Cercare lavoro nel settore culturale significa, sempre di più, trasformarsi in imprenditori: identificare uno spazio libero da riempire con le proprie competenze personali e investire grandi quantità di sudore in un lavoro nella speranza che, un giorno, i propri sforzi verrano ripagati.
Questa imprenditorialità dall’attraente connotazione carrieristica sembra però molto lontana da quella dei creatori di videogiochi indipendenti, che sono spinti dal desiderio di essere creativi e autonomi, ma devono anche affrontare una cronica precarietà del lavoro e la mancanza di diritti lavorativi di base come la pensione o il congedo di maternità. Kate Oakley (2014, 149) stravolge la rappresentazione positiva ed entusiasmante dell’imprenditore culturale, descrivendola come un’imprenditorialità forzata: “la necessità di adottare modalità di lavoro peggiorative da parte di chi opera in settori in rapido cambiamento è alla base di gran parte della crescita dell’imprenditorialità nei settori culturali”. Per Imre Szeman (2015, 474) l’imprenditore rappresenta perciò
il soggetto neoliberale per eccellenza – la figura perfetta per un mondo in cui il mercato ha sostituito la società, la cui idealizzazione e legittimazione afferma a sua volta la necessità e la veridicità di questa transizione epocale. La figura dell’imprenditore incarna i valori e gli attributi che vengono celebrati come essenziali per il buon funzionamento dell’economia e per la per la prosperità dell’essere umano contemporaneo.
La normalizzazione dell’imprenditorialità amplifica e rafforza il dispositivo della creatività, smantellando ulteriormente le sicurezze e le garanzie conquistate da (alcuni) lavoratori nel dopoguerra, nella misura in cui i singoli lavoratori creativi ora abbracciano il lavoro flessibile: saltano da un lavoro a breve termine all’altro, si installano nelle caffetterie o nelle camere da letto con i propri computer per usare software apparentemente gratuiti come Unity, Photoshop, Garage Band e Google Docs. Tutto ciò instilla una cultura dell’individualizzazione che riguarda “nuove relazioni sociali, più fluide, meno permanenti, solo in apparenza contraddistinte da scelte e opzioni” (McRobbie 2002, 518). Per Banks (2007, 43), questi “forti incitamenti a diventare più imprenditoriali, più auto-diretti, più auto-risparmiatori, possono aumentare le possibilità di auto-sfruttamento dei lavoratori e, di conseguenza, di auto-colpevolizzazione”.
Nell’ambito dei videogiochi, la figura dell’imprenditore si manifesta più chiara che mai nello sviluppatore indie. La popolarità dei giochi indie è cresciuta negli anni Duemila, soprattutto grazie alle famose narrazioni di figure autoriali maschili bianche “autoprodotte” come Jonathan Blow, Phil Fish e Edmund McMillen, che hanno agito al di fuori del modello dominante della dicotomia studio di sviluppo-publisher. Questo fenomeno è stato reso particolarmente popolare dal film-documentario del 2012 Indie Game: The Movie, che è diventato una sorta di riferimento per i ricercatori e per gli stessi autori di videogiochi che desiderano evidenziare il modo limitato ed egemonico con cui l’indie rappresenta selettivamente solo il sottoinsieme più redditizio dal punto di vista commerciale del variegato spettro della produzione videoludica indipendente.
Man mano che la distribuzione digitale (e quindi la pluralizzazione) è diventata la norma nel settore dei videogiochi, e la capacità di controllo dei produttori di console e dei publisher si è indebolita, i team più piccoli hanno potuto distribuire giochi di dimensioni più ridotte. Per questo le produzioni indie vengono considerate, come avviene anche in altri campi, più autonome e meno limitate da imperativi commerciali, più creative e meno “svendute”. In modo più cinico, come hanno spesso sottolineato gli sviluppatori indipendenti provenienti da contesti emarginati, i giochi prodotti dalla prima ondata di autori indie di successo si sono attenuti a una gamma limitata di generi collaudati, gli stessi con cui erano cresciuti, come i platform a scorrimento laterale e gli sparatutto arcade.
L’indie come cultura, identità, genere e modello commerciale è stato oggetto di un’ampia critica (Lipkin 2013; Simon 2013; Ruffino 2021; Clark e Wang 2020). Il modello imprenditoriale iniziale del successo tanto creativo quanto commerciale dell’indie, come mostrato dalle figure autoriali esclusivamente bianche, cisgender e maschili di Indie Game: The Movie, si è dimostrato rappresentare solo una piccola parte della vasta gamma di approcci indipendenti alla produzione di videogiochi che da tempo esiste al di là dell’industria tripla A (Anthropy 2012; Boluk e LeMieux 2017). Indie significa gentrificazione della produzione indipendente di videogiochi.
Gli studi indie e i singoli sviluppatori di videogiochi—e, paradossalmente, i publisher indie sorti per sostenerli ed essere sostenuti da loro—sono spesso romanticizzati come un movimento controculturale, che aveva fatto la scelta di rifiutare le condizioni dell’industria mainstream, mentre allo stesso tempo stava abbracciando una filosofia di business individuale che John Vanderhoef (2020, 17) ha definito un “neoliberismo anti-establishment”. Come notano Stephanie Boluk e Patrick LeMieux (2017, 33) nella loro critica a Indie Game: The Movie, e alla limitata concettualizzazione dell’indipendenza che celebra:
Il termine indie game [valorizza] solo alcuni tipi di pratiche lavorative precarie—quelle che hanno dato i loro frutti. Il concetto stesso di gioco indie circola come una forma di imperialismo culturale che colonizza forme redditizie di produzione indipendente e le sterilizza per il consumo di massa. Adottando il termine indie game dal ben più ampio spettro del lavoro creativo e sperimentale, per poi applicarlo come come descrittore generale di una specifica forma di produzione di giochi, si riduce tutto lo sviluppo indipendente a questo particolare genere estetico e meccanico di videogiochi, e si riducono inoltre tutti gli sviluppatori indipendenti a quegli uomini bianchi nordamericani in grado di guadagnarsi da vivere sviluppando videogiochi sulla scia del collasso economico globale iniziato nel 2008.
Mentre la produzione di videogiochi indie è stata originariamente concettualizzata nel contesto nordamericano (Lipkin 2013), per contrapposizione, come genericamente “non tripla A”, il termine “indipendente” oggi descrive di fatto la stragrande maggioranza delle posizioni lavorative relative ai videogiochi, che operano in modo frammentario, con risorse autonome, e con una dipendenza dalla distribuzione digitale. L’identità indie, in quanto particolare presa di posizione nel settore videoludico, rivendica un’autonomia dal settore economico e allo stesso tempo mantiene la capacità eteronoma di garantirsi comunque un’identificabilità, agli occhi di un particolare pubblico di consumatori, come attività imprenditoriale esistente all’interno di quello stesso settore economico.
Come afferma Oakley (2014, 145) a proposito dei lavoratori-imprenditori culturali, gli sviluppatori indie sono effettivamente indipendenti “ma non a loro piacimento e non in circostanze decise autonomamente”. L’imprenditorialità forzata dei lavoratori creativi mette a nudo il mito dell’autonomia e la realtà precaria del gioco indipendente. In un settore videoludico intensamente in/formalizzato vediamo l’indie mobilitarsi più o meno nello stesso modo in cui l’imprenditorialità è mobilitata più in generale nel settore culturale, dove un senso di avventura ed eccitazione dovuto all’autonomia maschera un peggioramento delle condizioni di lavoro, un deterioramento dell’accesso al welfare sociale, l’utilizzo di piattaforme che estraggono dati, e l’assenza di opportunità di lavoro stabili.
È interessante notare che l’indie viene sovente usato dai gamemaker australiani per descrivere la modalità di lavoro videoludico da loro intrapresa. Dei 288 partecipanti al sondaggio, in risposta a una domanda che chiedeva quali termini descrivessero meglio il tipo di lavoro da loro svolto nel settore videoludico, 201 (71%) hanno indicato “indie” e 153 (53%) hanno indicato “indipendente”; 226 (80%) hanno scelto almeno uno dei due. Quando i partecipanti alle interviste hanno descritto i punti di forza della scena australiana, la creatività consentita dall’indipendenza del settore (in opposizione ai tempi in cui i creatori di videogiochi australiani erano obbligati dai publisher d’oltreoceano a produrre “shovelware”) è stato un elemento ricorrente:
Penso che, soprattutto in Australia, dato che la maggior parte degli autori di giochi sono indie, rispetto agli Stati Uniti dove gli sviluppatori lavorano per lo più su grandi titoli tripla A, stiamo iniziando a vedere le persone flettere i loro muscoli progressisti e dire: “Voglio fare un gioco che voglia giocare!”. E così si vedono tutti questi giochi che la gente fa o nel tempo libero o a tempo pieno perché ha i fondi, spingendo più in là i limiti che i giochi possono raggiungere. (Kim Allom, 27 anni, manager di uno studio, Brisbane)
Si tratta di un ritornello comune, che è interessante contestualizzare nella storia del settore videoludico australiano, dove il passaggio all’indie non è avvenuto necessariamente per scelta, ma perché era diventato l’unico possibile sbocco commerciale per pratiche locali di produzione di videogiochi prive di opportunità di lavoro esterne.
Il linguaggio dell’imprenditorialità modifica la narrazione, facendo apparire la precarietà strutturale come un’avventura scelta autonomamente, oscurando sia le condizioni che le motivazioni del lavoro nel settore videoludico. Per esempio, in una ricerca condotta con creatori di videogiochi canadesi indipendenti, Whitson, Simon e Parker (2021) notano come gli sviluppatori spesso usino il linguaggio e la postura dell’imprenditorialità nel settore tecnologico quando parlano delle loro ambizioni o delle loro pratiche di lavoro con soggetti esterni come publisher, investitori o rappresentanti del governo, sottolineando il desiderio di espandersi, di assumere più personale e di generare maggiori entrate. Tuttavia, quando viene chiesto loro di riflettere direttamente sul proprio mestiere e sulle proprie ambizioni come creatori di videogiochi, esprimono invece il desiderio di continuare a lavorare nelle stesse dimensioni e con i loro attuali colleghi.
Oppure, al limite, vogliono continuare a crescere in maniera sostenibile, non necessariamente fino a diventare grandi studi tripla A. Non è questa la loro idea di successo. Questa necessità di “parlare la lingua” dell’imprenditorialità per essere percepiti come professionali e per accedere alle possibilità di finanziamento, a sua volta, eccezionalizza e nasconde zone di estrema precarietà, sia rispetto al modo in cui, nell’immaginario popolare, viene visto il successo in questo settore, sia rispetto alle statistiche e agli aspetti legali. Ad esempio, a Melbourne ho parlato con il cofondatore di uno studio che, al momento dell’intervista, era particolarmente esausto e abbattuto. Lavorava in uno spazio di coworking locale, The Arcade, circondato da studi di sviluppo che riteneva avessero raggiunto vari gradi di successo, mentre il suo studio aveva lavorato a un videogioco dopo l’altro in relativa oscurità. Quando abbiamo parlato, questo sviluppatore e gli altri due cofondatori dello studio stavano tutti svolgendo individualmente lavori freelance o a contratto su altri progetti,
giusto per pagare le bollette e tutto il resto, perché la nostra proprietà intellettuale non genera entrate sufficienti a pagare gli stipendi… Quindi è un po’ difficile, perché gli altri due ragazzi del team stanno facendo un sacco di lavori a contratto e di lavori part-time per tenersi a galla, e anche io per andare avanti faccio così.
Una parte del denaro che ogni membro del team guadagna con il proprio lavoro individuale viene poi conferita allo studio. Le retribuzioni effettive per il lavoro con lo studio, tuttavia, erano “sporadiche”:
Poiché siamo tutti amministratori di una società, non ci vengono imposti particolari vincoli dall’ufficio delle imposte australiano. Non ci dicono “dovete coprire i salari dei vostri dipendenti” o cose del genere. Quindi, quando non lavoriamo per il nostro studio, non c’è l’aspettativa di essere pagati dallo studio.
Situazioni simili, in cui uno studio appare molto più formale sulla carta che nell’esperienza vissuta dai proprietari o dai lavoratori, erano comuni nelle interviste. I “dipendenti” non venivano necessariamente sfruttati, ma i “direttori di azienda” (cioè i creatori di videogiochi indipendenti che hanno creato una società per intraprendere il loro lavoro precario) sostanzialmente si sottopagavano, nella speranza che alla fine ne sarebbe valsa la pena. Questa situazione si trasforma in un brutto circolo vizioso in cui i team nascondono la vera portata della propria precarietà per imitare i marcatori di successo e stabilità che percepiscono negli altri team e, così facendo, oscurano ulteriormente quanto la maggior parte dei team indipendenti sia veramente precaria.
Questo non vuol dire che la maggior parte dei creatori di giochi indipendenti sia stata tratta in inganno, e portata a pensare che il ritorno economico per il proprio lavoro sia non necessario o ingiustificato. Molti hanno riconosciuto chiaramente la natura di sfruttamento della propria situazione attuale. L’indie fornisce una parvenza di autonomia con la quale si romanticizza e si oscura la precarietà individuale dell’imprenditorialità creativa nel campo dei videogiochi, senza necessariamente risolvere i radicati problemi di lavoro che da tempo affliggono gli sviluppatori. Ciononostante, questi autori indipendenti godono di un livello di autonomia svincolato dalla governance dei grandi studi dominanti, e alcuni si sforzano di immaginare modi diversi di strutturare il lavoro videoludico a livello comunitario e collettivo.
Questo articolo è un estratto dal libro “The Videogame Industry Does Not Exist” di Brendan Keogh, pubblicato da MIT Press.