A inizio anno è uscito Finding Paradise, l’atteso sequel del fortunato To The Moon. Tornano in azione i due dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui compito sarà ancora una volta quello di provare a esaudire l’ultimo desiderio di un uomo che sta per morire. In che modo? Entrando nella sua mente, esplorando i suoi ricordi e cambiando qualcosa: il passato non si può modificare, ma la memoria sì, e dunque c’è sempre la possibilità di far quantomeno credere a qualcuno di aver vissuto la vita che avrebbe voluto vivere.
In Finding Paradise il giocatore ha ben poco da fare, se non seguire l’evolversi della storia. Per fortuna si tratta di una storia ben scritta: evita facili eccessi di sentimentalismo, regala diversi momenti divertenti, approfondisce molti dei temi che affronta, e spiazza con un plot twist inserito al momento giusto. Proprio come farebbe un buon film, o un bel romanzo. Quella che segue è una chiacchierata con Kan Gao, perché non c’è modo migliore per entrare nel mondo di un videogioco che attraverso le parole di chi l’ha creato.
Ciao Kan. Puoi presentare te stesso e Freebird Games ai nostri lettori?
Eccoci. Mi chiamo Kan, sono lo sviluppatore e il compositore di Freebird Games, uno studio indie che realizza videogiochi narrativi. Probabilmente siamo conosciuti soprattutto per To The Moon e Finding Paradise, una serie che parla di due dottori che viaggiano attraverso i ricordi dei loro pazienti in punto di morte, allo scopo di esaudirne l’ultimo desiderio.
Il tuo gioco precedente, To The Moon, è stato un grande successo. Te lo aspettavi? Ha cambiato il modo in cui ti vedi all’interno dell’industria dei videogiochi?
No di certo; credo sia saggio non aspettarsi mai niente in un’industria di questo tipo, ci sono un sacco di fattori incontrollabili che possono fare in modo che qualcosa diventi importante. Speravo che la storia riuscisse a colpire, è ovvio, e sono grato del fatto che abbia raggiunto molta più gente di quanto avessi potuto immaginare, portandomi sotto i riflettori in un modo che mi ha costretto ad aprirmi di più come persona.
To The Moon, così come Finding Paradise, ha come protagonisti i dottori Eva Rosalene e Neil Watts, il cui lavoro consiste nel viaggiare tra i ricordi dei loro pazienti. Com’è nata questa idea?
Era un periodo nel quale pensavo molto alla mortalità, in parte per via del fatto che mio nonno era spesso malato e ricoverato in ospedale. Mi sono chiesto se avrei avuto dei rimpianti quando fosse venuto il mio momento, e cosa avrei fatto se avessi avuto la possibilità di tornare indietro e cambiare qualcosa. La storia dal punto di vista dei dottori alla fine ha preso spunto da questo.
Finding Paradise è un gioco a sé stante ma anche un sequel di To The Moon: avevi già previsto che la storia dei due dottori dovesse continuare, raccontando nuovi aspetti del loro lavoro?
Sì. Pensavo che l’impostazione della storia fosse molto adatta per una serie, per il modo in cui ogni singola storia si sviluppa, e ogni volta c’è una completa libertà di andare ad esplorare qualsiasi esperienza uno possa fare nella vita. Finding Paradise e To The Moon sono speciali, in ogni caso, nel senso che contengono le due facce della medaglia rappresentata da questa impostazione in modo profondo, e si completano a vicenda.
Nel frattempo hai fatto uscire A Bird Story, un breve gioco che ora sembra quasi un’anticipazione di Finding Paradise.
A Bird Story era un gioco non previsto, che ho realizzato più per me stesso che per il pubblico. A volte mi chiedo ancora se avrei dovuto pubblicarlo, ma sono contento che, anche se non tutti, molti lo abbiano apprezzato.
In Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Zygmunt Bauman ha scritto: “c’è sempre il sospetto che uno stia vivendo una menzogna o un errore; che qualcosa di essenziale sia stato tralasciato, perso, trascurato, non sperimentato o non esplorato; che un obbligo vitale nei confronti del nostro autentico sé sia stato ignorato, o che alcune occasioni di provare una felicità sconosciuta, completamente diversa da qualunque felicità già sperimentata, non siano state colte in tempo e siano ormai perse per sempre”. Pensi che siamo sempre più ossessionati dai rimorsi, dai rimpianti, dalle possibilità che non abbiamo colto e dalle vite che non abbiamo vissuto? E che in qualche modo i tuoi giochi abbiano intercettato un sentire profondo dei nostri giorni?
Penso che in senso stretto la felicità sia legata alla semplicità, e l’infelicità, insieme ai rimpianti e a tutto ciò che ne deriva, è legata alla complessità. Man mano che il mondo diventa più complicato e pieno di scelte e percorsi che confondono, avremo naturalmente più dubbi e affaticamento decisionale. Anche se Finding Paradise si occupa più direttamente del concetto umano di rimpianto, penso che entrambi i giochi parlino in realtà del desiderio di semplicità in mezzo al caos, qualcosa che forse anche molti di noi stanno cercando.
Tutti i tuoi giochi, anche i tuoi primi lavori, hanno la classica estetica dei RPG: è qualcosa che dipende solamente dal software che usi (RPG Maker XP) o ha anche a che vedere con i tuoi gusti come giocatore?
Probabilmente entrambi, come l’uovo e la gallina. Credo che, dato il tipo di giochi che scrivo, quel motore sia il più efficiente nel produrre qualcosa su cui posso avere un controllo completo, in ogni dettaglio. Inoltre, crescendo, i RPG sono stati il mio genere preferito, anche se non sono mai stato un grande estimatore delle parti di combattimento, ho sempre voluto solamente continuare la storia.
Ti sei anche occupato della colonna sonora di Finding Paradise: com’è stato scrivere sia la storia che le musiche che la accompagnano? Ti ispirano le colonne sonore dei film? C’è un brano, Kinda Like an Indie French Film, che mi ricorda il lavoro di Jean Constantin per I Quattocento Colpi, e ci sono anche altri riferimenti cinematografici nel gioco.
Mi aiuta molto quando sono bloccato! Quando non sono sicuro di come procedere con i dialoghi, ad esempio, scrivere la musica per quella scena crea l’atmosfera e i dialoghi diventano molto più facili—e vice versa. È come un buffer mentale per far venire fuori qualcosa prima in una lingua diversa, e questo aiuta molto. Per quanto riguarda l’ispirazione, sono un grande fan della musica sia per i film che per i videogiochi, da Yasunori Mitsuda ad Alan Silvestri. Parodie come Kinda Like a Indie French Film e Think Quietly sono sempre divertenti da fare.
I videogiochi si stanno prendendo sempre più spazio come medium adatto anche a raccontare semplicemente una storia. Penso a To The Moon e Finding Paradise, ma anche a Oxenfree, a Life Is Strange, ai titoli di Telltale Games. Sono storie interattive, in cui l’unica cosa che conta è la trama. È sorprendente che un’idea così tradizionale sia stata esplorata molto meno rispetto a concetti di game design avanzati come il roguelike o il tower defense. E tu hai già messo qualche pietra miliare su questo percorso.
Penso sia dovuto al fatto che, anche se è un concetto tradizionale, devia molto da quello che è stato il punto di partenza nell’uso del medium videoludico. E forse una parte della ragione per cui sta diventando sempre più prominente negli ultimi anni è che realizzare giochi è diventato più accessibile—per cui anche chi è più che altro uno scrittore, come me, può cimentarsi, laddove studi più grandi hanno molta meno libertà di prendersi rischi simili. Mi aspetto che il trend continui, in modo tale che i giochi diventino più diversificati senza che questo incida sul mercato dei giochi “tradizionali”, poiché ci sarebbero solo più videogiochi sia in termini di quantità che di tipo. Il che è fantastico, perché forse il nostro tipo preferito deve ancora essere fatto.
Quali sono i tuoi giochi preferiti di sempre, e quali tra le uscite più recenti?
La maggior parte dei miei preferiti sono in realtà giochi di ruolo cinesi con cui sono cresciuto e che non hanno mai avuto un rilascio internazionale, tra cui The Legend of Sword e Fairy and Tun Town. Anche la serie Mass Effect e Dragon Age: Origins sono nella lista. Ho anche avuto un debole per una particolare meccanica multi-personaggio di scelta dei dialoghi presente in Divinity: Original Sin, che dà una bella sensazione del tipo scrivi-la-tua-storia che non è presente nella maggior parte dei giochi di quel genere.