Quando si parla di videogiochi, si usa spesso l’espressione “power fantasy”. Per la critica si tratta di uno strumento utile a delineare un profilo psicanalitico del medium: quali desideri intendiamo soddisfare, immergendoci nei mondi videoludici? Nelle mani di pubblico e sviluppatori, invece, l’idea è stata presa fin troppo alla lettera, portando a risposte sempre più omologate. Esiste un’esagerata quantità di titoli in cui chi gioca viene messo nei panni del lupo solitario, dell’ultimo sopravvissuto, del prescelto, dell’eroe grande e grosso da cui dipende il destino di innumerevoli altre persone.
Ora, non si vuole mettere qui in dubbio il fatto che ogni desiderio sia rispettabile (anche se alcuni lo sono meno di altri: per questo una volta, ai concorsi di bellezza, le ragazze andavano sul sicuro sostenendo di volere la pace nel mondo); non è questo il punto. La questione è un’altra, e si può riassumere così: considerati esclusivamente sotto questo profilo, Doom, Halo, Assassin’s Creed, SimCity, Civilization, Age of Empires e tantissimi altri franchise tra i più famosi, sono lo stesso identico videogioco (vale a dire: presentano la stessa declinazione di power fantasy, esaudiscono lo stesso desiderio).
Lo si potrebbe considerare un circuito che si autoalimenta: ogni videogioco non contribuisce alla cultura videoludica solamente accrescendo quel bagaglio di esperienze e competenze che potranno poi essere sfruttate quando si andranno a giocare altri titoli; finisce anche col definire aspettative e desideri—a formare nella testa di chi gioca, cioè, un’idea più o meno precisa di quale tipo di esperienza ci si possa attendere, nel momento in cui si decida di dedicare un po’ del proprio tempo a un’opera videoludica; ma anche di che cosa sia il potere, e cosa significhi averne.
Se è corretto supporre che lo sviluppo di un medium passi anche per la sua analisi, allora quello videoludico sarà definitivamente maturo solo quando uscirà un testo critico simile allo studio psicanalitico del cinema compiuto da Christian Metz. Intanto possiamo chiederci, se non altro, per quale motivo un medium attraverso cui si può fare letteralmente qualsiasi tipo di esperienza finisca col proporre prevalentemente, e con grandissimo successo, la medesima; e soprattutto, celebrare adeguatamente i titoli che meglio sanno sottrarsi a questa formula ormai dominante.
Prendiamo il caso di Thank Goodness You’re Here!, un gioco che soddisfa la power fantasy molto meno richiesta, la power fantasy forse quasi di nessuno, di essere piccoli, praticamente minuscoli, abbastanza da potersi infilare in un tubo pluviale; o da trovarsi appesi a un filo per stendere il bucato; o da entrare in un sistema di spillatura per finire serviti sul bancone di un pub, all’interno di un bicchiere di birra. Che follia è mai questa? La descrizione presente su Steam parla di «una “giocommedia” a piattaforme», ma aiuta più che altro a capire quanto certe espressioni siano intraducibili—in questo caso “slapformer”, azzeccatissimo neologismo formato dall’unione di slapstick e platformer.
Più utile risulta una dichiarazione di Will Todd, metà dello studio Coal Supper insieme a James Carbutt, riportata tempo fa su Edge (sul numero #392): «Il gioco perfetto per me ha zero gameplay: vai solamente in giro, premi il pulsante per interagire, e uno strano personaggio dice una cosa completamente priva di senso e si mette a ridere come un pazzo». Thank Goodness You’re Here! è esattamente questo, e al contempo un titolo estremamente più sofisticato.
Il protagonista, molto piccolo e giallo, è un venditore giunto nella cittadina inglese di Barnsworth per parlare di un qualche affare con il sindaco, che però è troppo occupato per riceverlo subito. Invece di restare a fare anticamera, il nostro eroe decide di ammazzare il tempo andandosene a spasso. Inizia così la sua avventura, che lo porterà a fare strani incontri, perché i cittadini di Barnsworth sono tutti parecchio bizzarri.
Descriverli rovinerà un po’ il piacere di incontrarli per la prima volta, ma giusto per dare un’idea: c’è un pescivendolo la cui attività si basa su un’improbabile unione di pesci e sigarette; c’è un personaggio che fa tutto, compreso uscire di casa, senza alzarsi dal letto; ci sono dei topi all’interno di un alimentari che conducono un’attività parallela, ma sono pronti a prendere il controllo anche di quella principale. Il mio preferito? Un simpatico ometto coi baffi che se ne sta di fronte al muro di un edificio pretendendo di vendere mattoni—chiaramente un truffatore; a un certo punto la parete crollerà, rivelando l’insegna di un negozio di mobili usati, quelli della casa appena danneggiata.
Il game design di Thank Goodness You’re Here! è ricco di trovate volte a sfruttare al massimo questo vasto campionario di personaggi e situazioni comiche; il protagonista riceverà molte richieste di aiuto, ma questo non si tradurrà mai nell’esplicita assegnazione di una missione, e di conseguenza nemmeno in un vero e proprio elemento di blocco nella progressione. Con un pretesto qualsiasi—che quasi sempre sarà esso stesso una gag, come ad esempio una macchina di scuola guida incastrata in una strada—il raggio d’azione del nostro eroe sarà temporaneamente limitato, giusto per il tempo necessario a trovare l’interazione necessaria a risolvere il problema, e a godersi, mentre si procede per tentativi, tutti gli altri spunti comici sparsi per il quadro.
Si dimostra estremamente efficace, da questo punto di vista, la scelta di uno stile grafico caratterizzato da contorni marcati, colori piatti, una forte dose di umorismo visivo e una notevole densità di dettagli; quest’ultima in particolare, che può ricordare le tavole della fortunata serie di libri per bambini Dov’è Wally, ed era già stata alla base di giochi come Hidden Folks o Hidden Through Time, in Thank Goodness You’re Here! ha la funzione non di nascondere, bensì di rivelare. Come nelle migliori puntate dei Simpson, tantissime cose che sarebbe un peccato perdersi si trovano in secondo piano, o ai margini dell’azione, e il gameplay aiuta a farci caso e a trarne divertimento; in un certo senso, per chi gioca si tratta più spesso di farsi raggiungere che di cercare.
Un’altra decisione importante riguarda la struttura circolare di Thank Goodness You’re Here!. Il protagonista farà ritorno più volte nelle stesse zone della cittadina, trovando sempre situazioni inedite, o nuove evoluzioni di quelle già viste. Questo permette di alternare spunti comici diversi: alcuni sono al centro delle avventure del protagonista, e costituiscono nella maggior parte dei casi delle vere sorprese; altri sono ricorrenti, e chi gioca può pregustarne la riproposizione; altri ancora sono trovate estemporanee, oppure riprendono scene lasciate in sospeso, i cui sviluppi si possono solo provare a indovinare.
A tutto ciò va aggiunto l’atteggiamento del nostro eroe, che mentre se ne va a zonzo unisce una passività, un’avventatezza e un’inconsapevolezza degne dei più memorabili ruoli di Peter Sellers o di Leslie Nielsen a un’imperturbabilità da fare invidia a stoici ed epicurei, inscalfibile anche nel corso delle vicende più spericolate e dagli effetti più disastrosi, generando così, per contrasto, ulteriori effetti comici. Così com’è comico sentirlo accolto dagli abitanti di Barnsworth con la frase che dà il titolo al gioco, come se fosse l’eroe di cui narrano le leggende e non un tipo qualsiasi mai visto prima—un refrain il cui riferimento satirico è chiaramente la power fantasy per eccellenza; ma Thank Goodness You’re Here! non è solo incredibilmente divertente, o molto più complesso di quanto sembri. È un gioco che riconcilia con il medium videoludico, ricordandoci con quanta facilità possa consentirci di fare esperienze uniche; e, nel suo piccolo, insegnandoci a desiderare proprio questo. A tre mesi dalla fine del 2024, per me è questo il videogioco dell’anno.