Programmatori, devs, peoni tecnologici. Microserfs: sulla copertina dell’edizione Flamingo dell’omonimo romanzo di Douglas Coupland, lo sviluppatore è un esserino occhialuto e un po’ sfigato in bretelle, cravatta verde e cappellino, una specie di Steve Urkel della Silicon Valley che è diventato adulto (ha in mano una valigetta, sta andando a lavoro) eppure è rimasto ragazzino, tanto è vero che non ha ancora imparato la differenza tra formale e informale, e nel dubbio mischia gli stili un po’ a casaccio. Una decina d’anni più tardi, la copertina di JPod (dello stesso autore) vede i devs dell’industria videoludica protagonisti del romanzo tramutati in figurine di Lego, un set di piastrelle prensili comodamente adagiate sui loro grembi; i mattoncini di un’industria che, negli ultimi trent’anni e passa, si è fatta sempre più grande (e pesante).
Lo testimoniano anche i retroscena raccontati nel libro Blood, Sweat, and Pixels di Jason Schreier (HarperCollins, 2017), giornalista di Kotaku: storie di un’industria—quella videoludica—molto seria che produce oggetti ritenuti ben poco seri dalla maggior parte delle persone. In fondo, come può costare fatica un lavoro che produce cose divertenti come i videogiochi? Cos’hanno da lamentarsi gli Urkel-microserfs di questo mondo, non svolgono forse un lavoro che una buona parte dei consumatori dei loro prodotti troverebbe fantastico e—ad ascoltare quello che molti di loro asseriscono in recensioni, forum e video su YouTube—essi stessi saprebbero fare molto meglio? Schreier—indagando sulla gestazione e la messa sul mercato di dieci videogiochi più o meno recenti—tenta di rispondere a questa domanda con un’opera di demistificazione.
È una demistificazione, anzitutto, della maniera in cui normalmente si parla di videogiochi o—più precisamente—della filiera produttiva che li crea e mette in commercio. Sono per lo più dibattiti sperticati verso i cosiddetti “diritti del consumatore”: quest’ultimo figura in essi come un agnello eternamente vittima di tradimenti, prese in giro, promesse non mantenute—derubato, in ultima istanza, dei soldi che investe nel suo hobby prediletto (sempre “troppi”: gli studios, secondo questi critici, ci vendono le loro merci in eccesso del loro effettivo valore). Certo, sarebbe assurdo pensare che tutti i videogiocatori siano troll con la bava alla bocca o gamergater che aspettano solo un minimo errore o glitch nel nuovo titolo tripla A per riversare su YouTube o Reddit i loro deliri isterici—ma sarebbe altrettanto fuorviante ignorare che si tratti di una fazione molto rumorosa, e capace di contagiare almeno la parte più volubile e immatura del pubblico, ovvero gli adolescenti (in termini anagrafici o mentali), altrettanto veloci nel propagare questo malcontento con tutti i mezzi a loro disposizione—dai meme ai tweet incazzati contro gli sviluppatori.
A volte, finiamo per avvelenare la conversazione intorno a un videogioco anche involontariamente, magari con un buffo screenshot che mostra un bug particolarmente grottesco che vogliamo mostrare su Twitter o Reddit. Magari alcuni risponderanno con un tono divertito, leggermente rassegnato: “Dai, magari lo sistemano…”. Ma esiste una disparità piuttosto ingiusta tra la nostra videata e i motivi che possono avere causato il problema che riportiamo; la prima è stata questione di qualche secondo, eppure ignora le cause strutturali che possono averla generata. È il divario tra il lavoro spesso massacrante di un gruppo di sviluppatori (per lo più giovani) che deve riversare ore e ore di crunch (i massacranti straordinari comuni a buona parte dell’industria tecnologica) non retribuito in un titolo, e il giocatore che sborsa i suoi soldi per ritrovarsi nelle mani prodotti spesso mal calibrati o—vedasi le recenti controversie intorno ad Assassin’s Creed: Odyssey—disseminati di inghippi e micro-transazioni invise agli stessi sviluppatori, ma imposte dal management o dalla distribuzione per rendere un titolo più redditizio sul lungo termine. L’importante è cercare di capire le ragioni di entrambe le istanze, impresa certamente ardua; eppure un libro come Blood, Sweat and Pixels cerca almeno di gettarne le fondamenta.
Il libro si apre con un’introduzione che offre già in partenza un sunto dei problemi ricorrenti dell’industria videoludica che emergeranno nei singoli capitoli. Questo non soltanto per sfatare il mitico luogo comune “sviluppare = giocare”, ma anche per conferire un’idea delle problematiche strutturali che non sono risolvibili neanche attingendo alla storia ormai trentennale che il settore può vantare. I problemi riguardano principalmente l’interattività del mezzo videogioco (al contrario di quanto avviene in un film, il gioco deve registrare le nostre azioni, immagazzinarle e comportarsi di conseguenza); il continuo evolversi della tecnologia e degli strumenti adoperati (così come—emergerà nel corso del libro—della riluttanza o difficoltà giuridica degli sviluppatori a condividere tra loro strategie e modelli per utilizzare al meglio questi strumenti); l’impossibilità di pianificare in maniera anche lassa l’iter di programmazione e pubblicazione e—in diretta correlazione con quest’ultimo problema—la difficoltà di giudicare, quando si sviluppa, fino a che punto il gioco “sia divertente”, funzioni, possa dirsi conchiuso: l’inseguimento di migliorie, bug, trend attuali, input dei singoli sottogruppi all’interno di un team e dei mezzi finanziari per mandare avanti il lavoro a un gioco può protrarsi anche a pubblicazione avvenuta.
Tutti questi sono aspetti che conducono a un eterno ritorno di ritardi, correttivi, cancellazioni e significativi oneri su un’industria di lavoratori che, almeno in America, sono ancora privi di tutele sindacali (gli straordinari non retribuiti sono la norma, e scampare agli straordinari è fuori discussione, soprattutto in chiusura del ciclo di programmazione di un titolo) e soggetti a un continuo turn-over che li spinge a lasciare il settore non appena trovano impieghi più remunerativi e meglio organizzati nell’industria tecnologica: la scarsità di figure senior implica, fra le altre cose, che certi errori e cattive pratiche verranno continuamente perpetuate, rendendo il lavoro ancora più oneroso di quanto già non sia, sprecando tempo e risorse preziosi.
Il testo di Schreier formula i suoi desiderata principalmente in negativo, tentando per lo più di mostrare al lettore quello che l’industria del videogioco non dovrebbe essere: esoterica, disorganizzata, interessata solo ai risultati sul breve termine, sistematicamente miope rispetto ai costi umani dei suoi impiegati; in parole povere, “insostenibile”. Questo non significa che Blood, Sweat, and Pixels sia un libro esclusivamente incentrato su un (pur giustificato) pessimismo, anzi: è chiaramente scritto da un giornalista che ama i videogiochi e parla con sviluppatori che amano i videogiochi. Il “dietro le quinte” proposto è affascinante appunto perché ci rivela meccaniche, vicissitudini e segreti del mestiere che si celano dietro titoli che conosciamo e amiamo; il libro ci introduce doverosamente ad alcuni esempi del gergo e delle pratiche della programmazione videoludica (spesso illustrate in maniera semplice e concisa in agili note a piè pagina).
Uno sguardo al sommario ci rivela che il libro copre una gamma di titoli sviluppati in contesti e scale a volte molto differenti tra di loro—dalle grandi produzioni triple A (come Uncharted 4, Naughty Dog) alle tribolazioni del piccolo studio indie (Shovel Knight, Yacht Club Games), dalla storia di un distributore pirata di videogiochi in Polonia che—tramutatosi in azienda videoludica—ha finito per sfornare uno dei giochi di ruolo più acclamati dell’ultima generazione (The Witcher 3, CD Projekt RED) fino allo sviluppatore “one man band” che, dopo anni di lavoro, ha creato da solo un titolo di successo come lettera d’amore alla sua saga di videogiochi preferita (Stardew Valley, Eric “ConcernedApe” Barone). Per ragioni di accessibilità linguistica e culturale, le produzioni prese in esame sono quasi solo americane, tutt’al più europee (come nel caso di The Witcher 3); rimane la speranza che, un giorno, possa vedere la luce un simile progetto anche per l’industria videoludica del Sol Levante (tendenzialmente ancora più chiusa e gelosa dei propri segreti di quella a stelle e strisce).
Il lettore che vuole essere edotto sulle minuzie dei processi creativi legati alla programmazione di un videogioco non rimarrà comunque deluso: sebbene Schreier non tocchi singolarmente tutte le minuzie intorno allo sviluppo dei singoli titoli (non ve ne sarebbe lo spazio in un’opera “divulgativa” come questa, più olistica che monografica), il libro è colmo di aneddoti curiosi e selezionati con dovizia, di modo da conferire—almeno per sineddoche—un’idea su come girino gli ingranaggi nelle diverse fasi e sezioni della produzione videoludica. A volte si tratta magari di una funzione del gameplay che abbiamo usato mille volte come se fosse il più naturale dei gesti corporei; nel capitolo su Uncharted 4, ad esempio, vediamo i programmatori di Naughty Dog grattarsi il mento mentre cercano di capire come implementare il rampino nella versione finale del gioco—che sia meglio articolarne l’uso in più movimenti (tirarlo fuori, srotolarlo, prendere la mira) o demandare tutto alla pressione di un tasto? Ma—in tal caso—come fare capire al giocatore quando può e/o deve farne uso? Meglio evitare informazioni sull’interfaccia, dato che rischiano di rompere l’immersione e rendono tutto troppo palese…
Altrove (nel capitolo dedicato a Dragon Age: Inquisition di Bioware) si descrive il sottile equilibrio del blocking—la necessità di sospendere l’attività corrente del proprio sottogruppo e dedicarsi a un altro compito mentre si attende che qualcun altro finisca il proprio lavoro, o tolga di mezzo un inconveniente o crash imprevisto (si parlava appunto dell’impossibilità di pianificare il processo creativo). Nel capitolo su The Witcher 3, veniamo a sapere delle molteplici difficoltà di uno scrittore che deve sia adattare materiale letterario all’ambito videoludico, sia imparare a lavorare secondo modalità che—essendo funzionali al gameplay—non hanno nulla a che vedere né con la scrittura romanzesca né con la stesura di una sceneggiatura cinematografica o televisiva. Il libro non lesina inoltre dettagli su strategie di finanziamento e distribuzione nell’industria videoludica: chi mette i soldi per un progetto? Come arrivano i giochi sugli scaffali (reali o digitali), e chi si occupa di fare in modo che i potenziali utenti lo vengano a sapere?
La questione è particolarmente delicata per gli sviluppatori indie, che devono spesso ricorrere a stratagemmi non privi di rischi, quali il crowfunding (toccato nel capitolo su Pillars of Eternity di Obsidian, finanziato tramite una campagna Kickstarter) o l’accesso alla grande distribuzione “per voto popolare” (la sezione su Stardew Valley descrive come il gioco—sviluppato da un singolo programmatore senza alcuna connessione con l’industria videoludica—sia approdato su Steam grazie a Greenlight). Entrambe queste opzioni richiedono un supporto—finanziario o puramente consultivo—del pubblico, il che significa che eventuali promesse o anticipazioni saranno prese ancora più sul serio di quanto accada normalmente, ed eventuali infrazioni saranno castigate con ancora più severità.
Non che le grandi produzioni abbiano necessariamente il gioco più facile: narrando la gestazione di Halo Wars (Ensemble Studios), Schreier spiega come questo titolo di strategia fosse originariamente del tutto irrelato all’arcinota saga marca Bungie—l’affiliazione è stata introdotta a sviluppo già iniziato su richiesta di Microsoft, di modo da poterne garantire la distribuzione su Xbox 360. Questo implica dover modificare una visione iniziale alla quale gli sviluppatori erano forse particolarmente attaccati, oltre a dover alterare in corsa—e con grande fatica—modelli, storia, funzioni, personaggi del gioco per porli in linea con l’IP alla quale il titolo è stato associato (non aiuta che, nel caso tutt’altro che raro di Ensemble Studios, lo studio proprietario del franchise sia particolarmente geloso della sua creatura e scarsamente disposto a fornire suggerimenti o anche solo opinioni).
Se, da una parte le pratiche più insalubri dell’industria sono contestualizzate e descritte con dovuta lucidità, dall’altra Schreier tenta sempre di stemperare gli aspetti più cupi e macabri delle sue ricostruzioni con una misura di ottimismo; a dispetto dell’”insostenibilità” dell’industria, persiste lo sforzo di lasciar trapelare un minimo di speranza e mostrare come i nostri eroi sviluppatori riescano—seppur malconci e stanchi—a portare i loro prodotti sul mercato e a vedere i loro sforzi ricompensati in senso finanziario e critico (circostanze permettendo).
Lo si evince già dalla copertina: come a voler smorzare i toni un po’ macabri di un titolo quale “Sangue, sudore e pixel”, il sottotitolo promette “The triumphant, turbolent stories behind how video games are made” (“Le storie trionfanti e turbolente dietro la produzione dei videogiochi”—notare che “trionfante” è il primo aggettivo scelto!). Il che è pienamente comprensibile—nessun lettore vuole sentirsi dire che l’industria responsabile del suo passatempo preferito è una specie di tritacarne destinato a implodere, o almeno non senza qualche barlume di speranza—ma può condurre a momenti piuttosto stranianti, in particolare nei finali di capitolo, dove pagine e pagine di difficoltà pesantissime, sgobbate senza ricompensa, calunnie da parte di una comunità videoludica per lo più sorda alle problematiche del mestiere e licenziamenti gravosi sono concluse con una nota ottimistica: il videogioco è uscito, i nostri ce l’hanno fatta, ha vinto la passione.
Per quanto non possiamo che essere lieti di vedere i nostri beneamati videogiochi uscire regolarmente sul mercato anziché essere cancellati a piè sospinto, è difficile considerarli allo stesso modo dopo essere venuti a conoscenza dei processi lavorativi deleteri che stanno dietro alla loro creazione (ragionamento che, a ben vedere, potrebbe essere applicato alla maggior parte dei prodotti che consumiamo quotidianamente). A maggior ragione stupisce che, dopo aver demistificato così doverosamente le visioni semplicistiche e impersonali che governano la percezione pubblica dell’industria videoludica, Schreier sembri ricadere nello stesso ottimismo che mette in dubbio sin dall’introduzione del volume. A onore dell’autore, tuttavia, va aggiunto che la sua stessa attività come giornalista presso Kotaku prima e dopo l’uscita di Blood, Sweat, and Pixels è stata spesso orientata a fare chiarezza sui processi dell’industria e difenderne i lavoratori—per esempio, facendo campagna per una sindacalizzazione che sembra star muovendo i suoi primi passi negli Stati Uniti.
È inoltre indicativo che il libro si concluda con un capitolo dedicato a un gioco che non ha mai visto la luce del giorno—Star Wars 1313—arenatosi in mezzo a una sfortunata serie di incomprensioni, cambi di rotta, sparizioni di fondi e distribuzione e pretese assurde da parte di un George Lucas che, va detto, non ne esce troppo bene. È un finale di partita particolarmente amaro, ma tutt’altro che inadeguato, se si pensa alle burrascose polemiche che nelle ultime settimane hanno fatto seguito alla chiusura dello studio Telltale Games, i cui sviluppatori sono stati licenziati in massa senza uno straccio di liquidazione. L’ultimo episodio del loro The Walking Dead, il cui futuro incerto ha tenuto sulle spine i fan sin dalla triste notizia della caduta libera dello studio, sembra aver trovato una nuova dimora presso Skybound; lo stesso non si può dire di tutti gli ex lavoratori di Telltale, che dovranno ora cercarsi altri impieghi. Un fatto di routine in un’industria poco sostenibile i cui meccanismi sono resi più intelligibili grazie a un libro utile e avvincente come quello di Schreier; peccato manchi ancora una traduzione in italiano.