Scriveva Paul Valéry in Cimitero Marino, raccontando una distesa immobile e senza fine, senza storia: La mer, la mer, toujours recommencée! Il mare è anche ambientazione e fulcro di Beyond Blue, titolo di E-Line Media che si ispira al documentario della BBC Blue Planet II. La dottoressa Mirai—figlia d’arte, sua nonna era infatti una «ama» o «uminchu», una pescatrice subacquea in apnea giapponese—si immerge nelle varie fasce marine per studiare differenti specie animali e in primis balene e capidogli—da cui la protagonista è incredibilmente affascinata perché, come afferma il biologo marino David Gruber, «il suono è tutto per le balene. E’ le loro mani. Sono gli animali con il cervello e l’apparato uditivo più grande sulla Terra». Mirai riesce a comunicare con la terraferma tramite wi-fi e fa livestream con i fan della missione, improntata alla mappatura del mare—tra l’altro ricordiamo che nella realtà l’ottanta percento del mare è inesplorato!—all’analisi dei canti delle balene e alla scansione degli animali.
Beyond Blue appare molto curato dal punto di vista nozionistico e documentaristico, con un’attenzione particolare alla modellazione degli animali con cui Mirai interagisce; forse proprio questa esplorazione con poca e scarsa interazione potrebbe dissuadere molti giocatori dal provare il titolo. I tratti che lo rendono un «simulatore di esplorazione» inseriscono Beyond Blue nel filone di walking simulator e anti-game, videogiochi che sovvertono i modelli tradizionali, inserendo magari metacommentary, offrendo diversi modi di giocare ed esplorare. Come nota Melissa Kagen in Walking simulators, #Gamergate, and the gender of wandering ricordando le parole di Erik Fredner: «i giochi tradizionali ti danno degli obiettivi e degli achievement da raggiungere. Mentre gli anti-game offrono opportunità, ma non esigono mai nulla. Non puoi perdere in questo tipo di giochi, ma puoi restarne deluso». In effetti non si può perdere impersonificando Mirai, dato che catalogazione e analisi è tutto ciò che si può fare; e mentre nei walking simulator «camminare è il mezzo per un fine, un modo per rendere il movimento del personaggio non invadente», in Beyond Blue nuotare nell’oceano con una muta priva di bombole d’ossigeno si configura come main activity che permette di strumentalizzare la relazione tra personaggio e paesaggio, in un gameplay che pare essere un doppio della digressione in letteratura, dato che abbiamo basiche istruzioni e una possibilità di muoverci liberamente nello spazio digitale con una agency motoria limitata solo dalla mappa giocabile.
Basta un’analisi più approfondita della materia trattata per capire subito come Mirai non rispecchi semplicemente un personaggio vagante, come ad esempio il flaneur di Walter Benjamin: un wanderer uomo, senza una meta precisa, versus una donna scienziata, non caucasica, che nel suo vagare cerca, scopre, impara e parimenti osserva il mondo nei minimi dettagli—nonostante ciò, purtroppo, abbiamo una visione abbastanza superficiale della protagonista e delle sue relazioni, che sono appena abbozzate. Tra le poche attività che possiamo intraprendere nel videogioco, il titolo ci offre uno sguardo anche sull’ambiente più «intimo» della protagonista, ovvero un sottomarino con un’unica cabina dove la scienziata passa il tempo quando non è a stretto contatto con le balene.
Un parallelismo tra Beyond Blue e In Other Waters pare inevitabile, avendo entrambi come matrice la ricerca e il mare, sebbene su due pianeti diversi, Terra e Gliese 667 Cc. Se nel titolo di Gareth Damian Martin, ambientato in un vicino ma imprecisato futuro, la tecnologia è molto sviluppata—tanto da permetterci di vagare nello spazio e in un altro oceano—in Beyond Blue la scienza fa qualche passo avanti, ma non arriva così lontano. Il lavoro di analisi e catalogazione di cui siamo artefici in entrambi i titoli solo in In Other Waters—col suo spirito trial and error—pare avere uno scopo intrinseco e funzionale alla narrazione. Mirai non usa le conoscenze acquisite per creare altro, almeno non nell’universo del videogioco: sono invece forse proiettate verso un progresso generale dell’umanità a cui noi non possiamo assistere. Tra i titoli citati intercorre una differenza anche a livello puramente visivo: Beyond Blue ci offre uno scenario che rispecchia la realtà in modo diretto, contro una stilizzazione che lascia molto all’immaginazione in In Other Waters; in quest’ultimo la geometria basica delle forme vuole sottolineare l’aspetto fantascientifico e narrativo, mentre il primo risente del suo concept legato ai reportage—in questo senso, Mirai sembra portare avanti ricerche su cetacei e sperm whale che ricordano lo studio dello Smithsonian Ocean sull’effetto dei sonar sui mammiferi marini.
Ecco che Beyond Blue si appropria di un potere di rappresentazione e si occupa di un campo scientifico estremamente settoriale, in un rapporto di mimesi quasi icastica, incarnando il concetto che originariamente intendevano i greci di mimeisthai e mimesis, in primo luogo come azione e non semplice riproduzione. In questo contesto, non possiamo non ricordare come per Theodor Adorno la mimesis si riferisca ad un tipo particolare di attività umana che non si limita al dominio dell’esperienza estetica, ma in cui il soggetto è assorbito e assimilato dall’oggetto estetico. In Do Computer Games Simulate, After All? Reconsidering Virtuality di Vell-Matti Karhulahti leggiamo che il termine «simulazione» fu usato in ambito scientifico negli anni Sessanta, ma la definizione filosofica moderna fu data da Paul Humphreys; mentre la «simulazione computerizzata» è divenuta al giorno d’oggi sinonimo di simulazione in generale, nei videogiochi c’è spesso un mondo preesistente che viene simulato. E mentre solitamente i giochi di simulazione ci permettono di sperimentare virtualmente magari attività ricreative o sportive, il titolo di E-Line Media ci proietta in un universo che non vuole propriamente insegnarci, ma mostrarci qualcosa.
Infine, Benjamin Nicoll in Mimesis as mediation: A dialectical conception of the videogame interface sottolinea come i teorici dei media abbiano a lungo concentrato la loro attenzione sullo studio dello scambio mimetico tra il soggetto che sperimenta e l’oggetto-videogioco nel momento del gioco; e John Fiske, nel suo Understanding Popular Culture descrive l’intensa concentrazione necessaria nei videogiochi come un momento di libertà in cui il giocatore si slega dal suo corpo e della sua «definizione sociale di controllo, dalla tirannia del soggetto che solitamente abita la carne». Così, contro le critiche mosse a Beyond Blue di essere poco emozionante, poco curato sul lato dialogico e sceneggiato, dobbiamo riconoscergli il merito di annullare la dicotomia umano/macchina, rendendoci partecipi di un mondo sottomarino che siamo ancora ben lontani dall’aver completamente esplorato.