocare stesso. Ciò che tiene il giocatore incollato al controller è la totale imprevedibilità dei link. Infatti, sebbene questi siano definiti da un’equazione deterministica, la logica che li regola resta totalmente oscura al giocatore.

È vero, l’equazione è stata ormai scoperta e si può trovare sulla wiki ufficiale del gioco, e tuttavia è importante ricordare che ci sono voluti anni di sperimentazioni e tentativi da parte dei più grandi appassionati per capirla. Dubito che senza la diffusione del fenomeno delle community in internet ci saremmo mai riusciti.
Il giocatore dell’epoca, quindi, doveva quantomeno sentirsi tradito, abituato com’era a videogiochi che rispondevano a delle interazioni logiche. Magari non poteva prevedere da subito dove le sue azioni l’avrebbero portato ma, una volta viste le conseguenze, avrebbe sicuramente capito la relazione causa-effetto, che sarebbe stata ripetibile in ogni momento.
In LSD tutto ciò è negato. Se si cerca di ricreare un link, raramente si finisce nello stesso ambiente della volta precedente e, anche se succedesse, c’è una possibilità che il mondo si mostri con un pacchetto di texture diverso. Inoltre, come indicato nel manuale, i personaggi che incontriamo vagano nel mondo dei sogni, quindi non è detto che si trovino nello stesso posto o anche solo che si possano incontrare di nuovo.
Questa totale imprevedibilità può generare dei veri e propri eventi. Caso noto è l’astronauta che, raramente, invece di volare in cielo, si può trovare a terra. Ciò non è da considerarsi un glitch, dato che la collisione con l’astronauta causa un link in uno degli ambienti più difficili da raggiungere, il cosiddetto Black Space.
Altrettanto interessante è l’uso che il gioco fa degli atti non-diegetici della macchina. Teorizzati per la prima volta da Galloway, queste azioni corrispondono agli interventi dell’algoritmo sul gioco al di fuori della diegesi. Esemplari sono i crash o i potenziamenti, dato che non riguardano l’universo della narrazione e non dipendono dal giocatore.

In LSD questo tipo di azioni avvengono spesso, ricordando continuamente al giocatore l’esistenza di un algoritmo che può influire sull’esperienza almeno quanto lui. Ad esempio, molte volte i sogni terminano all’improvviso con un atto non-diegetico della macchina, generando un forte straniamento nel giocatore.
Si potrebbe interpretare questo atto anche come diegetico dal momento che, nella vita di tutti i giorni, ci si sveglia dai sogni casualmente, spesso in maniera improvvisa. Tuttavia, dal momento che LSD è un artefatto con cui interagiamo in stato di coscienza, l’interruzione improvvisa e senza transizioni viene percepita come una sorta di crash o, come direbbe Galloway, un atto disabilitante.
È interessante notare che Galloway, quando definisce gli atti disabilitanti tra le sottocategorie degli atti non diegetici, afferma che «per un gamer non esiste un atto più fastidioso. […] Eppure, allo stesso tempo, si tratta spesso della categoria di gioco più costitutiva, perché hanno invece la capacità di definire i confini esterni delle estetiche proprie del gaming, dell’universo di gioco: il grado zero di un intero medium»5.
Con il tempo ci si fa l’abitudine, ma ecco che LSD ci rimette subito a disagio con l’apparizione casuale del gray man. Come detto in precedenza, si tratta di una delle tante strane figure che popolano questo gioco ma, a differenza delle altre, questa influenzerà direttamente la nostra esperienza. Incontrandolo, infatti, si perde dal menu principale la modalità Flashback che ci permette di rivivere i momenti più folli della nostra run.
In questo caso, è interessante notare il legame che Sato ha stretto fra ciò che sta dentro e fuori dalla diegesi. Infatti, l’apparizione del gray man è di per sé un atto diegetico, ma l’effetto che genera non lo è. In questo modo, il livello della storia e quello dell’algoritmo si fondono, diventando un tutt’uno nell’opera videoludica. Facendo un parallelismo col cinema, è un po’ come quando i registi ci rendono consapevoli che stiamo guardando un film, magari con uno scavalcamento di campo o con lo sguardo in camera di un attore, rompendo la quarta parete.

Prima di proseguire l’analisi, devo aggiungere un’informazione di background. Osamu Sato fece uscire LSD insieme ad altre due opere, tra cui il diario dei sogni LSD: Lovely Sweet Dreams, di Hiroko Nishikawa. L’autrice, collega di Sato, appuntò per dieci anni su questo diario le descrizioni dei suoi sogni, creando un prezioso strumento d’ispirazione per il game designer di LSD.
Sebbene sia possibile rintracciare alcuni collegamenti tra le immagini evocate dal diario e gli ambienti del gioco, l’intervento di Sato resta molto evidente. Ciò che il giocatore si trova a esplorare, quindi, è una rappresentazione doppiamente mediata, sia dall’algoritmo che dal game designer. Si tratta di una sorta di evoluzione del metodo paranoico critico di Salvador Dalì6, in quanto il pittore surrealista riteneva essenziale partire dal proprio inconscio, spesso nella forma del sogno, per creare l’opera artistica. In questo modo soltanto la pittura avrebbe avuto il compito di mediare.
Sato, invece, non solo parte dai sogni di una terza persona, ma scegliendo il videogioco obbliga lo spettatore ad agire in questo universo mediato due volte, amplificando l’effetto di alienazione. Il giocatore agisce in un mondo che non solo non è suo, ma non è nemmeno del game designer. Inoltre, dal momento che la mediazione di Sato ha inciso così aggressivamente sul contenuto di partenza, il mondo di gioco non appartiene nemmeno a Nishikawa.
Ma il processo può anche essere letto nel verso opposto: sia il game designer che l’algoritmo sono alienati dall’opera, dato che non possono prevedere le azioni del giocatore, e quindi i link che causerà, nella stessa misura in cui questo non ne potrà preventivare gli effetti con certezza. In LSD nessuno conosce a priori le conseguenze delle sue azioni, comprese quelle che generano l’opera artistica, eppure tutti devono agire per permettere al videogioco di esistere.
Volendola dire con Rosalind Krauss7, il videogioco viene qui mostrato come un medium informe, nel senso che la sua forma è la creazione stessa. Facendo un passo ulteriore rispetto a Krauss, però, vorrei far notare che nel videogioco è anche impossibile individuare un autore, dal momento che tutte le azioni fatte sia dal game designer che dal giocatore portano a delle conseguenze che sono limitate dalle azioni dell’altra parte attraverso le regole dettate dall’algoritmo.

Posto e considerato che, di fatto, è il game designer a programmare il gioco (almeno in questo caso), e quindi a decidere quali azioni il giocatore potrà compiere, sarà comunque quest’ultimo a far decadere tutte le opzioni possibili in una sola, che si identificherà poi con l’opera artistica attualizzata e non solo in potenza.
In un certo senso, possiamo ricondurre questa riflessione alla dimensione del sogno. Nessuno di noi è davvero “autore” dei suoi sogni, e tuttavia questi sono generati dalle esperienze che abbiamo vissuto nella vita vera, che in qualche modo ispirano il nostro cervello. Naturalmente, sto romanticizzando un processo psicofisiologico molto più complesso ma, al netto delle semplificazioni, la metafora regge.
Non intendo, però, identificare i videogiochi semplicemente come sogni, dato che scegliamo consapevolmente di giocarli e programmarli. Piuttosto, proprio in forza dell’esistenza di un algoritmo, i videogiochi assomigliano a dei simulatori di sogni, dei dream emulator appunto. In fondo, l’equazione deterministica alla base dei link di LSD, presente e al contempo incomprensibile per il giocatore, cerca proprio di simulare ciò che avviene nei sogni.
Non nascondo che, dietro la definizione di videogioco come simulatore di sogni, ci sia anche una buona dose d’amore da parte mia per questo incredibile medium. L’idea che ogni videogioco sia figlio di una relazione tra una macchina, ovvero il simulatore, e le azioni artistiche di due esseri umani, il giocatore e il game designer, riassunte nella retorica del sogno, mi affascina al di là di qualsiasi trattazione teorica.
Ma al di là di ciò, questa riflessione dimostra l’enorme potenziale che quest’opera ha avuto per le riflessioni sul medium videoludico, sebbene all’epoca sia passata in sordina. Sicuramente, un breve articolo non può esaurirle tutte, ma spero sia d’ispirazione per ricerche future.
Note
- A. R. Galloway, Gaming. Saggi sulla cultura algoritmica, G. Pedini, M. Salvador (a cura di), Luca Sossella Editore, Bologna 2022, pp. 21-64 ↩︎
- A questo proposito si può considerare pioniere il saggio G. Frasca, Ludology Meets Narratology: Similitude and Differences Between (Video)games and Narrative, Helsinki 1999 ↩︎
- N. Dwyer, Interview: Osamu Sato. The Influencial Japanese Artists and Designer/Composer of Video Games Like LSD:Dream Emulator Gives His Most In-depht Interview yet, Red Bull Music Academy, 2017, https://daily.redbullmusicacademy.com/2017/11/osamu-sato-interview, consultato in data 28/03/2025 ↩︎
- D. Riout, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2021, p. 284 ↩︎
- A. R. Galloway, Gaming, op. cit., p. 56 ↩︎
- D. Ryout, L’arte del ventesimo secolo, op. cit., p. 233 ↩︎
- R. Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Vignate 2024, p. 13 ↩︎