Ho capito che non sarei uscito tanto presto da Black Flag la prima volta che mi sono trovato in mare aperto, appena fuori da L’Avana. Ero al timone della Jackdaw, una megattera salutava l’inizio della mia avventura con un salto di qualche metro oltre la superficie dell’acqua, proprio accanto alla nave. Non ho fatto in tempo a premere il direzionale per guardare l’evento che il bestione si era già reimmerso.
Era una bella giornata di sole, gli uomini della mia ciurma avevano preso a cantare: That’s a lie, that’s a lie, that’s a lie lie lie… Prima di proseguire per isolotti e coste di terra inesplorate ho messo in pausa, ho preso il telefono e ho scritto a una mia cugina con cui condivido la passione per videogiochi e avventure piratesche (è nata nel 1990, l’anno di Monkey Island). Lei aveva già giocato Assassin’s Creed IV, per cui le ho chiesto: “È ancora possibile avere una vita sociale, una volta iniziato Black Flag?”
Per giorni e giorni ho navigato, arrembato, cannoneggiato. Ho provato un senso di onnipotenza quando assaltavo le navi spagnole e inglesi. Mi sono perso nella natura selvaggia di isole sconosciute e mi sono fermato (mi sarei disteso, se i comandi lo avessero permesso) su spiagge di sabbia bianchissima a contemplare i gioiosi riflessi del sole di mezzogiorno nell’acqua cristallina. Ho imparato a prendere le onde anomale di prua nella tempesta, e ho osservato le notti mutarsi in albe di rame tra fumi di nebbia sul ponte della Jackdaw.
Spesso mi sono chiesto: sono io o è Kenway?, cioè: se dovessi raccontare a qualcuno dove sono stato per un’estate della mia vita, direi “Io”, come ho fatto prima, o sarebbe più appropriato parlare in terza persona? Forse ero io quando divagavo rispetto alla trama, forse ero Kenway quando tornavo alle missioni principali, in ogni caso più per senso del dovere che per curiosità. Eppure proprio la sete di denaro e il desiderio di scoprire posti ancora sconosciuti—era proprio questo che più mi legava a Kenway.
Con Kenway ho condiviso anche i dubbi sul motto del credo degli Assassini. “Niente è reale, tutto è lecito”: per tre quarti abbondanti del gioco il capitano lo ha inteso come un semplice invito a fare un po’ come gli pareva. Ma anch’io ne ho dato un’interpretazione più personale, lontana dal richiamo alla responsabilità individuale imparato a proprie spese dal vecchio Altaïr o da Ezio Auditore negli altri episodi della serie. Un’interpretazione che in parte spiega perché sono caduto nell’Animus e non sono riuscito a uscirne: tuttora non ci riesco, ed è il motivo per cui ne scrivo.
I
In Assassin’s Creed l’Animus triplica i livelli di lettura dell’esperienza videoludica. Il punto non è se sono io o Kenway, ma se siamo io, Kenway o chi entra nell’Animus. L’innesco narrativo dell’ingresso nella macchina che associa DNA e memoria suona come una riflessione piuttosto riuscita sull’esperienza videoludica. E questo sin dagli albori di Assassin’s Creed: da prima cioè che l’Abstergo Industries dei primi capitoli si trasformasse nell’Abstergo Entertainment di Black Flag, passando peraltro dall’incarnazione del complottismo tradizionale a quella di un complottismo contemporaneo—direi postmoderno—tutto megacorporation, ironia sul mondo della produzione videoludica e sul ruolo della stessa Ubisoft nella vite dei videogiocatori.
L’Animus era un’evidente metafora del videogioco già in Assassin’s Creed II, quando Minerva parlava con Ezio Auditore ma guardava in camera, affermando di volersi rivolgere direttamente a Desmond, quindi al giocatore. Lo era quando Lucy metteva in guardia Desmond dagli effetti di una permanenza prolungata nell’Animus, e quando Desmond in uscita dalla macchina soffriva di allucinazioni—non è così che ci sentiamo dopo una lunga sessione di gioco, non soffriamo anche noi di quella stessa inappetenza autobiografica che ci porta a preferire l’avanzamento tra gli eventi di una vita digitale piuttosto che tra i nostri affanni quotidiani?
Una metafora che diventa semplice didascalia in Black Flag, quando l’impiegata di Abstergo Entertainment chiede all’anonimo successore di Desmond—dunque, definitivamente a noi —quante ore consecutive è in grado di giocare. È la conferma che il motto degli Assassini, in fondo, può essere anche il motto di ogni videogiocatore.
Niente è reale, tutto è lecito: è ciò che, al netto dei limiti tecnici e di gameplay, succede in ogni videogioco, e in special modo in un open world. Al netto insomma di glitch, bug, situazioni di gioco più “estetiche” che ludiche (tanto le cutscene quanto i combattimenti, se pensiamo ad Assassin’s Creed), mappe gigantesche che non saranno mai il territorio, interni che restano inaccessibili, personaggi non giocabili che stanno lì come manichini di carne digitale… in un open world puoi fare tutto: soprattutto quando la trama è esile e ti porta a divagare, soprattutto se sei fissato coi pirati e il mondo digitale in cui t’immergi è semplicemente il posto in cui vorresti stare.
Il realismo c’entra poco, ovviamente: se niente è reale, non può esserci nemmeno realismo. In generale non ho mai giocato ai videogiochi per trovarci la realtà, e col tempo ho capito che anche esultare per il grado di realismo raggiunto dall’ultimo capitolo di FIFA o PES era una fesseria. Non si tratta di andare in un posto reale, quanto immergersi in un posto verosimile, che sia bello e divertente. Il punto, come in ogni opera di finzione, è il “come”, è la qualità del linguaggio in cui si esprime quella finzione—quel niente che è reale—e che costruisce il mondo videoludico in cui entriamo.
Ma se parliamo di linguaggio videoludico, ecco il paradosso: proprio le parti di Black Flag relative all’Animus rappresentano ciò che in genere finisce col limitare l’immersione in un’esperienza videoludica riuscita. È nell’Animus ma non è certo grazie all’Animus, insomma, che non riesco ad uscire dall’Animus.
II
Come negli altri capitoli, anche in Black Flag il ritorno al presente dell’Animus fa l’effetto di un’interruzione del ritmo di gioco e della sospensione dell’incredulità. La stessa spiacevole sensazione che segue a un passo falso dell’IA, alla manifestazione di un glitch o, se pensiamo al cinema, al crunch di patatine e popcorn in una sala affollata di spettatori distratti. Andava persino peggio quando gironzolando per gli uffici di Abstergo Entertainment mi imbattevo in materiale audio o testuale, che sentivo l’obbligo morale di consultare. Uscire dall’Animus significava uscire anche dal gioco, pur restando a tutti gli effetti nel gioco. La verità è che non volevo ascoltare o leggere la storia di Edward o di altri assassini—volevo viverla.
I videogiochi finiscono col perdere qualcosa ogni volta che inseguono altri media, specie quando tentano di replicarli al loro interno come artefatti digitali a parte. Penso agli espedienti cinematografici—non sopporto le cutscene—ma non solo. In Revelations, i monologhi di Desmond sulla sua vita prima dell’Animus sono asciutti e puliti come se li avesse firmati il miglior Carver, ma restano dei testi e li avrei letti volentieri in un libro, piuttosto che ascoltarli mentre mi cimentavo con un minigioco messo lì ad hoc tanto per fare trama. Allo stesso modo, i dialoghi con le vittime in fin di vita sullo sfondo digitale dell’Animus sono pura messinscena teatrale: avrei preferito godermeli comodamente seduto in platea, con degli attori in carne e ossa a interpretarli sul palco.
Gli altri media funzionano nei videogiochi quando i videogiochi ne incorporano e ne armonizzano il senso, il tono e l’estetica accordandoli al gameplay. Quando in Black Flag passavo da una battaglia navale alla caccia a una megattera o a un’orca, stavo davvero vivendo insieme tutti i classici a tema marinaresco che ho amato—da Moby Dick a Pirati dei Caraibi passando per Il vecchio e il mare e L’Isola del Tesoro. Quando osservavo i tramonti sul ponte della Jackdaw o esploravo la giungla di un isolotto selvatico, non stavo guardando la semplice riproduzione di un tramonto in mare aperto di Ivan Aivazovsky o di un paesaggio esotico di Frederic Edwin Church: ero parte di quel tipo di opere, mi ci muovevo all’interno.
In un videogioco, e in particolare in un’opera come Black Flag, non devo solo ascoltare, vedere, subire una storia con la speranza che le parti giocate siano alla sua altezza (o viceversa): devo poter esplorare, toccare, fare i conti con le regole fisiche del mondo in cui sono immerso, quasi fossi un turista1Per certi versi l’esperienza videoludica è davvero simile a quella turistica, prima di tutto perché presuppone il movimento all’interno di un luogo più o meno sconosciuto (e per quanto oggi il turismo sia spesso un’esperienza fortemente mediale a sua volta). È una tesi suggerita in uno dei capitoli del libro Fenomenologia di Grand Theft Auto (Mimesis), e su cui ad esempio si basa il lavoro di mappatura di Italian Videogame Program. Se vogliamo, nel caso di Assassin’s Creed il legame tra turismo e videogiochi emergeva già nella scelta delle ambientazioni dei capitoli classici (la Firenze rinascimentale su tutte)., anche quando queste regole sono semplici limiti tecnici o convenzioni e cliché—barre d’energia e collezionabili—tipici dell’esperienza videoludica.
Quando le convenzioni e i cliché sono in equilibrio rispetto ad altri aspetti e gli inserti provenienti da altri media scivolano all’interno del gioco senza attrito, l’esperienza videoludica è completa e autonoma rispetto a qualsiasi altra forma artistica o esperienza mediale: è il caso degli esempi che facevo prima a proposito della navigazione, dell’esplorazione o della caccia per mare di Black Flag. Ed è quello che emerge con una certa intensità—anche emotiva—nella parte finale del DLC Freedom Cry.
III
Ho giocato Freedom Cry fondamentalmente perché non riuscivo ad abbandonare Black Flag (scrivere queste righe non è bastato, in effetti). Voleva essere un modo per restare ancora lì, cominciando però a venire a patti con l’idea che si avvicinava il momento di lasciare le Indie Occidentali.
Nelle recensioni avevo letto di un’ottima trama con un solo problema, piuttosto evidente: a dispetto del numero pressoché infinito di schiavi neri presenti a Port-au-Prince, la parola “razzismo” non viene mai pronunciata nel corso del gioco. Ho potuto constatare subito che la parolina magica c’è (in una scheda del database Abstergo), mentre la trama mi è sembrata molto solida per via di un free roaming limitato, oltre che per l’assenza di uscite dall’Animus. Eppure, proprio il fatto di avere un tema portante finisce col depotenziare la parte puramente videoludica di Freedom Cry. Il quale fa di tutto per farti riflettere sul razzismo senza mai riuscirci per davvero, eccetto quando smette di sforzarsi di indurti a provare a tutti i costi qualche emozione a riguardo con dialoghi e colpi di scena in stile cinematografico.
Mi spiego meglio. Per tutto il gioco gli schiavi sono poco meno che personaggi non giocabili. Adéwalé, ex schiavo ed ex quartiermastro del capitano Kenway, è a Port-au-Prince per liberarli. Ma se togliamo le cutscene, cioè le parti in cui Adéwalé afferma di voler debellare lo schiavismo, di fatto il gameplay riduce ancor di più i prigionieri a convenzione videoludica. Dunque, a semplice merce di scambio.
In base al numero di schiavi liberati, in Freedom Cry puoi ottenere soldi, fiducia, armi da parte degli alleati, e spesso finisci pure col fare qualche calcolo piuttosto cinico: è più conveniente puntare sugli uomini che si limiteranno a fuggire o su quelli che si uniranno alla ciurma di Adéwalé, una volta sottratti ai francesi? Per gran parte del gioco gli schiavi restano ancorati al cliché, all’oggetto ludico che dà punti esperienza o sblocca un livello più completo di sfida.
A tratti l’effetto è decisamente sgradevole. Sarebbe interessante capire quanto fosse voluto: che differenza c’è tra gli schiavisti bianchi e il giocatore, in fondo? Le cutscene e la trama abbastanza lineare rendono ancora più evidente lo scarto tra mero achievement e libertà vera. Almeno fino agli ultimi concitati minuti del gioco, quando trama, tema ed elementi ludici convergono nello stesso punto.
Adéwalé ha appena abbordato la nave schiavista. La nave imbarca acqua, sta per affondare: raggiunta la stiva, Adéwalé tenta disperatamente di liberare quanti più schiavi possibile. Rompe più catene che può, ma l’acqua continua a entrare e gli schiavi iniziano ad annegare sotto i suoi occhi. Che a quel punto sono gli occhi del giocatore: quando l’acqua arriva al collo di Adéwalé è chiaro che Adéwalé sei tu, definitivamente, e che puoi provare a salvare solo la tua, di pelle. Non c’è altra scelta: devi immergerti e risalire in apnea verso la superficie, mentre intorno i poveri disperati ancora in ceppi cercano di liberarsi come possono, senza riuscirci, e i primi cadaveri ti galleggiano già accanto.
Ti salvi: ma questa parte è stata cruda e molto, molto tirata. L’ideale di Adéwalé è rafforzato proprio perché sconfitto dalla realtà in cui lo hai vissuto: finalmente lo senti tuo al di là dei dialoghi, fino a quel punto semplici dichiarazioni d’intenti. Il gioco ti ha posto nel bel mezzo della tragedia facendotela agire da dentro, senza più spiegoni dal database Abstergo o dalla bocca di pupazzi digitali. Né “show” né “tell”: la terza via videoludica è farti stare dentro le cose. Il finale di Freedom Cry è la dimostrazione che quando i videogiochi smettono di inseguire il cinema e tutto ciò che potrebbe legittimarli in senso artistico, allora possono diventare un’esperienza molto significativa, oltre che divertente. Da cui si esce a fatica, e a volte persino un po’ cambiati.
IV
Da Black Flag, forse, non sono mai uscito. È la conclusione cui sono arrivato nei giorni successivi all’esperienza di Freedom Cry, quando mi sono detto che non sarei più rientrato nell’Animus finché non avessi finito di scrivere questo pezzo. È quello che ho fatto.
Ogni tanto però sentivo un certo richiamo. Pezzi di colonna sonora—dal menu di pausa, dalle battaglie o dai momenti di canto sulla Jackdaw—facevano capolino senza alcun preavviso tra i miei pensieri, e le immagini di una cattedrale tardo barocca dell’Avana finivano col sovrapporsi alle foto di una chiesa di Palermo postate su Instagram da un amico in vacanza in Sicilia.
Nella cosiddetta vita reale non sono mai stato a L’Avana, a Palermo non ricordo bene, e quelle canzoni lì non le ho mai ascoltate davvero. That’s a lie, that’s a lie, that’s a lie lie lie…