Una copertina non si giudica dal gioco

Su "The Art Of The Box" di Bitmap Books.

Vi è stato un tempo in cui i videogiochi e i cereali si somigliavano molto più rispetto ad ora: ad esempio, nessuno dei due poteva essere scaricato via internet, ma era necessario andare in un negozio per acquistarli. Entrambi si presentavano, di conseguenza, confezionati: erano cioè contenuti in una scatola che preannunciava le qualità del prodotto—qualità che erano poi, puntualmente, inferiori rispetto alle promesse. Per i cereali1L’esempio non è fatto a caso: con le sole scatole di cereali si possono ricostruire interi decenni della storia del packaging., e per tantissimi altri prodotti, si tratta di una tecnica commerciale: l’alimento rappresentato ha forme e colori esageratamente invitanti, e non a caso sulla scatola, da qualche parte, compare la scritta “presentazione di prodotto”, o “immagini a scopo dimostrativo”, o “l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto”.

Sulle scatole dei videogiochi queste scritte non c’erano, sia per via di un mercato ancora meno regolamentato a protezione del consumatore, sia perché in fondo sarebbe stato difficile ingannare qualcuno: era ovvio che la grafica del gioco sarebbe stata sensibilmente peggiore. Le illustrazioni non dovevano esagerare la qualità grafica di giochi obbligatoriamente fatti con una manciata di pixel: erano più che altro una guida all’immaginazione.

A venir presentati in questo modo furono per primi i giochi per Atari Video Computer System (Atari VCS), grazie a un’intuzione del fondatore Nolan Bushnell. Sarebbero dovuti passare molti anni però—quelli della crisi del 1983, della nuova crescita del settore, dell’esplosione delle nuove console domestiche e della diffusione capillare dei personal computer—perché arrivasse l’epoca d’oro delle illustrazioni sulle scatole di videogiochi: scatole di diverse dimensioni ma mediamente grandi, adatte a contenere manuali, floppy disk sempre più numerosi, eventuali gadget come una mappa. Molte di queste immagini sono diventate iconiche, e hanno svolto un ruolo decisivo nell’imprimere nella memoria collettiva personaggi e franchise che avrebbero continuato a prosperare per decenni, eppure poco è stato raccontanto degli illustratori a cui ne dobbiamo l’esistenza.

La prima operazione di una certa portata di cui sia a conoscenza è la mini-serie Video Game Box Art: The Stories Behind the Covers di Rob McCallum, uscita nel 2019, composta da otto episodi e mai rinnovata per una seconda stagione.

Lo scorso anno invece Bitmap Books ha pubblicato The Art Of The Box: volume prezioso non solo per le 26 biografie di altrettanti illustratori che hanno lavorato con publisher fondamentali come Ocean, Acclaim, Capcom o Konami, fino ad arrivare ai giorni nostri, ma anche e soprattutto per il largo spazio riservato ai loro lavori: con 350 immagini in 564 pagine, il libro è pieno di materiale raro e spesso difficilissimo da reperire persino in rete, almeno nella sue versione originale. I videogiochi infatti si trovarono presto nella situazione di doversi imporre in un mercato dove aumentava la competizione e diminuiva l’esposizione sugli scaffali, e sulle copertine iniziarono perciò a trovare sempre maggiore spazio loghi, adesivi e strilli di ogni genere, utili ad attirare l’attenzione2Ora, tornate a guardare l’immagine di copertina di questo articolo, e apprezzate quale piccolo colpo di genio sia stato applicare quei due sticker al libro, in alto a destra e in basso a sinistra (cosa che Bitmap Books naturalmente, e non a caso, non aveva mai fatto in precedenza)..

Si tratta di un fenomeno che ha riguardato soprattutto i mercati europeo e nordamericano, e solo marginalmente quello giapponese, ma resta il dato di fatto: tra il lavoro dell’illustratore e quel che ne resta sulla scatola può esserci a volte una distanza significativa. Farò qui un solo esempio, non perché sia il più eclatante ma perché riguarda una delle illustrazioni più iconiche nell’intera storia dei videogiochi: quella realizzata da Gerald Brom per DOOM II.

A colpire è per prima cosa quanta parte dell’immagine sia nascosta da altri elementi: il logo è enorme—e sembra sensato, considerato come DOOM sia persino oggi un nome di richiamo come pochi altri. In basso a sinistra, un bollino giallo avverte della presenza un contenuto speciale: il primo episodio del gioco originale; subito sotto, viene messo in bella evidenza il fatto che si tratti della versione su CD-ROM (il gioco venne pubblicato anche su cinque floppy disk); ancora sotto, l’elenco dei requisiti si sistema; subito a fianco, il logo di id Software; un basso a destra, invece di avverte che il gioco è consigliato dai 17 anni in su.

Si nota poi da subito l’utilizzo di una visuale dal basso, una scelta che—in pittura, in fotogafia, nel cinema—non viene mai fatta a caso: serve a guidare lo sguardo, indirizzandolo verso l’alto. In questo caso, il suo compito è far notare presto quanto sia possente il Cyberdemone che Doomguy, eroe senza volto e allora colto di spalle, si trova ad affrontare. Tornando poi in basso si possono scorgere alcuni scheletri, che ricordano: altri sono passati da quelle parti, e hanno avuto la peggio. Anche la scelta dei colori mira a evidenziare l’ostilità della situazione: il blu del cielo stellato notturno, reso ancor più scuro dai fumi che si alzano da terra, fa risaltare le principali fonti di luce: l’arma di Doomguy mentre la fuoco, e la lava del consueto scenario infernale di ogni capitolo del franchise.

Nonostante le qualità dell’immagine, non si può negare quale ruolo abbia ricoperto, per la sua fama, il legame diretto con un gioco come DOOM II. Le illustrazioni realizzate per i videogiochi trovano nei giochi stessi la ragione ultima della propria iconicità, o il limite che impedisce loro di raggiungerla. In questo senso, The Art Of The Box è anche un meraviglioso e nostalgico catalogo di immagini che non ce l’hanno fatta: non perché non belle, ma perché realizzate per giochi che non hanno riscosso il necessario successo. Sono tanti, a ben vedere, gli autori che non sembrano aver dato il meglio con le loro opere più famose.

Marc Ericksen, ad esempio, ha realizzato una quantità di splendide illustrazioni influenzate dalla pop art e dai fumetti americani, come quella, particolarmente riuscita, per lo shoot’em’up Guerrilla War di SNK (che pubblicò il gioco con il suo titolo originale, Guevara, solo il Giappone, temendo l’anticomunismo occidentale3In modalità cooperativa, il secondo personaggio giocabile era Fidel Castro!); ma la sua opera più nota, a causa dell’importanza del gioco, resterà sempre la pessima cover della versione americana di Mega Man 2—che, nonostante gli evidenti errori, frutto dei tempi di consegna strettissimi e delle scarse indicazioni fornite da Capcom USA, restituisce comunque tutto il fascino del suo stile.

Stephen Peringer, invece, è l’autore della copertina per la versione Game Boy di R-Type, vale a dire del disegno di uno dei boss più celebri di sempre per un titolo che è praticamente sinonimo di sparatutto a scorrimento: impossibile superarlo in iconicità. Chissà però se non avrebbe avuto uguale o maggiore fortuna la sua illustrazione per Déjà Vu, dal surrealismo deliziosamente magrittiano, se l’avesse realizzata per un gioco più noto.

Il libro di Bitmap Books, insomma, permette di ripercorrere e riscoprire interi pezzi della storia videoludica così come la conosciamo, e al contempo invita a immaginarne un’altra, nascosta tra i tratti e i colori di quelle copertine che, un tempo, erano la principale porta di ingresso ai mondi di qualsiasi videogioco.