Un dreki attraversa il fiume Nene, nel cuore dell’antica Mercia. Avanza nel paesaggio d’autunno perpetuo e incantato della campagna inglese, mentre il piccolo equipaggio norreno messo insieme da Eivor e Sigurd si guarda attorno e commenta divertito: atteggiamento che cela forse un certo spaesamento. A qualche chilometro dall’accampamento dei Ragnarsson, che in Inghilterra si sono stabiliti da qualche tempo, Dag non può fare a meno di esprimersi sulle croci che a riva lasciano intuire la prossimità di un monastero. I vichinghi del clan del Corvo conoscono già, sebbene a grandi linee, le credenze dei sassoni. Com’è possibile, si chiede il guerriero Dag, che i cristiani adorino quel legno incrociato, simbolo della morte del loro unico dio? Meglio piuttosto il martello, che testimonia la potenza degli dèi norreni mentre già promette l’agognato Valhalla.
In tutta l’Inghilterra di Assassin’s Creed Valhalla abbondano i simboli. Emergono ibridati da una stratificazione di culti, etnie, clan, dinastie, battaglie perdute. Nel nostro sguardo sul passato tutto appare contemporaneo, perché ormai compromesso e caotico; la barbarie è a suo modo stabilità, certezza, persino civiltà.
Accanto alle rovine di templi romani si estendono i verdi pascoli degli angli e dei sassoni e si ergono i menhir dei culti celtici. Contadini assoldati dal thegn locale per difendere un fazzoletto di terra invocano Thor in battaglia e pregano Cristo prima di morire, ma hanno già lasciato quel po’ d’argento che possedevano al sicuro di un avvallamento carsico, come tributo a qualche antica divinità ctonia.
Lunden, l’antica Londra prima di Londra, l’accrocchio di strade e primi assi viari in pietra in cui si incontrano senza soluzione di continuità anfiteatri, mercati di spezie dal continente e mura di cinta medievali, è già multietnica—diremmo oggi. Al contempo è timorosa di esserlo: dappertutto si leggono inviti a difendersi dagli stranieri, a respingerli e a combatterli. Ma stranieri sono tutti, da quelle parti.
Nei pressi di un fiume non troppo lontano, su un’altura lieve circondata da case di fango, argilla e paglia, sta come un enorme cetaceo spiaggiato il Langhus, la casa lunga danese al cui interno si fa baldoria per l’ultima razzia portata a termine nei villaggi circostanti.
Nell’Inghilterra del IX secolo il diritto alla terra è diritto alla sopravvivenza. Nuda, cruda, brutale. A Quatford, nello Sciropescire confinante con l’attuale Galles, alcuni angli hanno messo in piedi un accampamento poco fuori da un villaggio danese. In fuga dai Britanni, vivono ora come profughi, costretti a chiedere la protezione dei nuovi invasori. Stretti tra due fuochi, gli angli temono il peggio—e lo avranno. Eivor infatti ha spiegato che, una volta giunti fin lì risalendo il Severn a bordo dei loro drekar, i norreni hanno lo stesso diritto degli angli di occupare quella contea. Nonostante anche i vichinghi abbiano razziato, ucciso e rubato nei villaggi degli angli trasformandoli in esuli, ora possono farsene carico e difenderli persino dai britanni.
Se la norma, in un mondo di costante mescolanza, è legata alla mera sopravvivenza, allora non può che essere provvisoria come i patti tra jarl e thegn, aldermanni, vescovi e sovrani di piccoli e instabili regni. Questi sovrani insieme santi, pazzi e sanguinari a seconda di chi li racconta: Sant’Alfredo per i cattolici, Alfredo il Grande per gli anglicani, fu il re Ælfred del Wessex che difese le coste inglesi dall’invasione della Grande Armata Danese.
In Valhalla siamo noi gli invasori. Siamo noi che prediamo, rubiamo, uccidiamo, stupriamo (questo no, per la verità, ultimo tabù persino nei videogiochi) e giudichiamo le credenze e i simboli altrui secondo il nostro sistema valoriale, che glorifica il clan e la creazione di saghe familiari, il martirio in battaglia, la perizia della navigazione, dell’esplorazione e del commercio, il senso d’avventura.
Di volta in volta, a contatto con i popoli delle terre invase, maneggiamo quelle che ai nostri occhi non possono che essere ridicole superstizioni, oppure scopriamo insperati punti di contatto tra universi di credenze lontane: e allora la misericordia può incontrare l’onore delle armi, la speranza il tradimento e la violenza la pace. Da europei, condividiamo con gli antichi norreni il sogno, ancora neppure sognato, di un continente esplorabile in ogni suo angolo più remoto e dunque unificabile non a dispetto, ma grazie alla barbarie.
Tuttavia, da occidentali contemporanei ci manca il gusto del riconoscimento del simbolo come riferimento culturale, come appiglio per l’incontro o lo scontro con il mistero che sono sempre gli altri, per la pace o il conflitto. Come puro suppellettile culturale, ridotto a elemento estetico/esotico da disincantata e mortifera conversazione tra soli pari (molto soli, poco pari), il simbolo non racconta più nulla, né di noi né degli altri. E così tanto l’incontro vero che il conflitto, sano o meno, sono polvere da nascondere sotto il tappeto, in una società igienizzata nelle forme e nei contenuti della comunicazione con l’altro, ripulita da ogni schizzo di sangue e fango che rischierebbe di ricordarci che no, l’altro non è sempre come lo vorremmo.
Se non fossero fin troppo ripetitivi e persino edulcorati (non sul versante del gore, che abbonda, ma come accennato della profondità: inverosimilmente, il clan di Eivor non uccide civili né stupra, mai, neppure per sbaglio) gli scontri rozzi e feroci con asce e martelli e lame d’ogni sorta in Valhalla rappresenterebbero l’estrema metafora di ciò che siamo come europei. Un continente che da troppo poco tempo ha conosciuto la pace, l’unità e un’idea di progresso più o meno condivisa, e che altrettanto in fretta ha voluto dimenticare su quanto odio reciproco e fiumi di sangue e budella strappate nel corpo a corpo sia stato edificato ciò che oggi pare così civile e pacifico da non poter essere neppure discusso, mentre è già messo fortemente in discussione poiché dato per scontato in quanto, appunto, occidentale, peculiare cioè di un tempo immobile perché eternamente contemporaneo.
Se c’è quindi un aspetto irresistibile in Valhalla (come in altri capitoli della serie Ubisoft, tralasciando gli elementi più stancamente sci-fi che continuano a caratterizzarla), è proprio la visione della storia come materia dinamica, in continua relazione con la contemporaneità, per cui nulla di civile è venuto dal cielo ma dallo sforzo insperato e congiunto di esseri umani sperduti ma ancora in grado di scegliere di incontrare l’altro quando potevano anche muovergli guerra. La storia come atto di comprensione che incide sul presente, non la memoria o la celebrazione vuota e retorica di fatti tanto lontani nel tempo da apparire accaduti su un altro pianeta.
Ma ogni videogioco, e in particolare ogni open world, è un pianeta a sé. Ha le sue regole fisiche, naturali e narrative, benché spesso derivate da altri titoli simili. Giunto con Eivor su una scogliera dell’antica Northumbria, dalle parti dell’attuale Newcastle upon Tyne, mi piove addosso. All’orizzonte, è tardo pomeriggio, vedo però il sereno oltre la nebbia di vapori sul Mare del Nord. Ai piedi della scogliera una spiaggia desolata, una languida distesa di sassi e sabbia bianca. Laggiù gabbiani e altri uccelli sembrano schiantarsi dolcemente sul pelo dell’acqua nel tentativo di acciuffare l’inconsapevole cheppia, che qui viene a riprodursi risalendo i corsi d’acqua dolce della zona.
È in questo momento che, stregato per l’ennesima volta dalla bellezza del paesaggio, ho l’impressione che potrei vivere in Valhalla per sempre, mentre so bene che questo è anche il suo limite principale proprio in quanto videogioco. Intendiamoci: non mi riferisco solo alla bellezza della resa tecnica dal paesaggio in sé, anzi abbastanza discontinua sulla mia vecchia PlayStation 4 con texture a volte molto grezze e elementi come alberi e rocce che appaiono e scompaiono, quanto alla bellezza che deriva dall’immersione, dalla sensazione di essere davvero lì—dato anche l’approfondimento della lore storica e l’appagamento che si riceve dal senso di esplorazione senza meta cui è possibile dedicarsi per molte ore nel gioco.
Il punto però sono proprio quelle molte ore. Nell’inseguire gli open world più recenti (e talvolta più riusciti) nella dimostrazione muscolare che anima spesso la competizione tra grandi produzioni, Valhalla ne incamera molti degli aspetti che dovrebbero ormai suonare come difetti conclamati del genere. E quindi eccoci in un mondo assai esteso in cui si può cacciare, pescare, ubriacarsi, incappare in missioni secondarie più o meno casuali, innamorarsi, curare i propri animali, espandere l’insediamento vichingo, andare a zonzo in cerca di tesori…
Da qui il senso di espansione infinita, che diluisce fin troppo e depotenzia il gameplay loop, le mille attività disponibili che si riducono a riempitivi tra una missione principale e l’altra, senza dimenticare l’eterno conflitto tra struttura open, relativamente libera, e natura comunque story driven del gioco, per cui da un lato la troppa esplorazione rischia di portare a scoprire prematuramente porzioni di mappa che la trama avrebbe svelato in seguito, e da un altro la storia principale—quella di Eivor—perde ritmo, inciampa in piccole incoerenze e buchi neri come in dialoghi e caratterizzazioni dei personaggi (anche fisiche, soprattutto nelle espressioni facciali) qui e lì decisamente più deboli.
Una storia, per quanto lunga e votata alla divagazione, è sempre un cerchio e un pellegrinaggio, la cui meta tutto sommato è nota fin dall’inizio e sempre apparentemente a portata, anche quando lontanissima. Dentro una storia, come nell’Odissea—e quella dell’esule Eivor è, a tutti gli effetti, una sanguinaria e malinconica odissea norrena—ce ne possono stare altre mille, e va bene pure perdere il senso di unità narrativa in alcuni momenti purché poi si torni al punto, anche solo per negarne con fermezza l’esistenza—il che è sempre tornare al punto.
In ogni caso ci vuole ritmo, ma se l’autore o gli autori cedono più o meno totalmente la direzione al giocatore tramite una struttura aperta per costituzione, allora il rischio è che il ritmo si smarrisca tra mille rivoli fino a far perdere ogni stimolo a proseguire nell’avventura. E così, padrone di questo ritmo ormai perduto e paralizzato da un vago senso d’infinitudine, me ne sto bloccato su questa scogliera in Northumbria, indeciso se tornare a una delle tante missioni principali di Valhalla, continuare a esplorarne la gigantesca mappa in libertà oppure, in ultima analisi, abbandonare definitivamente il gioco.
Mentre si offre come documento storico vivo e ulteriore strumento di comprensione della realtà, o al limite come genuina evasione verso uno spaziotempo diversamente inaccessibile, Valhalla mi chiede semplicemente di stargli attaccato come se il mio tempo, il mio spazio e la mia vita coincidessero completamente con la sua mappa e il suo ciclo giorno-notte, come se non ci fosse di meglio da fare al mondo che giocare un gioco Ubisoft—ma potrebbe trattarsi anche di Rockstar o CD Projekt RED, se parliamo di open world—e dimenticare il resto.
Ci chiederemo un giorno com’è stato possibile che videogiochi che potevano essere semplici opere perfettamente conchiuse si siano trasformati in alcuni tra i tanti strumenti di alienazione nel consumo a nostra disposizione all’inizio del XXI secolo. Intanto dalla scogliera mi accorgo che il tramonto sta scendendo sul Mare del Nord. Forse è lì in fondo all’orizzonte, la salvezza, dove le nebbie e i vapori si diradano e il confine estremo della mappa di Valhalla coincide fatalmente con l’idea che persino la sua spropositata esistenza digitale possa avere un termine.