Goccia a goccia, la trafila stanca e felice del liquore procede giù per la gola. Da che mondo è mondo, un fiume di bevande fermentate, eccitanti, semplicemente alcoliche hanno dettato il ritmo ai nostri lombi, alle nottate e ai risvegli. Oppure, manco a dirlo, hanno accompagnato i nostri pasti e le parentesi di socialità. Persino lo spirito e gli dèi ne hanno giovato. Soprattutto loro.
Recentemente, una piccola perla della saggistica sui generis, quale Breve storia dell’ubriachezza di Mark Forsyth, uscita per Il Saggiatore, ha provveduto a rivedere e rilanciare la storia della specie umana proprio a partire dal fondo della bottiglia. Lì, dove la visione si fa distorta per i fumi e l’ebbrezza. Così, tra le altre cose, ci è stato raccontato che, forse, prima ancora di utilizzare i cereali per il loro apporto nutritivo (leggasi: farinacei, pane e derivati), noialtri bipedi viziosi ci siamo infilati nel piatto sbobbe fermentate da trangugiare per alterare le nostre coscienze.
È in questo modo che la curiosità si fa forte, e spontaneo sorge il dubbio: se fosse stata proprio questa la spinta evolutiva che ci ha portati a fermare la nostra corsa nomadica, trasformandoci così in guitti ebbri e stanziali, una mano ferma a coltivare orzo, l’altra più in alto dietro ai viticci dell’uva?
O, addirittura, se oltre e al di sopra dell’”invenzione” dell’agricoltura, magari proprio per questi fini dionisiaci, quando ancora l’uomo era di là da venire e ciondolava pigro dagli alberi o lungo le praterie, con il suo bel pelo folto e denso dell’alba dell’ominide, se già allora avessimo deciso di calarci giù dai rami per raccogliere da terra i frutti caduti, marci di fermentazione, zuccherini e gonfi d’assaggi alcolici, cosa dovremmo quindi pensare di questa civilizzazione nata dall’effluvio di bevande così stonate? Cosa dovremmo aspettarci da noi stessi?
Seppure la risposta sia ancora incerta la prospettiva rimane affascinante e lubrica il giusto. D’altronde, la storia dell’umanità è costellata da stati alterati della coscienza, un filo di verità dovrà pur esserci.
Luminari della scrittura, filosofi del linguaggio, etnografi eretici, antropologi vari hanno tutti delineato un quadro poliedrico ma paradossalmente unitario: la strada umana è stata percorsa tenendo d’occhio pietre miliari ben precise: sostanze e molecole che manipolano la mente, l’immaginazione e la percezione di noi stessi e del mondo.
Siamo noi il nostro mondo? Oppure siamo simulazioni viventi, la sbronza vivida di un demiurgo capriccioso e alcolizzato? Sono domande peregrine, è vero, da farsi soprattutto quando si è in compagnia della perfetta solitudine. Eppure, magari, scontano fino in fondo il risultato dello spunto giusto dato un bicchiere, o una molecola, di troppo. E la scintilla biologica della metafisica religiosa, l’introversione filosofica e la spiritualità emotiva, pura e semplice, potrebbe proprio essere rintracciabile da queste parti.
Quindi, in un secolo percorso dai revenant del passato e dai simulacri digitali degli dèi d’oggi, è solo naturale che tra i nostri consumi e prodotti culturali attuali appaiano oggetti alieni che ne trattano in diretta la sostanza alcolica. Poiché gli anfratti videoludici sono del tutto permeabili, nonché ormai un frutto diretto e importante della nostra cultura, anche questi vengono invasi dall’ebrezza di un tasso alcolemico troppo elevato. Tra un bicchiere di Soma e un grappino di troppo, le nostre controparti digitali hanno potuto assaggiare diverse liquide forme di piacere.
Quelle stesse forme che sono plasmate da e hanno plasmato il nostro essere. “Come sopra, così sotto”, urlano forte lo gnostico e il mistico. “Come nel reale, così nel simulacro digitale”, ha gridato con dolore un omino fatto di carne e pixel. In effetti, a voler ben guardare, la storia del mezzo videoludico non solo non ha risparmiato l’influsso di tonici speciali sui suoi utenti, giocatori e protagonisti, bensì tutto il contrario: ne ha abusato.
Quasi che si possa intravedere come un unico lungo fiume carsico sottotraccia, un’unica bevuta di distillati da consumare strada facendo, tra corridoi e piattaforme, spari e salti, accompagnandosi ad altre, più esotiche o proibite, sostanze.
Volendo scacciare le sostanze alternative dal quadro, se ci soffermiamo sugli alcolici la maggior parte del tempo questi costituiscono solo una parentesi passeggera nelle meccaniche di gioco: hanno effetti di boost, guarigione minima, temporanei bonus alle caratteristiche. Però provocano traballamenti, coltri di annebbiamento, visioni fuori fuoco, svenimenti e non molto altro. Di fatto sono una imitazione grottesca del reale, peraltro spogliata dalle grandi differenze che i singoli liquori si portano appresso.
Si pensi alla grande maggioranza dei FPS, a Grand Theft Auto, Prey (dove lo si può utilizzare per combattere la paura), Fallout (benvenuta, dipendenza), Red Dead Redemption, Witcher 3 (qui una bella guida ai vostri bagordi e riposi) e Mass Effect, oppure a singoli esempi narratologici dove il classico archetipo dell’ex beone problematico si fa avanti per affrontare i propri demoni interiori (Firewatch, per esempio, oppure Max Payne).
Bene, in tutti questi casi l’utilizzo degli alcolici, sia sul fronte del gameplay che di quello narrativo, è poco più che il riflesso sconsiderato delle malsane abitudini di buona parte della popolazione mondiale. L’incarnazione del binge drinking contro ogni differenziazione ed apprezzamento del palato.
Il che conduce a una presa di posizione paradossale, un po’ contraddittoria e moraleggiante. Nella vita di tutti i giorni, difatti, è molto probabile che noialtri si possa intercettare qualche alcolico; berlo e goderne. Al contrario, la maggior parte di noi non ha quotidianamente a che fare con armi e violenza. Ciò non evita, tuttavia, che la violenza e l’alcol vengano visti, pesati e raccontati con due bilance ben diverse e sproporzionate in ambito videoludico. Almeno all’interno della maggior parte dei giochi.
Per questo motivo, ci fermiamo su The Red Strings Club. Una novità: qui accade diametralmente l’opposto, con tutta l’intenzionalità del caso.
Il gioco, sviluppato da Deconstructeam, è una narrazione sperimentale, che usa in apparenza le meccaniche del punta-e-clicca per raccontare i limiti del libero arbitrio, l’importanza della percezione e dei sentimenti e l’influenza quotidiana dei grossi conglomerati aziendali o pubblicitari. Tranquilli, è molto meno un mattone di quanto non sembri.
Deconstructeam è uno studio ambizioso di stretta marcatura indie, che già con il precedente Gods Will Be Watching aveva lavorato con un modus operandi del tutto personale, facendo in modo di far pesare a dovere sul giocatore le sue scelte etiche e morali. A fronte di diversi scenari, il fortunato giocatore (piuttosto cocciuto, vista la difficoltà e il nichilismo esistenziale generale della storia) doveva infatti confrontarsi con diverse situazioni di crisi, tutte da affrontare con un’oculata gestione del tempo, delle risorse e della frizione morale nel frattempo occorsa: un puzzle game per l’anima e la mente.
Il gioco viveva del ritorno alla pixel art e agli archetipi della speculative fiction e, oggi come allora, s’impiantava a dovere nella mente per la gestione estetica e il minimalismo coraggioso della sostanza.
Con il nuovo gioco, sul fronte grafico gli sviluppatori si muovono su terreni simili, per quanto più tradizionali: in The Red Strings Club per gli scenari viene scelta un’estetica (in)fedele ai cliché della fantascienza. Un tripudio di pixel che potrebbero essere tolti di peso da Monkey Island, quadri quasi immobili, poche ed efficaci animazioni o caratterizzazioni grafiche. Una forma di apparente riduzionismo visivo che è invece perfetto per gli scopi prefissati. Dove però GWBWY osava in forma e fantasie, The Red Strings Club è più tradizionalmente cyberpunk, con un filo di hard boiled e noir a modificarne i modi e colori.
Ad ogni buon conto, proprio come il predecessore appena citato, The Red Strings Club interseca il videogioco con il comte philosophique: può essere cioè visto quasi come la declinazione di un genere “letterario”, didascalico e a tema, una ferma presa di posizione critica e narrativa verso l’esistente.
Un genere che, però, cambiando come cambiano i tempi, viene aggiornato e diventa interattivo e con cui possiamo sì estrapolare le nostre eventuali soluzioni filosofiche, ma soprattutto impiegarle e sperimentarle sul campo. Con tutti i limiti e la verosimiglianza relativa che derivano dalla programmazione e dalla scrittura, ovviamente.
Dove però in origine trovavamo chiavi ironiche e grottesche, per quanto violente o crudeli (si pensi al classico Candide di Voltaire, ma anche ai Viaggi di Gulliver di J. Swift, perché no), qui ci viene rinfacciato un futuro che ha l’afrore del realismo, benché per ora—parzialmente—distopico.
Con i protagonisti di The Red String Club viviamo infatti in un domani incerto, dove i nostri eroi sono i silenziosi agenti di un movimento controculturale che lotta contro la più classica delle potenze transnazionali, quelle che vogliono ingabbiare e limitare le libertà personali. Una lotta impari, che qui viene condotta quasi solamente nei termini dell’ingegneria sociale. E, in particolare, con l’ausilio delle bevande alcoliche servite e usate come armi dal nostro Donovan, proprietario del locale che dà il nome al titolo: The Red Strings Club.
Il nostro ambiguo pseudo-protagonista infatti, e noi con lui, non dovrà far altro che servire ai clienti un’oculata selezione d’intrugli e cocktail, i quali vengono usati per facilitare il dialogo ed estirpare loro le informazioni. Puntare, cioè, a manipolare l’umore del commensale per instradarlo verso lo stato mentale più consono ai nostri scopi. Far bere gli altri per scioglier loro la lingua, in pratica.
Il meccanismo con il quale la manovra è messa in essere ha la forma di puzzle, è un po’ macchinoso ma restituisce la difficoltà dell’impresa. In più, oltre il piacere ludico, permette di ragionare sul grado di contraddizione etica che ci troviamo a impersonare. Siamo messi alla stregua di un pusher idealista ma ipocrita ed egotista, la controparte del malvagio nemico che ci troviamo a combattere.
A far compagnia a Donovan, ulteriori meccaniche di gioco e diversi personaggi, sempre però dediti alla manipolazione altrui, seppur con mezzi e intenti differenti. A tratti, inquietantemente, si rasenta la realtà fattuale ed effettiva del nostro presente.
Ad affiancare The Red Strings Club e la sua parabola alcolica è anche un gioco ora in progettazione: Afterparty. Il quale gioco soddisfa uno dei desiderata di qualsiasi individuo sano di mente e rispettabile: poter ubriacarsi con Satana.
Attualmente in fase di sviluppo, a mettere le mani su questa nobile e realistica mission sono gli autori del melanconico, riuscitissimo, omaggio eighties a nome Oxenfree. Il quale era una parabola dove ritrovare i ricordi di un’estate simil-Standy By Me e sperimentare un gioco che ruotava intorno ai rapporti interpersonali. La storia era favorita peraltro da una meccanica di gioco particolare, incentrata sulle tempistiche di un dialogo pseudo-spontaneo, imberbe nell’espressione dei sentimenti ma realistico nei toni e nei modi, in grado di far vibrare il cuoricino dell’adolescente che è ancora in noi, senza abbandonarci mai.
Oxenfree era ammirevole anche per altre questioni: una direzione artistica e una resa stupenda, ai confini con l’illustrazione e la pittura spicciola, unita a musiche e sound design da favola; un sistema di gioco che, finalmente, tagliava quasi del tutto le cut-scene per scegliere di lasciare il gioco quasi interamente in mano al, guarda un po’, giocatore. E il risultato, un’esperienza organica, emotivamente carica di conseguenze, dava ragione ai programmatori.
Ora invece i ragazzi di Night School Studio, con Afterparty, puntano a rimodellare e migliorare quanto di buono già fatto. E ci mancherebbe altro. Utilizzando però l’alcol.
In primis stanno mettendo mano alla ramificazione dei dialoghi in tempo reale: proprio sui dialoghi s’innescherebbe poi il tracimare delle acque alcoliche. Lo scopo è quello di dare vita a un intero nuovo sistema e meccanica basati sulla sbevazzata.
Vestendo i panni di due sfortunati ragazzini, morti e defunti, che hanno scommesso l’anima con Satana, i giocatori avranno modo infatti di usare distillati, cocktail, grappe e fermentazioni varie a mo’ di armi. Il motivo d’interesse è presto detto: a seconda della scelta e dei liquori a disposizione andrà a cambiare l’albero dialogico a disposizione dei personaggi. In questo modo Afterparty ci permetterà di rispondere a diverse domande: cosa diavolo si beve all’inferno? Cosa ti bevi oggi, lettore o lettrice? E come preferisci finire questa conversazione palesemente ubriaca, da me, da te, sul pavimento, o a berciare in giro per le strade?
Se avete mai sperimentato diverse bevute (e sbronze…) a seconda delle diverse situazioni e compagnie, sapete di quali sciagurati esiti stiamo parlando.
Ad ogni modo, più seriamente, nel gioco si avrà modo di ragionare sul senso stesso del dialogo, in sé e per sé. Come un esercizio linguistico e didattico, lubrificato da diverse migliaia di anni di alcol.
Di questo si è, ovviamente, tenuto conto anche in VA-11 Hall-A: Cyberpunk Bartender Action, del 2016. Il quale è una sorta di compendio di tutto quel che ci siamo detti, distillato e schiaffato sul bancone. Al netto di un poco di ripetitività, il gioco di Sukeban Games si presenta come una sorta di visual novel e ci mette, anche qui, nei panni di un(a) barista. Nostro dovere sarà quello di scavare nell’anima dei nostri clienti, per sviluppare un microcosmo relazionale e intimo di fiducia e confessioni private. Manco a dirlo, l’unico mezzo per raggiungere il “successo” sarà servire i nostri drink, imparando a conoscere le dosi, i desiderata dei clienti e scegliendo di spingere o meno sull’acceleratore dell’alcolismo altrui. Partendo da una base di dating sim, gli sviluppatori sono così riusciti a indagare le vite normali che di solito restano ai margini dell’estetica cyberpunk, immergendo il giocatore in un ibrido tragicomico molto interessante.
E per dire di quanto l’alcol abbia plasmato, in un modo o nell’altro, l’universo videoludico, citiamo altri due titoli di un cosmo enorme e in espansione. Tapper e Yo, Bartender!. Il primo uscito nel 1983, il secondo un progetto di ricerca di un gruppo di studenti svedesi, uscito pochi mesi or sono.
Indovinate cosa dovevate fare, in entrambi i casi? È così che l’alcol, lontano dalle problematiche del mondo reale e dall’eccesso bulimico del consumo odierno, torna a essere un mezzo liquido per trovare gli altri e ritrovare se stessi.
Ovviamente, non vogliamo qui indurre nessuno all’alcolismo. Si vuole però riflettere su quanto i videogiochi possano diventare una materia inedita per ripensare l’esistente. Magari, esagerando, per superare le dipendenze, oppure per peggiorarle (o crearne di nuove, a leggere il DSM giunto alla quinta edizione), oppure ancora essere trasformati in drinking game o direttamente giocati da sbronzi. A voi la scelta.
Ad ogni modo, nel dubbio, noialtri ci teniamo stretto l’Inno a Ninkasi, del 1800 a.C. circa: più che un inno, la ricetta della birra. E in una sacra triade d’alterazione, vi si consiglia anche il recentemente riedito—finalmente!—Il fungo sacro e la croce di John M. Allegro (Ghibli Edizioni), che riporta l’origine della religione a culti misterici, riti psicotropici e iniziazioni sessuali; Il pane stupefacente, dell’eccelso Piero Camporesi (Il Saggiatore) e la sfida di sintesi raccontata da LSD, di Agnese Codignola (Utet). Che potrebbero essere, chissà, argomenti adatti ad ulteriori approfondimenti.
P.S. Questo articolo potrebbe essere stato scritto con la vicinanza di Dioniso e Bacco.