Ho questa strana convinzione che la scrittura possa salvarmi dalle difficoltà della vita per una ragione molto bassa e vigliacca: posso commettere gli errori più stupidi e banali e nessuno viene a saperlo, perché ho tutto il tempo per verificare e correggere. Posso farlo anche se c’è una scadenza molto vicina, perché comunque nessuno controlla il mio digitare nel momento in cui digito. Nessuno. Poi ho giocato a The Textorcist – The Story of Ray Bibbia e i muri che mi proteggevano sono crollati, il panico è penetrato nella mia fragile intimità di scrittore, o meglio, di digitatore di parole, perché alla fine tutto parte da lì.
Apro il gioco e un tuono precisa subito che l’atmosfera sarà fredda e cupa. Sullo sfondo del menù c’è Roma, glaciale e squarciata dai lampi. Capisco che è un videogioco perché si vedono le stelle, cosa che nella realtà non accade, ma anche perché la grafica ricalca i videogame anni ’80-‘90, soprattutto Castlevania. Per iniziare devo digitare la parola S T A R T, una lettera dopo l’altra, e già in quel momento mi sembra che la mia solita e innocua tastiera si sia trasformata in qualcosa di diverso.
Come nei titoli di apertura de La zona morta di Cronenberg una parola a caratteri cubitali si avvicina allargandosi verso lo schermo mentre la synth wave death-infernale di GosT comincia a martellare lo schermo. La parola è MANDRIONE, una zona di Roma, che in quel momento diventa un teatro pulp metropolitano in quello che sembra un futuro imprecisato o forse già domani.
Sono in strada e controllo Ray Bibbia, un esorcista calvo e duro, ma non come Bruce Willis, più come Maurizio Costanzo, nei momenti in cui però è veramente incazzato. Quando incontro il primo avversario capisco il gioco, nel senso che ne capisco il nucleo, il punto centrale. L’arma di Ray Bibbia è una bibbia (!) e per farla funzionare bisogna digitare gli esorcismi e tutte le preghiere necessarie che ti passa il computer mentre un mostro demoniaco o un criminale pazzo esplode colpi incandescenti in ogni direzione. Digitare delle parole (in inglese e poi in latino quando i livelli si fanno difficili) diventa una questione di sopravvivenza e non c’è tempo di pensarci su, devi scrivere bene e in fretta quella maledetta parola sennò sei morto.
Contemporaneamente bisogna schivare i colpi avversari e il tutto occupa le vostre attenzioni in un turbine di adrenalina e di clic. È divertente. Oltre i combattimenti c’è una trama dal sapore del thriller esoterico, dei dialoghi che fanno ridere, delle ambientazioni sorprendenti e un’atmosfera cyberpunk anni ‘90 e noir, ma io ho giocato solo ad una breve anteprima del gioco che promette un’avventura ancora più profonda e palpitante.
Per conoscere meglio The Textorcist e le contingenze che lo hanno creato ho parlato con Matteo Corradini che lo ha scritto e che mi ha raccontato tutto dal principio.
Come sei arrivato a scrivere un videogioco?
Nel 2015 sono andato al Game Over di Milano, che è un festival underground—non underground zozzo ma underground carino—e ho conosciuto i ragazzi di Yonder. Loro avevano fatto Red Rope e Circle of Sumo, che è uscito recentemente, e gli ho chiesto se conoscevano qualcuno che potesse essere interessato ad avere una storia scritta da me. Ovviamente non sono Umberto Eco ma sono ben intenzionato a cimentarmi nella scrittura di un videogame. In quel momento loro non ne avevano bisogno ma dopo qualche mese mi hanno messo in contatto con Diego Sacchetti, lo sviluppatore e programmatore di The Textorcist.
Il gioco quando è nato?
Qualche mese prima Diego aveva vinto il Global Game Jam di Roma che è un evento in cui ti danno 48 ore, una parola-tema e tu devi creare una build giocabile di un videogame. Andò bene e fu vinta da Ray Bibbia che era il nome che aveva precedentemente The Textorcist. Diego pensava di lavorare su quell’idea per farne un gioco vero e quindi da marzo 2017 abbiamo cominciato a lavorare sul gameplay e sulla trama, rifacendolo da capo.
Come avete trovato Headup, il vostro publisher tedesco?
Ad agosto 2018 siamo andati con il nostro bel computerino al Gamescon di Colonia per farci notare e lì abbiamo conosciuto Headup. Loro avevano fatto vari lavori molto interessanti che erano andati bene come Bridge Constructor Portal e Trüberbrook che è un punta e clicca in stop motion.
Cosa ha significato per voi entrare nel loro team?
È stata la svolta che cercavamo e inoltre ci ha permesso di entrare in un ambiente positivo in cui lavorare, dove siamo tenuti in considerazione al pari degli altri progetti su cui hanno scommesso. Da quel momento abbiamo continuato a sviluppare il gioco e continueremo fino alla sua uscita nel primo trimestre del 2019.
Come ti sei trovato con Diego Sacchetti, condividete lo stesso modo di pensare i videogiochi?
Abbiamo un umorismo molto simile, questo ci ha aiutato molto, però lui è molto più impostato di me a livello produttivo e lavorativo. Ci approcciamo in modo diverso al lavoro però alla fine ci piace reciprocamente quello che facciamo. Diego è bravissimo come designer e come programmatore, è competente e ha delle idee molto fiche.
Come è cambiato il gioco da quando era solo una build creata in 48 ore ad oggi?
È cambiato molto, soprattutto perché prima non c’era una trama. Anche il gameplay è stato ampliato. Per esempio per i combattimenti ci siamo inventati un sistema di range. Prima se ti allontanavi molto dai boss diventava troppo facile schivare i colpi, ora oltre un tot non puoi scrivere gli esorcismi. Quindi abbiamo lavorato anche molto su questi aspetti. Ci siamo anche inventati delle mosse dei nemici che quando vanno a segno ti impediscono di leggere dal libro. Come il vomito che ti spara la ragazza posseduta che trovi al primo livello.
Come ti sei approcciato alla creazione narrativa del gioco?
Anni fa lessi un fumetto molto bello che si chiama “Basso Impero”, di Leonardo Maltese e Gabriele De Fraia. Alla base c’era l’idea che nel futuro l’unica forza in grado di governare Roma sarebbe stata la Chiesa. Quella intuizione mi piaceva e l’ho usata come spunto per articolare una mia storia e costruire un mondo, un’ambientazione. Non volevo un gioco artsy, tipo Journey, Flower o Limbo per capirci; giochi bellissimi che però comunicano attraverso immagini, suoni, sensazioni. A me piace vedere il testo nei videogame, quando gioco a Monkey Island rido, volevo che The Textorcist fosse molto scritto.
C’era l’intenzione di portare l’immaginario romano in una narrazione pulp, di genere?
In realtà dell’immaginario romano c’è molto poco al di là dei nomi delle vie e dei luoghi. Mi piacerebbe che un americano o uno che non ha mai visto Roma possa giocarci ritrovandosi in questa ambientazione ribelle, noir. Per farti un esempio Ubisoft ha pensato di ambientare Assassin’s Creed 2 a Monteriggioni. Perché Monteriggioni? Che è Monteriggioni? Perché ha pensato di ambientarlo lì? Monteriggioni è tipo Frosinone, vabbè è più bella di Frosinone, però ci siamo capiti. Hanno pensato che al pubblico poteva interessare l’italianità. Secondo me il folklore italiano fa ridere, l’Italia è comica, poi lo sanno benissimo tutti che in questo periodo stiamo facendo schifo. Io ci scherzo sopra, faccio un po’ di autoironia, ci ho messo le macchine coi mattoni al posto delle ruote e i nightclub anni ‘70 (a Roma neanche esistono locali così) provando a fare un mischione e creando una città immaginaria, una metropoli pulp. Quindi per rispondere alla tua domanda: non è strettamente una questione di romanità, non è un gioco fatto per far dire alla gente: “che tajo questo livello è ambientato su Via Appia do’ abito io”.
Per creare il gameplay da cosa avete preso ispirazione? Com’è lavorare con il typing, una modalità di gioco così particolare?
È un genere veramente difficile da interpretare perché ti lega le mani, è veramente privativo. Il fatto è che questa idea per noi funzionava molto quindi abbiamo detto ok proviamo a imbarcarci in questa avventura. Però le interazioni principali del gioco sono da shooter, sono da bullet hell. Io ho giocato a parecchi videogame del genere, anche recenti come Enter the Gungeon. Per i pattern di proiettili Diego si è ispirato proprio agli shooter a scorrimento verticale anni ‘90. In Giappone è un genere di culto; c’è questo Touhou in cui delle streghette cavalcano delle scope e durante tutto il gioco si sparano dei proiettili che alla fine coprono l’intero schermo. Certamente anche la scrittura occupa un posto importante nel gioco. Di solito ci associano a The Typing of the Dead ma io non ci ho mai giocato, ho visto solo dei video per curiosità. Comunque la scrittura in questo gioco non vuole comunicare nulla, è solo un mezzo. Ha a che fare con il gameplay, non con la narrazione, questa per me è una cosa molto importante. Sono già visti i giochi in cui tramite il typing devi scrivere la tua storia, qua tramite il typing devi spara’ ai mostri.
Uscirà anche per console? Come si farà a scrivere?
Ci sono tutte le intenzioni di portarlo anche su console. Abbiamo ideato un sistema per il joypad per cui attraverso L1 e R1 puoi selezionare la lettera giusta tra due che ti propone il gioco. È un po’ più facile, ma mentre con la tastiera puoi vedere la frase completa in questo caso vedi solo la parola che stai digitando.
Quali sono i giochi che invece ti hanno ispirato personalmente? Quelli che ti hanno messo in testa di provare a fare questo lavoro?
A me a livello di narrazione mi ha fatto impazzire Portal 2, perché sposa un gameplay fichissimo, completamente indipendente dalla storia o comunque solo parzialmente dipendente da essa. Il giusto rapporto tra questi due fattori è quello che mi piacerebbe raggiungere nel mio gioco. Il gameplay viene per primo e la narrazione si adatta e lo arricchisce, mai il contrario. Solo pochi giochi puramente narrativi possono farlo, tipo What Remains of Edith Finch che ha vinto il BAFTA come miglior gioco nel 2017 ed è esattamente un caso in cui il gameplay si adatta alla narrazione, ma è un capolavoro, quindi o fai quello o è difficile che funzioni.
Questo è il tuo primo lavoro nel mondo dei videogiochi, come ti sembra la situazione in Italia? Allo stesso tempo il vostro publisher è tedesco, che differenze hai notato con l’estero?
Guarda, le persone che lo fanno come primo lavoro io le stimo tantissimo perché è veramente difficile. Forse gli altri paesi mettono a disposizione più soldi, forse all’estero sono disposti a scommettere di più sulla creazione di videogiochi indipendenti, questo sì. Ma credo che sia difficile ovunque progettare un bel gioco, che tu sia in Italia o in qualsiasi altro luogo del mondo. Io sono convinto che se tiri fuori un’idea valida che ha le carte in regola allora esci. Il primo esempio che mi viene è Davide Soliani di Ubisoft Milano con Mario + Rabbids Kingdom Battle, con cui Shigeru Miyamoto si è congratulato personalmente nobilitando enormemente un lavoro italiano.
In The Textorcist la musica accompagna in modo continuo l’avventura e orienta il mood e le atmosfere, perché avete scelto il sound di GosT?
Per noi era importante avere un sottofondo incalzante durante gli scontri, quindi la scelta del genere è dipesa molto dalla funzionalità del gameplay. La nostra idea era che ogni boss dovesse avere una traccia diversa e la synth wave funzionava molto, è un genere che trasmette enorme energia.
Gli avete dato qualche riferimento già esistente per scrivere l’OST?
Ci piaceva l’idea di creare un’atmosfera quasi da rave, da techno festival. Poi ci sono anche vari pezzi ambientali bellissimi, fatti solo con i synth che mi fanno ripensare a quando giocavo a Hotline Miami.
Me la immagino su Spotify per dire, da ascoltare al di là del gioco.
Sapevo di una trattativa tra il Dj e il nostro publisher per un vinile, adesso non ti so dire altro.
Per concludere ti auguro di continuare a lavorare con i videogame e ti chiedo: quale sarebbe il gioco che vorresti creare, quello definitivo?
Per fare un videogioco geniale devi avere un’idea geniale e io in questo momento non ce l’ho, però ti posso dire che sto già lavorando su un gioco che reputo geniale e non lo dico per elogiare me ma l’idea di gameplay di Diego. Se non ci avessi creduto così profondamente non gli avrei dedicato due anni e mezzo della mia vita. Ne è valsa la pena.