Ogni tanto capita che un amico mi chieda come, e con quale serie di passi, io abbia ripreso a consumare videogiochi. Non lo ricordo più: forse la verità è che non ho mai smesso. Scrivo queste stesse righe un po’ sofferte nei giorni in cui vari impegni legati all’insopportabile vita quotidiana mi tengono lontano da The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom. Non vedo l’ora di farvi ritorno.
Sono giorni in cui mi manca muovermi per Hyrule nei panni dello spadaccino Link, saltare giù da un pendio, infilarmi in una grotta senza sapere fin dove si estende o quali segreti nasconde, godendo della discrepanza tra la delicata rappresentazione dei personaggi e la povertà delle texture dell’ambiente circostante. Ma a mancarmi sono anche cose più semplici, legate a precise sensazioni fisiche: ascoltare il rumore dei passi di Link tra l’erba o il vento che ne sferza il corpo in caduta libera da un’isola nel cielo.
Ho giocato The Legend of Zelda: Breath of the Wild e il suo seguito Tears of the Kingdom uno dopo l’altro, per un totale di oltre 400 ore. Percepisco questi due titoli come un’unica esperienza, un’unica lunga avventura, per cui riformulerei la frase precedente in questo modo: ho passato a Hyrule gli ultimi dieci mesi della mia vita, in un periodo in cui la mia vita era meno sopportabile del solito. Ma non farò autobiografia: i motivi per cui in questi mesi la mia vita è stata meno sopportabile eccetera non sono interessanti, e anche se lo fossero la questione avrebbe poco a che vedere con quel che intendo dire. Ciò che conta è che in tutto questo tempo la mia biografia è diventata quella di Link e di Zelda, è diventata Hyrule, le sue vicende, le sue maledizioni e la sua inevitabile pacificazione.
Se d’altra parte questi due giochi fossero solo dei capolavori o degli ottimi giochi come da più parti è stato affermato, non mi esprimerei in questi termini. Questi due Zelda non sarebbero diventati la mia vita. Non mi avrebbero acciuffato e rapito nel modo in cui lo hanno fatto, sciogliendomi dall’ombroso ingombro della coscienza. Se mi fossi divertito e basta, se avessi soltanto trovato ristoro accendendo la Switch ogni pomeriggio e ogni sera e ogni volta che ho potuto… Non scriverei quanto sto scrivendo.
No, mi sono perso a Hyrule e con tutta probabilità continuerò a farlo anche dopo aver finito TOTK proprio perché ho conosciuto momenti di calo, perplessità e delusione affrontando questi giochi. Perché ho dovuto misurarmi con Hyrule e le sue regole fisiche, chimiche e computazionali per capire cosa mi attirava e risucchiava davvero da quelle parti. Ho dovuto prenderci le misure, riconoscere alcune dinamiche di gameplay come alienanti, frustranti, ridondanti e arrendermi infine al fatto che era molto meglio annullarmi vivendo da quelle parti, che affrontare la vita reale senza il conforto di quelle lunghe ore spese altrove.
Mi interessa peraltro poco il confronto tra i due giochi, specialità in cui invece molti recensori si sono inutilmente esibiti all’uscita di TOTK. È semplice: al suo meglio, Tears fa sembrare Breath una beta, un bozzetto preparatorio per il secondo capitolo, mentre nei frangenti meno riusciti lascia rimpiangere la sua rarefazione, i lunghi minuti di vuoto in cui sei solo tu e la terra di Hyrule da esplorare senza troppe distrazioni. Ma anche rispetto all’esplorazione ho avuto qualche difficoltà, almeno finché un film che nulla c’entra con Zelda non mi ha aperto gli occhi.
Ho avuto questo brutto momento con BOTW quando, una volta finito, non sapevo bene cosa fare. Certo, c’erano ancora una miriade di cose da scoprire, storie secondarie da approfondire e collezionabili da scovare, ma completismo e collezionismo videoludico sono due aspetti che mi turbano: per quanto mi senta attratto dall’idea di consumare un videogioco fino a stremarlo e a stremarmi, mi sembra comunque un esercizio, come definirlo?, di puro e razionale sfruttamento capitalistico. Dell’ambiente di gioco, ma anche del mio tempo di individuo già alienato nella produzione—non tollero l’idea di esserlo anche nel tempo libero.
Mi sono quindi imposto una piccola pausa. Per qualche giorno non ho fatto altro che leggere e guardare film, anche se non smettevo un solo minuto di pensare a Hyrule. Era un mezzogiorno afoso di fine estate quando mi sono deciso a guardare Nomad, il film di Werner Herzog sul suo amico e scrittore Bruce Chatwin: il documentario di un grandissimo esploratore sulla vita di un esploratore altrettanto gigantesco, in altri termini un film che celebra la scoperta, il mistero e il paesaggio per quanto crudo, violento e inospitale possa dimostrarsi.
Dopo aver guardato Nomad mi sono chiesto cosa potessi fare per emulare le gesta di due grandi camminatori come Herzog e Chatwin, e la risposta è stata: niente, dato che conduco una vita abbastanza ordinaria e non sono un tipo da grandi gite fuori porta. Però potevo sempre tornare a Hyrule con lo stesso spirito dei miei beniamini: al diavolo secondarie e collezionabili, Lynel e semi Korogu, stavolta mi sarei lasciato guidare dal caso e dal piacere della pura scoperta nell’esplorazione sotto la pioggia, il sole e qualsiasi altro evento atmosferico.
E così ho fatto finché non sono passato a Tears. Per inciso, avevo in mente da tempo di dedicarmi a questi due Zelda come avrei potuto fare con, non so, la Recherche di Proust, mettendo quindi in conto mesi e mesi consecutivi di gioco. Ma se sono passato a Tears senza prendermi nemmeno un giorno di pausa è perché in fondo non riuscivo a staccarmi da Breath of the Wild, a lasciare Hyrule nemmeno per un intermezzo con Super Mario Bros. Wonder o l’ancora più breve Cocoon.
Il primo impatto con TOTK non è stato facile, proprio perché presenta da subito una densità e un ritmo assai differenti da quelli di BOTW. Eppure anche qui, da un certo punto in poi, il piacere è consistito soprattutto nella scoperta e nella libera esplorazione di Hyrule, nella sensazione fisica di essere lì e non più in quella dimensione sensoriale che ci ostiniamo a chiamare realtà.
Col passare delle settimane e dei mesi, insomma, mi sentivo completamente annullato dalle ore trascorse a Hyrule, preso a metà in un’attività tanto archeologica quanto topografica: giocando senza minimappa a schermo, ero costretto a confrontare di continuo, palmo a palmo, il punto in cui mi trovavo con la sua controparte stilizzata sulla cartina all’interno della tavoletta Sheikah (praticamente una Switch). Non vedevo l’ora di volare in cielo, tra le isole sospese, e poi di scivolare giù, sul dorso di un drago, verso le profondità contagiate dal miasma, a estrarre zonanio come uno zelante minatore ai limiti della monomania—nemmeno fosse il mio vero lavoro. Quando mi stancavo tornavo in superficie a esplorare grotte, laghi, sabbie, ghiacciai e verdi foreste popolate da alberi viventi con mele dorate in cima ai rami più alti.
Neppure per un istante mi sono illuso che questi giochi potessero rappresentare una celebrazione della bellezza della natura: è evidente che si tratta semmai di un inno, in questo senso molto herzoghiano, appunto all’esplorazione e alla scoperta. Al più, una tonante interrogazione rispetto alla conquista e al controllo della natura attraverso la tecnica (se vogliamo il tema principale delle trame, non troppo rilevanti, di entrambi i giochi). Com’è e come non è, ho passato infiniti pomeriggi a guardare con la coda dell’occhio la luce del sole crepuscolare fino a estinguersi sul muro bianco oltre lo schermo del monitor, o di lato al divano su cui giocavo con la Switch in modalità portatile e il cane accucciato accanto, mentre fuori dalla finestra di questa casa sempre più spoglia si affacciava una timida luna, talvolta coperta da grappoli zuccherosi di nuvole passeggere.
Per definire con più precisione l’effetto che mi hanno fatto questi dieci mesi a Hyrule devo tornare agli istanti in cui, a tarda notte, mi convincevo che era infine giunta l’ora di spegnere la console e andare a dormire. Cosa provavo? Oltre lo stordimento, una grande sensazione di vuoto. Una grave mancanza di senso alla bocca dello stomaco. Mi ero sentito così pieno, eccitato e motivato nella ricerca dei sacrari, nello scioglimento dei loro enigmi e nel perdermi tra montagne e spiagge e rovine di castelli dimenticati, e adesso ecco il vuoto, la mancanza di motivazione di chi deve fare i conti con le solite cose: un buon sonnellino, il risveglio, il caffè, l’unica sigaretta della giornata e poi daccapo la vita di sempre. Non c’era, non c’è paragone. Non può esserci.
Sono fortemente convinto che dovremmo essere più onesti nel raccontare i videogiochi. Non dovremmo fingere che siano innocui solo per compensare il modo terribile e pieno di pregiudizi con cui se ne parla in giro. Sì, è vero, i videogiochi non sono solo sangue, armi, esplosioni: possono insegnare molto, essere strumenti di conoscenza e educazione. Possono raccontare storie avvincenti e farci capire un sacco di cose sugli altri come qualsiasi altro strumento ludico e narrativo. Ma sono anche esperienze totalizzanti, mondi che risucchiano e annullano ogni altro intento. Sono intensamente violenti nel richiedere per intero la nostra attenzione e dedizione, nell’assorbire tutti i nostri sensi in un’esperienza avvolgente con cui poco altro può competere, fino ad annichilire, a volte per qualche ora, altre più a lungo, l’intero senso della nostra esistenza. I due episodi di Zelda di cui ho parlato rappresentano il meglio e il peggio che i videogiochi possono offrire, ovvero rendere tollerabile la vita fuori dallo schermo e allo stesso tempo insopportabile l’idea che ce ne sia una cui dover fare ritorno quando si spegne la console. Ma, come un eloquente balsamo di pace, li adoriamo proprio per questo. Non vorrei mai che fossero meno di questo.