Il lungo tutorial di Breath of the Wild, ambientato nell’Altopiano delle Origini, rende esplicite alcune traiettorie narrative che già facevano la loro comparsa nel trailer pubblicato lo stesso anno da Nintendo1. Se nel trailer vedevamo una terra desolata, costellata di rovine e tracce di una guerra persa, un Link in sella al suo destriero che attraversava sterminati spazi in completa solitudine, e una principessa Zelda disperarsi per la vanità dei suoi sforzi, le prime ore di gioco chiariscono definitivamente che Breath of the Wild è un videogioco nostalgico, che ruota tutto attorno a un passato perduto.
Link si risveglia in un luogo di cui ha perso la memoria, accompagnato solo dalla voce distante della principessa. Incontra poi un personaggio che si svela essere il fantasma del defunto re di Hyrule, nonché padre di Zelda, che gli racconta che il suo regno è andato distrutto un secolo fa a causa della Calamità Ganon, la cui forza è adesso tenuta a bada dalla figlia. Con il potere di quest’ultima che si affievolisce, la Calamità sta per liberarsi e finire il lavoro interrotto da cento anni. Nessuno di questi personaggi appartiene al tempo presente: vengono tutti dal passato. Link si è risvegliato senza memoria dopo un sonno lungo un secolo; Zelda è rimasta imprigionata per lo stesso arco di tempo, per bloccare Ganon, in attesa che l’eroe facesse il suo ritorno; il re di Hyrule è stato ucciso dalla Calamità e infesta l’Altopiano delle Origini per guidare il protagonista; la Calamità, infine, è un’entità il cui avvento è stato profetizzato da tempo immemore e che sta finalmente per completare ciò che ha iniziato (Ford, 2021).
Volendo seguire lo schema narratologico di Vladimir Propp (2000), diremmo che non c’è attante che in questo racconto non sia un fantasma: protagonista (Link), principessa (Zelda), mandante o padre di lei (il re defunto), e antagonista (Ganon) vengono tutti da (almeno) un secolo nel passato. Più avanti, scopriamo che anche gran parte degli avversari che affrontiamo durante la partita viene dal passato, addirittura da un’era antecedente al risveglio di Ganon (tanto i mostri evocati dalla Calamità quanto i Guardiani, costruiti dal popolo Sheikah per resistere al suo avvento in un remoto passato). I nostri aiutanti non sono da meno: l’avventura di Link ruota attorno all’acquisizione dei poteri dei suoi compagni caduti, i quattro Campioni, che incontra sotto forma di spiriti e ricordi. Anche l’oggetto del desiderio che guida la narrazione, la Spada Suprema, è un artefatto proveniente da un’epoca remotissima. Lo spazio di gioco è altrettanto fantasmatico: il mondo aperto è costellato di rovine di avamposti e campi di battaglia; i dungeon sono degli antichi templi Sheikah che ancora custodiscono il loro potere, oppure i Colossi, enormi fortezze semoventi che il popolo di Hyrule ha dissepolto seguendo antiche profezie. Perfino le tecnologie che usiamo sono vecchie di millenni, come le torri di osservazione o la tavoletta Sheikah.
Reliquie e fantasmi, dunque, infestano tanto lo spazio di gioco quanto il suo mondo narrativo. Sono ovunque: quella di Breath of the Wild è una hauntologia. Con questo neologismo, il filosofo Jacques Derrida (1994) definisce una contemporaneità temporalmente disgiunta, in cui ogni cosa presente rinvia a qualcosa di assente2: una realtà di spettri, presenti e assenti al contempo. Il concetto, più volte ripreso dopo Derrida per descrivere varie forme di arte postmoderna da critici come Mark Fisher (2019), Katy Shaw (2018) o Grafton Tanner (2016), è nel tempo diventato uno dei più influenti in ambito di teoria critica ed è usato, con una certa frequenza, anche nel campo dei games studies. È un perfetto filtro teorico per capire molte istanze della produzione culturale di oggi: dalla retro-mania alla modalità nostalgica, dalla sfiducia nel futuro all’ossessione per la ciclicità/ricorsività; e anche per capire The Legend of Zelda, per lo meno da Zelda II: The Adventure of Link in poi (Canavan, 2019), e nella fattispecie Breath of the Wild, che fa del passato e dei fantasmi un’ossessione e un perno attorno cui far vorticare l’interezza del suo mondo narrativo ed estetico.
Considerando questo e quanto Breath of the Wild si riveli straordinariamente utile per capire i concetti chiave dell’hauntologia, in questo capitolo si tenterà una doppia operazione: usare l’hauntologia per capire Breath of the Wild, e viceversa. Con un duplice obiettivo: fornire a chi si interessi di hauntologia un caso d’analisi che riassuma in sé numerosissime istanze dell’hauntologia videoludica; e al contempo fornire a chi si appassioni di Breath of the Wild un riferimento teorico e metodologico attraverso cui interpretare il gioco, che ne evidenzi i punti di contatto con la sensibilità contemporanea e con altri titoli della serie.
Memento non mori:
vivere tra le rovine (di Hyrule)
Torniamo all’inizio del gioco. Link esce dal Sacrario della Rinascita e si affaccia su Hyrule, contemplando il castello al centro del regno. Poi l’inquadratura si sposta verso destra e svela, ben più vicino a noi, il Santuario del Tempo. Siamo al mondo da poco3 e già i nostri primi passi sono scanditi da spazi in rovina: in lontananza, il castello appare immerso nella penombra e circondato dalla nebbia; alla nostra destra, il Santuario è un edificio diroccato e ricoperto di erbacce. I due spazi acquisiscono importanza ulteriore considerando il loro ruolo narrativo e ludico: scandiscono l’introduzione con una doppia chiamata all’avventura – la meta finale (il castello) e la prima tappa del nostro viaggio (davanti al Santuario del Tempo vediamo da subito il fantasma del re di Hyrule che ci invita a seguirlo). Similmente, le rovine che incontriamo più avanti hanno un ruolo centrale: in assenza di quest marker, l’esplorazione viene spesso indirizzata dalla presenza di questi ruderi4, utili anche in quanto custodi di tesori e semi Korogu (i collezionabili del gioco).
Come molti altri videogiochi, Breath of the Wild è pieno di rovine. Quale che sia il motivo della loro presenza sempre più pervasiva in ambito videoludico5, certo è che esse sono spazi più che interessanti da una prospettiva hauntologica. Anzitutto, com’è ovvio, rievocano un passato ormai perduto. A volte le rovine sono semplicemente abbandonate e divorate dalla vegetazione, altre volte vengono rifunzionalizzate con nuovi scopi (come molte di quelle che troviamo nei videogiochi post-apocalittici)6, ma in entrambi i casi sono tracce tangibili di un’assenza: quella della società che le ha costruite e, di riflesso, dello scopo e del valore che avevano prima di cadere in disuso. Guardarle, esplorarle, attivarle significa anzitutto interpretarle come simboli di vanitas, ovvero tracce del fatto che ogni civiltà è destinata a scomparire, come ogni essere al suo interno: il memento mori delle rovine. Significa però anche, e forse in prospettiva hauntologica soprattutto, accorgerci che ciò che scompare non lo fa mai del tutto, ma continua a infestarci nel presente: memento non mori. Le rovine “sopravvivono”, nel senso che Derrida dà al verbo: «sopravvivere vuol dire continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte» (Birnbaum, 2004, p. 31).
In secondo luogo, le rovine sono in sé stesse luoghi infestati, in cui presenza (il rudere, ora semidistrutto, ricoperto di vegetazione e costellato di tesori) e assenza (l’edificio intero, che immaginiamo o ricostruiamo, con le sue funzioni originarie) si intrecciano. È proprio la natura di questo intreccio a suggerire qualcosa di fondamentale su come percepiamo il passato oggi, anche fuori dal videogioco. Le rovine sono tracce di qualcosa che, molto spesso, non può essere compreso nella sua interezza. Come nota Marc Augé, «la storia è troppo ricca, troppo molteplice e troppo profonda per ridursi al segno di pietra che ne è emerso» (2004, p. 36): non possiamo ricostruire precisamente il passato in rovina, non possiamo ottenerne una conoscenza completa. È un passato in una certa dimensione a-storico, che affastella l’una sull’altra epoche anche molto distanti tra loro e rende futile ogni tentativo di interpretazione archeologica. Le rovine, non a caso, sono spesso incomprensibili—è anche il caso di quelle antistanti al Santuario del Tempo in Breath of the Wild: non ci è possibile capire a che cosa servissero, o chi le abitasse. Muovendoci tra di esse, si ha «l’impressione che la storia si sia ritirata, lasciando dietro di sé una nebulosa indifferente […] svuotata dai suoi referenti» (Baudrillard, 2009, p. 21). È in questo vuoto che si aggirano i fantasmi – un vuoto di storia e di senso, che nessuno sforzo di interpretazione o ricostruzione del passato può ricolmare del tutto. Come i fantasmi, le rovine rappresentano un problema per lo storicismo perché «disgregano il nostro senso di una teleologia lineare, in cui movimenti consecutivi nella storia passano intatti da generazione a generazione» (Buse e Scott, 1999, p. 14): sono tutt’altro che «oggetti di conoscenza» (Makarius, 2004, p. 7), come venivano percepite durante il Rinascimento; sono emergenze vistose di un passato non più conoscibile, anzi caotico, che torna nel presente ma non aiuta affatto la comprensione.
Come in Breath of the Wild ci aggiriamo in un mondo infestato di rovine, così nel nostro presente abitiamo spazi che rievocano qualcosa che non abbiamo vissuto. Al contempo, in questo scenario non possiamo affatto comprendere quanto accaduto, ma solo limitarci a osservare «un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai [nostri] piedi» (Benjamin, 1961, p. 80).
Oggetti infesta(n)ti:
dalla tavoletta Sheikah alla Spada Suprema
Appena dopo il suo risveglio, nei panni di Link ci appropriamo di una tavoletta Sheikah, lo strumento che useremo di più durante la partita. «Ti guiderà dopo il risveglio dal tuo lungo sonno», dice la voce di Zelda. È in effetti ben più di una guida: la usiamo come mappa, come segnalatore per i Sacrari ancora non esplorati e come chiave d’accesso per entrarvi, per attivare i Colossi e le Torri Sheikah, per guardarci attorno come un cannocchiale e scattare fotografie, come compendio in continua espansione del mondo di gioco (che tiene traccia di creature, pietanze e armi trovate), come strumento per risolvere enigmi e interagire col mondo, come termometro e orologio. Non è improprio dire che gran parte del nostro rapporto con Hyrule in Breath of the Wild è mediato dalla tavoletta Sheikah: essa indirizza l’esplorazione, è principale chiave d’accesso per numerosissimi spazi, rende possibile la totalità delle svolte narrative principali del gioco. È però anche una tecnologia del sé (Foucault, 1988) attraverso cui costruiamo (e ricostruiamo) la nostra soggettività virtuale e quella del protagonista: tiene traccia della nostra conoscenza del mondo di gioco, è la chiave senza cui non potremmo potenziare Link, addirittura raccoglie i suoi ricordi, fondamentali per sbloccare il vero finale della trama7.
È significativo che un dispositivo così importante, che media tanto il nostro rapporto col mondo di gioco quanto il nostro rapporto con noi stessi durante la partita e con il nostro avatar, venga da un passato ben più remoto dell’ultima venuta della Calamità Ganon. Come gran parte delle rovine che troviamo in giro, la tavoletta ha origini ben più lontane del disastro che ha devastato Hyrule e posto fine al regno del padre di Zelda: è una reliquia proveniente dal tempo della civiltà Sheikah. Nella serie, gli Sheikah sono un popolo umanoide eletto dalla dea Hylia «per proteggere la sua forma mortale reincarnata» (Thorpe, 2018a, p. 368), ossia la principessa Zelda. Prima di Breath of the Wild, gli Sheikah compaiono solo attraverso il personaggio di Impa, che ha spesso le fattezze di un’anziana e che è l’ultima sopravvissuta della stirpe. In Breath of the Wild, gli Sheikah sono invece presentati come una civiltà straordinariamente avanzata, che «agisce nei meandri oscuri della storia» (Thorpe, 2018a, p. 362). Perfino il padre di Zelda, come veniamo a sapere dal suo fantasma, ha cercato di fermare l’ascesa di Ganon utilizzando le tecnologie che questi hanno creato e lasciato sepolte.
Il tropo narrativo, e in questo caso anche ludico, della civiltà estremamente progredita di cui restano solo rovine e artefatti in grado di salvare il mondo o distruggerlo è molto comune nel fantasy. Spesso è legato a una generica mitizzazione e feticizzazione del passato, per esempio nel caso delle “armi dei padri” che nuove generazioni di eroi devono diventare in grado di impugnare e maneggiare (Caselli, 2020). Breath of the Wild propone un caso letterale di questa tendenza: buona parte del gioco ruota attorno all’acquisizione della resistenza necessaria per maneggiare la Spada Suprema, artefatto antichissimo in grado di sconfiggere la Calamità Ganon—dobbiamo diventare all’altezza dell’eredità che ci è stata lasciata. Affascinante che, come svela la stessa Zelda, sia stata la voce della Spada Suprema a suggerirle di far addormentare Link per cento anni, salvando così (cento anni dopo) Hyrule: la Spada Suprema non incarna soltanto il tropo dell’artefatto/eredità lasciato dal passato per permettere al presente di riscattarsi, ma anche quello della predestinazione dell’eroe. Spada ed eroe si scambiano quasi di ruolo: è l’eroe a essere lo strumento della profezia che la spada si porta dentro, o una pedina nel gioco del destino che essa conosce e scruta. Attraverso la spada, l’eroe viene infestato dal passato e diventa una sua marionetta: un quadro perfetto per un approccio hauntologico.
La tavoletta Sheikah esercita una funzione più pervasiva. Riconoscendo il ruolo totalizzante che gioca durante la partita, ci rendiamo conto che Breath of the Wild racconta di un mondo che si dischiude a noi solo attraverso il passato, da un punto di vista sia fenomenologico (attraverso di essa abitiamo Hyrule) che esistenziale (attraverso di essa costruiamo e ricostruiamo la nostra identità presente e il nostro passato in gioco). Non è la prima volta che il passato infesta così evidentemente lo sviluppo narrativo e ludico di un The Legend of Zelda attraverso un oggetto (l’ocarina magica di Ocarina of Time, per esempio, consentiva di viaggiare nel tempo ed era alla base di tutto il suo intreccio narrativo), ma è senza dubbio il caso che più racconta di un presente infestato, che possiamo conoscere solo lasciandoci infestare da ciò che non c’è più.
Note
- https://www.youtube.com/watch?v=zw47_q9wbBE. ↩︎
- Hauntologia è un neologismo che mescola hanté (in francese “fantasma”, “ossessione”) e ontologie (in francese “ontologia”) facilmente trasportabile anche in inglese (in cui to haunt significa “infestare”) e in italiano (in cui le pronunce di “hauntologia” e “ontologia” sono simili). Come suggerisce la commistione tra infestazione fantasmatica e ontologia, il termine ha proprio l’obbiettivo di interpretare tutta la realtà storica, culturale, sociale, addirittura fenomenica, come infestata dal passato. ↩︎
- Il risveglio di Link è una classica “nascita” videoludica, associata al tropo del protagonista amnesico (Caselli, 2019). ↩︎
- Stratagemma impiegato in diversi altri videogiochi (Caselli, Toniolo, 2022). ↩︎
- Interrogandosi sul motivo della proliferazione di rovine in ambito videoludico, Mathias Fuchs (2017) ipotizza una convergenza di vari fattori, tra cui alcuni artistici (il riferimento a temi, narrazioni ed estetiche derivanti dal Romanticismo) e psicanalitici (il modello della “pulsione di morte”, che rimanda alla fascinazione per il decadimento). ↩︎
- Sul valore sovversivo delle rovine, si veda Watts (2011). ↩︎
- Lo spazio del gioco è anch’esso “infestato” da questi ricordi, che non si vedono nel presente di Hyrule ma che spesso indirizzano la nostra esplorazione dello stesso (Ford, 2021). ↩︎