Se vi capita di passare un po’ di tempo in libreria, avrete sicuramente notato che in Italia sono arrivati tantissimi libri sugli spiriti e sui fantasmi giapponesi. Questo interessamento verso le leggende e la mitologia giapponese è cresciuto in modo esponenziale ormai da qualche anno, proprio perché il Giappone è diventato sempre di più una meta ambita e raggiungibile da diverse persone.
Una ventina di anni fa quando, poco più che adolescente, ho iniziato a interessarmi alle storie dei fantasmi giapponesi e a Lafcadio Hearn (rara e preziosa testimonianza sulle storie di fantasmi giapponesi in lingua inglese arrivata sino a noi) trovavo sempre pochissimo materiale sul tema.
Da qualche anno sono riuscita a recuperare diverse storie sul folklore, sul paranormale e sulle leggende metropolitane giapponesi grazie a libri, graphic novels e videogiochi come Ghostwire: Tokyo, e la mia passione verso questo tipo di Giappone “oscuro” è aumentata sempre di più.
Proprio come le leggende metropolitane e folkloristiche italiane sono diverse e stratificate per regione (pensate alla fattucchiera chiamata anche masciara di Puglia e Sicilia o gli ammutadori, spiritelli della Sardegna), anche il Giappone ne ha tantissime.
Ma come mai sono disponibili tantissime opere giapponesi legate a questi temi? E come sono arrivate fino a noi?
Grande rilevanza a questi temi viene data dai tantissimi media che il Giappone esporta all’estero: videogiochi, anime e manga sono pregni di riferimenti alla cultura e alle leggende metropolitane giapponesi. Inoltre, il fascino per l’oriente e il suo esotismo fa sicuramente presa agli occhi degli occidentali.
Tante leggende sono arrivate ai giorni nostri grazie al racconto orale, tramandato per generazioni. Questa tradizione orale proviene dallo Hyakumonogatari kaidankai (Insieme di cento racconti fantastici), un gioco del Periodo Edo (1603 – 1868) molto in voga nel Sol Levante dei tempi antichi.
In cosa consisteva? Un gruppo di persone si riuniva a notte fonda in una stanza e accendeva cento candele. Dopodiché, i giocatori si mettevano in cerchio a raccontare delle storie di fantasmi, in giapponese chiamate kwaidan.
Ad ogni kwaidan raccontato, si spegneva una candela. La stanza diventava sempre più buia man mano che si raccontavano le storie. Dopo il centesimo racconto, allo spegnimento dell’ultima candela, arrivava—secondo la leggenda—un essere soprannaturale chiamato Aoandon pronto a spaventare i giocatori.

Le origini di questo gioco sono ignote, ma si pensa che sia stato inventato dai samurai come prova di coraggio. Intorno al periodo Edo, questa attività ludica corale era ad appannaggio degli aristocratici, dopodiché diventò popolare tra tutti i ceti sociali giapponesi.
Occorre dire, inoltre, che nello Shintoismo l’animismo è un concetto fondamentale che attribuisce uno spirito (o kami) a ogni elemento dell’universo, inclusi oggetti inanimati. Questa visione del mondo ha sviluppato profondamente credenze, storie e leggende riguardanti fantasmi e demoni all’interno della cultura giapponese.
Uno degli esempi più emblematici è rappresentato da uno yokai (uno spirito, in giapponese) chiamato Tsukumogami. Secondo la tradizione, quando un oggetto domestico raggiunge i cento anni di età, acquisisce uno spirito e diventa senziente, trasformandosi in Tsukumogami; se l’oggetto è stato trascurato o maltrattato durante la sua esistenza, può diventare uno spirito vendicativo causando disgrazie ai suoi proprietari.
Oltre agli yokai, nel folklore nipponico esistono anche gli yurei, spiriti dei defunti incapaci di trovare pace nell’aldilà. Secondo la tradizione, ogni persona possiede un’anima che, dopo la morte, attende i rituali funebri per potersi unire agli antenati. Se questi riti non vengono eseguiti correttamente o se la persona è morta in circostanze traumatiche, l’anima di un defunto può trasformarsi in yurei, rimanendo intrappolato nel mondo dei vivi.
Ritornando alle opere d’intrattenimento, tantissimi sono stati i tentativi di riportare queste mitologiche figure in anime, manga e videogiochi. Urban Myth Dissolution Center non è da meno: è una visual novel investigativa che si ispira proprio alle leggende metropolitane giapponesi (e non solo), sviluppata da Hakababunko e pubblicata da Shueisha Games. Il gioco segue le vicende di una giovane studentessa universitaria che si chiama Azami Fukurai, dotata—suo malgrado—dello strano potere della psicometria.
Occorre precisare che la psicometria presentata in Urban Myth Dissolution Center è diversa dalla materia che si studia nelle nostre facoltà di Psicologia: lì la psicometria è una branca della psicologia che si occupa di misurare aspetti elementari o complessi di attività psichica, comportamento e personalità; in breve, è un insieme di metodologie d’indagine che aiutano lo psicologo a tradurre i risultati di test psicologici. Qui, invece, la psicometria è la capacità di vedere echi del passato associato agli oggetti che vengono toccati.
Azami entra in contatto con Ayumu Meguriya, eccentrico direttore del centro, un’organizzazione che si occupa di investigazione e risoluzione di leggende metropolitane e fenomeni paranormali. Inizialmente, la giovane studentessa viene ingannata e costretta a unirsi al centro in un modo piuttosto bizzarro: dopo essersi seduta su una sedia maledetta, la distrugge involontariamente mentre la sta analizzando. A quel punto, Meguriya decide che dovrà ripagarla con una cifra esorbitante e l’unico modo per recuperare quella cifra è lavorare per il centro.
Già dall’incipit si capisce che il tono del gioco creato da Hakababunko è una commistione tra due generi: quello horror e quello umoristico. Tuttavia la storia è molto più profonda di quanto sembri all’inizio, e questo sarà chiaro man mano che si andrà avanti con gli episodi, in tutto sei e ognuno con una storia a sé stante.
La trama è ambientata ai giorni nostri, e non a caso i social media giocano un ruolo fondamentale nel gioco. Questo aspetto mi ha ricordato un po’ il sistema di rumors (pettegolezzi) all’interno di Persona 2, ovvero la capacità di trasformare le parole in realtà semplicemente diffondendole e portando le persone a crederci davvero.

La storia qui si sviluppa più o meno sulla base del medesimo concetto: il gioco pubblicato da Shueisha scava a fondo nel significato delle storie dell’orrore, esplorando temi come la percezione della realtà, la paura del misterioso e l’idea che il folklore urbano non sia solo una narrazione innocente, ma un potente strumento che può trasformarsi in qualcosa di più grande, finendo per plasmare la nostra realtà.
In Urban Myth Dissolution Center, il videogiocatore può usare i social per cercare più informazioni sulle leggende metropolitane, interagire con i content creators, gli influencer e persino raccogliere prove. Il direttore del centro trasforma ogni caso affrontato in un video disponibile su BooTube, sfruttando la viralità delle leggende per aumentare la popolarità dell’organizzazione.
Oltre l’uso dei social, il gameplay ricorda molto quanto visto in Ace Attorney Investigation, essendo in grado di unire gli aspetti tipici delle visual novel a quelli di giochi miratamente esplorativi. Il videogiocatore potrà esaminare luoghi alla ricerca di indizi, conversare con testimoni e sospettati al fine di ricostruire gli eventi, e toccare oggetti e percepire frammenti del loro passato grazie alla psicometria.
La grafica di Urban Myth Dissolution Center è una combinazione di pixel art e illustrazioni in stile anime; le scene investigative evocano un senso di inquietudine grazie a una palette cromatica dominata da toni scuri e sfumature di rosso; questa estetica retrò riporta alla mente le vecchie visual novel per PC-98 o titoli squisitamente anni ’90 come The Silver Case, visual novel investigativa nata dalla bizzarra mente di Goichi Suda.
Il gameplay è abbastanza semplice: le sezioni di interazione punta e clicca, in cui il giocatore interagisce con l’ambiente raccogliendo testimonianze o indizi, e facendo “fact checking” sui social, sono inizialmente interessanti ma—con il proseguire della storia—diventano ripetitive e perdono slancio. Inoltre, la struttura degli episodi è abbastanza statica, con colpi di scena che si concentrano solo nelle concitate fasi finali dell’esperienza.
Sin dal prologo ho avuto l’impressione di andare avanti col trial and error, gli errori non risultano punitivi per il giocatore, ogni tentativo è privo di rischi e questo diminuisce un po’ il senso di sfida all’interno dell’esperienza ludica nel suo complesso.
In fin dei conti, Urban Myth Dissolution Center è un titolo interessante che avrebbe potuto osare di più (soprattutto nelle fasi investigative). Può piacere ai videogiocatori che amano addentrarsi in storie di questo tipo e che ricordano altre visual novel simili ma molto più famose come Danganronpa o Ghost Trick.
L’obiettivo principe dell’opera creata da Hakababunko è raccontare e destrutturare le leggende metropolitane esplorando un luogo di confine tra mito e razionalità. Smontare le credenze popolari ci aiuta a guardare la realtà con occhio critico, però allo stesso tempo rischia di farci perdere la magia che contraddistingue il mistero e il fascino dell’ignoto.
Per quanto irrazionali, le leggende metropolitane fungono da scudo verso la brutalità della realtà, donandoci il beneficio del dubbio: è successo o no? Potrà mai accadere un qualcosa di così terribile? Non si sa, non si saprà mai, ed è proprio in questo limbo che le leggende vivono e sopravvivono per secoli e generazioni.