I rintocchi delle campane per secoli, ogni giorno, hanno segnato il trascorrere delle ore; gli schermi di computer e smartphone ci tengono aggiornati su ogni minuto che passa; la lancetta più sottile del mio orologio da polso fa uno scatto al secondo. La misurazione del tempo è onnipresente nelle nostre vite: se ci viene chiesto che ore sono probabilmente sappiamo rispondere, ma se ci viene chiesto che cosa sia il tempo è altrettanto probabile che ci troveremmo in difficoltà. Saremmo persino incerti sul genere di risposta da dare, e su quale tipo di pensiero potrebbe metterci sulla buona strada: filosofia o fisica teoretica? Ma non è parecchio strano misurare qualcosa che non sappiamo nemmeno bene cosa sia?
Potremmo provare a risolvere la questione con una battuta: “time is what keeps everything from happening at once”, il tempo è ciò che fa in modo che le cose non accadano tutte in una volta sola, dice un personaggio chiamato Big Business Man nel romanzo The Girl in the Golden Atom di Ray Cummings. Ma è proprio intorno all’idea di simultaneità che iniziano i problemi più seri: con la teoria della relatività viene meno infatti l’idea di un tempo universale, gli orologi iniziano ad andare per conto loro, il tempo rallenta man mano che aumenta la velocità e di fronte a due eventi due osservatori diversi potrebbero non trovare mai un accordo su quale sia accaduto prima dell’altro. Einstein ne trasse la logica conclusione in una famosa lettera, scrivendo: “per quelli di noi che credono nella fisica, la distinzione fra passato, presente e futuro è solo una ostinata persistente illusione”.
Con ogni evidenza però le cose accadono, e lo fanno in un certo ordine, sia nell’universo che nelle nostre vite. L’universo potrebbe allora essere un blocco che comprende passato, presente e futuro: è la teoria del block universe, a cui si collega la corrente di pensiero nota come eternalismo. Il presente in cui viviamo andrebbe dunque pensato come una bolla locale. Scrive a questo proposito Carlo Rovelli:
Quanto è estesa questa bolla? Dipende dalla precisione con cui determiniamo il tempo. Se è di nanosecondi, il presente è definito solo per pochi metri, se è di millisecondi, il presente è definito per chilometri. Noi umani distinguiamo a malapena i decimi di secondo, e possiamo tranquillamente considerare l’intero pianeta Terra come un’unica bolla, dove parliamo del presente come di un istante comune a tutti noi. Non più in là.
C’è poi sempre la possibilità che la linea temporale di cui facciamo quotidiana esperienza sia invece una rappresentazione della nostra coscienza, come piacerebbe a Schopenhauer e, in fondo, pure a Heidegger, considerata la stretta relazione in cui metteva la temporalità e l’esserci; inoltre le stesse teorie con cui cerchiamo di spiegare che cosa sia davvero il tempo potrebbero essere limitate dal modo in cui funziona il nostro cervello.
Si tratta di un tranello da non sottovalutare: è impensabile immaginare di non essere condizionati dal fatto che parliamo, scriviamo e pensiamo usando i tempi verbali del presente, del passato e del futuro, e, come sosteneva Wittgenstein, “i limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo”. Per fortuna il linguaggio verbale non è l’unico mezzo di cui disponiamo per comunicare e, ad esempio, Umberto Boccioni con Dinamismo di un ciclista, Salvator Dalì con La persistència de la memòria, ma anche Chris Marker con La jetée hanno usato le arti visive per trasmetterci alcune intuizioni sul tempo che sarebbe stato difficile esprimere altrimenti; è senz’altro di grande aiuto aver modo di carpire determinati concetti visualizzandoli, ma è possibile, credo, fare un passo ulteriore.
Qualcuno ha notato che i videogiochi offrono un’esperienza totalmente heideggeriana: essere gettati in un mondo e fare uso di strumenti è pane quotidiano di qualsiasi giocatore; ed era ancora Wittgenstein ad affermare che “la filosofia è non una dottrina, ma un’attività”. I videogiochi permettono non solo di visualizzare un’idea, ma anche di sperimentare e interagire con i suoi presupposti e le sue conseguenze. Non penso di esagerare proponendo dunque il mezzo videoludico, e qui, nello specifico, un titolo molto particolare come The Gardens Between, quale mezzo privilegiato per riflettere sulla natura del tempo.
Se pensiamo alla storia, The Gardens Between è un videogioco sull’amicizia: i vari puzzle che andremo a risolvere sono anche la ricostruzione degli anni passati insieme dai due protagonisti, Arina e Frendt, tra pomeriggi scuri consumati di fronte a una console e giornate di sole trascorse a costruire una casa sull’albero, e tante altre situazioni di questo genere. Se guardiamo la grafica, The Gardens Between diventa già qualcosa di diverso: un videogioco sulla memoria. Ogni puzzle è ambientato su un’isola irreale nella quale i due personaggi camminano tra oggetti sproporzionati, incastonati nella natura, come televisori, videoregistratori, stampanti, divani o telecomandi: tutti elementi che rimandano alle loro esperienze condivise. A questo punto il gioco ricorda altri paesaggi impossibili, ispirati al surrealismo, visti in titoli come Back To Bed o The Bridge. Ma c’è molto di più.
Solo quando andiamo ad analizzare il gameplay scopriamo che The Gardens Between è soprattutto un gioco sul tempo. Di certo non mancano i giochi in cui il tempo ha un ruolo centrale nel gameplay, basti pensare a quel capolavoro che è Braid; ma sono sempre titoli in cui il giocatore controlla il personaggio e contestualmente ha accesso a qualche meccanica di gioco che consente di manipolare il tempo. The Gardens Between ha un approccio più radicale, perché il giocatore non controlla i personaggi, ma il tempo stesso: all’inizio di ogni livello, il tempo è fermo; inizia a scorrere solamente su input del giocatore, e continua a farlo finché si tiene premuto il pulsante che consente di andare avanti o indietro; dopodiché è nuovamente fermo.
Cinque anni fa all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino un esperimento ha mostrato come il tempo potrebbe essere un fenomeno emergente: viene in essere nel momento in cui c’è un osservatore interno al sistema di riferimento, altrimenti, agli occhi di un osservatore esterno, è assente. Probabilmente una partita a The Garderns Between è il modo migliore per fare esperienza di una simile idea di tempo emergente: il giocatore può essere un osservatore esterno oppure interagire con il gioco, mettendo a quel punto in moto il tempo.
C’è un altro aspetto interessante da considerare. Arina e Frendt sbarcano su ogni isola su una barchetta di legno. Per risolvere i vari puzzle dobbiamo mandare i nostri personaggi a spasso nel tempo, lungo un percorso che attraversa l’isola e si conclude con un altare sul quale va depositato un globo luminoso che Arina può trasportare in una specie di lanterna. Come suggerisce The Verge, la lunga sequenza di operazioni che facciamo fare ai due personaggi non corrisponde all’esperienza che Arina e Frendt racconterebbero di aver vissuto: anche se il giocatore si affanna a risolvere il livello andando avanti e indietro nel tempo innumerevoli volte, i due personaggi saranno sicuri di aver seguito un percorso lineare dalla barchetta all’altare, senza incontrare ostacoli.
Se vogliamo provare a capire in che modo, da quella strana cosa che è il tempo secondo la teoria della relatività, noi ricaviamo l’impressione di un unico continuum temporale, è sufficiente allora pensare all’esperienza di Arina e Frendt. Non solo: dal momento che in ogni livello di gioco abbiamo sempre accesso a molteplici istanti della camminata dei due personaggi, se vogliamo un suggerimento su cosa sia un universo blocco, in cui il passato non ha mai smesso di esistere e il futuro non deve ancora iniziare a farlo, ma passato presente e futuro sono ugualmente reali, in fondo basta dare un’occhiata a una delle isole di The Gardens Between.