Cat: Ti sei mai chiesto come fanno le farfalle a volare sotto la pioggia?
Mark: Mmh… forse non volano?
Cat: Esatto! Sono completamente impotenti davanti a una tale forza. Loro non fanno che nascondersi come meglio possono.
Mark: E se non trovano dove nascondersi?
Cat: Vengono… vengono ridotte a brandelli. A volte muoiono.
Durante l’adolescenza siamo tutti un po’ farfalle in balia delle gocce che cadono dal cielo. Per alcuni può essere una pioggerellina primaverile, per altri tempeste tropicali. Ho superato la fase adolescenziale da parecchio tempo e pur non rimpiangendo nulla di quel periodo, ogni tanto riaffiora qualche ricordo. Non in termini nostalgici, quanto hauntologici. Un passato che torna ad infestare il mio presente che si materializza sotto forma di videogiochi a tema coming of age. Scrive Simon Parkin sul New Yorker: “Abbiamo raggiunto un punto in cui i membri della prima generazione di persone che da bambini giocavano ai videogiochi a casa sono diventati abbastanza grandi da riflettere, dalla prospettiva della mezza età, su come questo mezzo possa aver influenzato o colorato le loro vite.”
I fantasmi che vengono a trovarmi sono molto furbi e sanno che per fare breccia nei meandri del mio cervello ormai avvezzo e navigato al richiamo nostalgico facile, devono utilizzare le modalità e le tecniche espressive di quando avevo quindici-sedici anni. Quindi sono fatti in pixel art sgranata invece che di grafica fotorealistica; si muovono a scatti e hanno espressioni facciali che rasentano l’immobilismo invece di animazioni fluide e mocap che catturano pure i raggrinzimenti delle rughe; utilizzano interfacce da point-and-click invece di complicati comandi su un joypad con decine di tasti e combinazioni; si sentono suoni lo-fi e modem gracchianti invece di orchestre sinfoniche; fanno uso di un raffinato storytelling al posto di un nerboruto gameplay. Se mai qualcuno dovesse chiedermi: “Quali sono secondo te i migliori tre videogiochi che parlano di coming of age?” non avrei dubbi sulla risposta.
A salire per primo su questo ipotetico podio è stato Perfect Tides di Meredith Gran (2022) che segue le vicende di un anno di vita di Mara, una quindicenne introversa e sognatrice che vive su un’isola in una piccola comunità di villeggiatura. L’ho amato per come cattura senza manierismi ma con profonda onestà, la verità dell’essere a cavallo tra i 15 e i 16 anni, con tutte le difficoltà tipiche: l’insicurezza sociale, la solitudine, la scoperta di sé e i complessi rapporti con amici e familiari. Mi ha avvicinato a Mara il fatto che anche io abbia vissuto la mia adolescenza in un piccolo paese con poche opportunità e la voglia di andare altrove.
Un anno dopo si è aggiunto Videoverse (2023) di Lucy Blundell, in arte Kinmoku. Anche qui siamo nei primi anni 2000 e impersoniamo Emmet, un adolescente appassionato di videogiochi che fa parte di una community online che si ritrova su una piattaforma chiamata appunto Videoverse. Se in Perfect Tides la protagonista si muoveva entro i confini limitati di un’isoletta, in Videoverse il campo d’azione si restringe ancora di più. Il protagonista è confinato la maggior parte del tempo dentro la propria cameretta ed interagisce quasi esclusivamente via chat. Ho subito empatizzato con Emmet naturalmente per il suo amore verso i videogiochi e per come è riuscito ad instaurare amicizie, sia online che nella vita reale, proprio intorno al suo hobby, cosa che ho fatto anche io durante la mia fase adolescenziale. Dei due titoli ho apprezzato soprattutto l’approccio da slice of life, senza nessun elemento fantastico o sovrannaturale (a differenza di A space for the unbound, Oxenfree o Embracelet che restano comunque ottimi giochi sul tema). Entrambi dipingono uno spaccato preciso di un determinato periodo storico, e di due adolescenti con un piede ancora nella fanciullezza e l’altro proteso verso la vita adulta.
Nel giugno di quest’anno a fare compagnia a Perfect Tides e Videoverse è arrivato Until Then. Pur essendo un gioco che parla di adolescenza e parte come uno slice of life, ci rendiamo presto conto che prende una direzione diversa. Innanzitutto è ambientato in un paese culturalmente e geograficamente distante dall’occidente o da quel Giappone ipersfruttato in termini videoludici e che comunque ammicca all’occidente. Siamo infatti nelle Filippine, alla fine del 2014.
Quindi una prima e importante novità, almeno per me, è stata proprio l’approccio a questo mondo nuovo, lontano da stereotipi tipicamente occidentali. Qualche esempio: le strade piene di spazzatura e i topi a cui si danno persino i nomi, i ventilatori a pale onnipresenti, i venditori di pulcini colorati, i cartelli che dicono di non sputare, i banchetti di cibo esotico e inusuale lungo le strade. Poi pur essendo una visual novel nuda e cruda introduce molti elementi ludici in termini di minigiochi (non sempre riuscitissimi) e di piccola esplorazione ed interazione da punta e clicca, che vanno a spezzare le lunghissime sessioni di lettura.
Altro elemento contraddistintivo, questa volta invece molto ben fatto, è l’uso del cellulare. Quando il protagonista apre il telefono (e lo prende solo nei momenti di noia, ad esempio in metropolitana o nel suo letto), deve rispondere ai messaggi nelle chat di gruppo, oppure a messaggi privati o alle email, o dare una sbirciatina ai social per mettere like o commentare. Queste interazioni apparentemente banali sono invece molto importanti perché portano a sbloccare dialoghi e ad interagire in maniera diversa con alcuni personaggi. Altro dettaglio che rende realistica ed immersiva l’esperienza è come Mark, questo il nome del protagonista, digita le risposte. Da bravo adolescente, prima di scrivere la frase che abbiamo scelto per suo conto, magari ci pensa due o tre volte e scrive altre cose, poi le cancella, le modifica, e solo alla fine invia la risposta giusta. E poi le chat sono piene di errori grammaticali, slang, faccine, ironia tipica degli adolescenti. Ma consiglio soprattutto, pur se non necessario ai fini del gioco, di leggere tutti gli articoli sul Cataclisma perché, secondo il mio modesto parere, è lì che ruota gran parte del significato del gioco e non sulle paturnie amorose adolescenziali di un gruppetto di studenti.
Il Cataclisma è un evento naturale di finzione che ha sconvolto il mondo e in particolare il nord delle Filippine. Tifoni, alluvioni e terremoti hanno causato vittime, feriti e sfollati. Ora non ci vuole uno scienziato a ricollegare questo evento puramente inventato a quello accaduto realmente a fine 2013 e che ricade sotto il nome di Tifone Haiyan. Perfino l’arco temporale coincide perché alcune studentesse superstiti nel gioco si trasferiscono nella capitale un anno dopo gli eventi del Cataclisma, quindi proprio a fine 2014. Ma procediamo con ordine e andiamo a conoscere il protagonista.
Mark Borja è uno studente sfaticato e svogliato, che si dimentica di fare i compiti assegnati e li fa la mattina nei dieci minuti prima di iniziare la lezione. Preferisce dormire, passare il tempo a grindare in stupidi MMO o chattare con sconosciuti sul cellulare (o almeno ci prova in quella che a parer mio è una delle sequenze più belle del gioco). Non ha la minima idea di cosa fare della sua vita. Mark è praticamente il me di trenta e più anni fa (senza cellulare però): anche io studiavo il minimo necessario e lo facevo nel tragitto che l’autobus impiegava dal mio paesello all’Istituto Tecnico Commerciale. I pomeriggi li passavo invece a costruire la mia città in Sim City sul mio Olivetti M24 o a incasellare tetramini sul mini schermo verde e nero del Gameboy.
Mark vive da solo in una casa troppo grande perché i genitori sono andati a lavorare all’estero per guadagnare di più e garantirgli, unico figlio, un futuro migliore del loro. Il padre elettricista, la mamma badante. Per fortuna Mark è circondato da amici, in particolare Cat e Ridel. Cat è una simpaticissima e amichevole ragazzina che porta sempre un paio di cuffie gialle al collo. È la confidente principale di Mark anche perché condividono una cotta per Nicole, la bellissima e intelligentissima capoclasse di cui in realtà sono innamorati quasi tutti. Ridel invece è l’artista della situazione, gira sempre con una macchina fotografica e vuole diventare un regista. Poi gravitano intorno a questo terzetto moltissimi altri personaggi, Ryan lo sportivo, Jun Jun il dormiglione, la stravagante Sofi, la cui nonna è in rianimazione, una coppia di pettegole che sparlano sulle presunte relazioni sentimentali degli studenti. Fino all’arrivo di due nuove studentesse sfollate dal nord, Kate e Nicole. Proprio quest’ultima sarà la scintilla che scatenerà tutta una serie di eventi.
Mi fermo qui. Non voglio approfondire nulla riguardo lo sviluppo della storia, ogni parola in più rovinerebbe l’esperienza. Dico solo che i dialoghi sono scritti benissimo, il titolo è incredibilmente localizzato in italiano, i personaggi sono ben caratterizzati e profondi (a volte pure troppo per essere dei quindicenni), la pixel art è deliziosa e mescola sapientemente 2D e 3D, il mondo di gioco è dettagliatissimo, sia quando siamo all’interno di edifici che nei meravigliosi panorami all’aperto, il sound design è strepitoso, la colonna sonora memorabile. I temi che va a trattare sono però piuttosto crudi e per fortuna è stato da poco introdotto un content warning interattivo che eventualmente avverte il giocatore sulle tematiche alle quali si potrebbe essere più sensibili.
Nelle circa 20 ore che servono per portare a termine Until Then ho sorriso, mi sono indignato, ho pianto, ho sperato, ho rivissuto un pezzetto della mia adolescenza. Abitando a ridosso dei Monti Sibillini nelle Marche, anche io ho sperimentato sulla mia pelle diversi terremoti quando ero uno studente delle superiori. Fortunatamente non abbiamo mai avuto gravissimi danni alla nostra casa, ma alcuni nostri vicini sono stati evacuati. So bene cosa significa convivere con una forza della natura davanti alla quale ci si sente impotenti.
Anche sulle teste dei protagonisti di Until Then aleggia sempre il Cataclisma. È una presenza costante, all’inizio solo accennata, ad esempio nelle immagini trasmesse da un televisore sullo sfondo, poi via via sempre più impattante. Dicevo nella prima parte di questo pezzo che vale la pena leggere tutti gli articoli di giornale sullo smartphone di Mark. Solo così ci si rende conto che pur nella drammatica situazione in cui imperversa il paese, il governo pensa a costruire un ponte pedonale da 15 milioni di pesos, a sperperare fondi per sviluppare un incrocio tra mango e banana, a riverniciare gli ospedali rimasti in piedi invece di ricostruire quelli distrutti, mentre milioni di persone sono senza casa e bivaccano in fatiscenti centri di accoglienza o costrette a trasferirsi altrove.
Quella che passa come una sottotraccia del gioco invece è una forte denuncia reale verso la corruzione imperante nel paese, verso i ritardi nel gestire l’emergenza lasciando le popolazioni più marginali in condizioni disperate e verso l’incompetenza dei politici che spesso vengono eletti solo perchè stelle del cinema o icone locali. Rischio di scadere in un luogo comune e nella retorica, ma in questo caso è più che mai vero che tutto il mondo è paese. Until Then, mascherato dietro una storia di formazione, è fondamentalmente un manifesto politico, un grido delle nuove generazioni stanche di vedere un paese già povero e devastato ripetutamente da eventi naturali, ridotto ancora peggio da un gruppo di politici incompetenti. Certo spetta a noi cambiare le cose, ma come cantava il buon Brunori:
Non sarò mai abbastanza cinico
da smettere di credere
che il mondo possa essere
migliore di com’è.
Ma non sarò neanche tanto stupido
da credere che il mondo
possa crescere se non parto da me.