È il 2018: sul nostro schermo, Jonah Hill ed Emma Stone in Maniac (regia di Cary Fukunaga) si sottopongono inconsciamente all’esperimento del dottor James Mantleray e della dottoressa Azumi Fujita, che prevede la somministrazione in tre fasi di un farmaco capace di indurre uno stato onirico controllato dal computer GRTA. I protagonisti Owen Milgrim e Annie Landsberg soffrono il primo di schizofrenia e la seconda di disturbo borderline; il programma si propone, quindi, di risolvere le problematiche molto complesse della psiche dei suoi soggetti tramite la ricostruzione dell’esperienza traumatica vissuta nella realtà. La trama prende una piega inaspettata perché GRTA, a causa della sua depressione, non è più in grado di gestire le realtà alternative che nei sogni legano indissolubilmente Owen e Annie.
Condizionamento e alterazione dello stato mentale sono anche i temi di Superliminal, il titolo della Pillow Castle che si propone come un puzzle game in prima persona basato sulla prospettiva forzata e le illusioni ottiche. Queste illusioni avvengono in uno stato onirico nel progetto della Somnasculpt del dottor Glenn Pierce: il sogno lucido diviene l’ambiente fisico in cui possiamo esercitarci in un problem solving che non si avvale della logica sequenziale, ma del pensiero laterale; una risoluzione di enigmi ambientali che prescinde dalla strada che sembra l’unica percorribile.
Allora una casa minuscola diventa a grandezza d’uomo, passiamo per una porta, diventiamo enormi, entriamo in loop che paiono interminabili. Quando cose del genere avvengono nei sogni siamo consapevoli di star sognando, e se abbiamo anche un parziale possesso delle nostre azioni ci riferiamo a quest’esperienza come “sogno lucido”; conosciuta fin dall’antichità, menzionata anche da Aristotele nel quarto secolo nel suo trattato Sui sogni (inserito in Parva Naturali). La moderna nomenclatura che si riferisce a quest’esperienza è stata per la prima volta introdotta nel 1913 dallo psichiatra tedesco Federik Van Eeden, il quale descrisse i sogni lucidi come sogni in cui “l’integrazione delle funzioni psichiche è così completa che il sognatore ricorda la vita vera e la sua condizione”.
Superliminal e Maniac sono l’incarnazione ludica e artistica di una tradizione terapeutica che trova le sue radici nella fondazione stessa della psicologia: in ambito medico, gli psicoanalisti riconobbero il potere dei sogni nelle terapie e la loro capacità di “illuminare” i conflitti inconsci; nel suo ormai universalmente conosciuto L’interpretazione dei sogni (1866), Sigmund Freud afferma che lo scopo primario del materiale onirico è quello di soddisfare desideri primitivi e infantili che vengono repressi durante la nostra vita diurna. I sogni dunque offrono un “percorso privilegiato” (la cosiddetta “royal road”) nell’analisi dell’inconscio, soprattutto tramite la libera associazione, in cui il sognatore dice qualsiasi cosa gli venga in mente; attraverso la messa in relazione con le immagini oniriche, le origini dei conflitti intrapsichici del paziente vengono rivelati.
Oggi l’idea di utilizzare i sogni in un percorso curativo potrebbe sembrare inusuale, ma storicamente possiamo tracciare un filo conduttore che parte dagli egizi e passa per la civiltà greca. Aristotele e Platone scrissero che i sogni permettono una introspezione interiore, tramite cui il funzionamento del corpo e dell’anima poteva essere osservato durante il sonno. Ippocrate e Galeno ascoltavano i sogni dei pazienti a scopi diagnostici e prognostici. Un ammalato poteva recarsi in uno dei templi di Asclepio, svolgere i riti di abluzione e purificazione, dormire in una camera annessa al tempio ed aspettare un “sogno curativo”. Asclepio era il dio della guarigione e, secondo la tradizione, lui o una delle sue rappresentazioni poteva apparire nei sogni e curare le afflizioni dei pazienti.
Ritornando alla nostra esperienza videoludica-onirica, non è tramite l’analisi del sogno che il dottor Pierce si propone di curare chi si rivolge alla sua clinica: il trattamento avviene, come abbiamo detto, tramite la manipolazione del materiale onirico, e ci rimanda al celebre saggio breve di Aldous Huxley Le porte della percezione, in cui lo scrittore racconta della sua esperienza psichedelica con la mescalina. Huxley riteneva di fatti che la comunicazione visiva avesse una capacità evocativa molto più impattante della “semplice” comunicazione orale. Il giocatore di Superliminal non si trova però a plasmare il mondo o godere dei colori ma, appresi determinati pattern di interazione, deve abituarsi a vederli riproposti in scenari progressivi, destabilizzanti e sempre diversi.
In questo senso, Rudolf Arnheim in Arte e percezione visiva ci dice:
Quando un bambino di due anni o uno scimpanzè hanno imparato che, di due scatole presentategli, quella caratterizzata da un triangolo d’una particolare forma e dimensione contiene sempre del cibo appetitoso, essi sono poi capaci senza sforzo di applicare l’addestramento così acquisito anche a triangoli di aspetti assai diversi. Il triangolo può essere molto più piccolo o molto più grande, o capovolto; un triangolo nero su fondo bianco può essere rimpiazzato da uno bianco su fondo nero, o un triangolo disegnato da un solido: tutti questi cambiamenti sembrano creare una scarsa difficoltà al riconoscimento […]. Il processo percettivo rivelato da questo genere di comportamento è ancora definito dagli psicologi come “generalizzazione”.
Il tema del loop si ritrova in varie sezioni ed è anche il principio del gioco: l’eterno ritorno alla camera da letto da cui partiamo non ci permette di afferrare la concatenazione di eventi temporalmente successivi che solitamente ricerchiamo nei videogiochi. In merito a ciò, ricordiamo il pensiero del filosofo francese Henri Bergson, secondo cui siamo portati a percepire il tempo come una successione di istanti frutto dell’operazione dell’intelletto; esso percepisce il tempo come qualcosa di fisico e lo divide in tratti uguali (“Quando seguo con gli occhi sul quadrante di un orologio il movimento della lancetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, non misuro la durata, come potrebbe sembrare; mi limito invece a contare delle simultaneità, cosa molto diversa”1Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Cortina Raffaello, 2002). Il tempo non è una “realtà oggettiva”, quello “vissuto” equivale alla durata che non può essere percepita con l’intelligenza, ma solo con la coscienza e la memoria. Ciò che secondo Bergson il tempo della scienza tralascia è qualcosa che anche giocando a Superliminal non dobbiamo dimenticare: il tempo filtrato ed elaborato dalla nostra coscienza permette salti, dilatazioni, è un fluire continuo che non può essere interrotto.
Ripetizione dei suddetti pattern in più scenari e un’altra visione del tempo, in una videoludica “deprivazione sensoriale” alla effetto Ganzfeld (alcune scene finali ricordano la “thingness of light” di James Turrell; chi ha giocato al gioco, vi associerà ancora Turrell per Afrum I White), ci trasportano ad una conclusione che va nel senso opposto a The Stanley Parable, con cui Superliminal condivide l’estetica: da un lato entrambi, uno esplicitamente e l’altro solo in conclusione, ci rendono consapevoli che la libertà in cui pensiamo di agire è parte integrante della narrativa; ma mentre The Stanley Parable estende l’impossibilità di uscire dal recinto anche al “mondo tangibile”, Superliminal, in un messaggio di speranza urlato a gran voce, ci vuole ricordare che adottando un altro punto di vista potremmo capire la reale natura dei nostri problemi e, muniti di pazienza e testardaggine, superarli.