Non succede spesso, ma ogni volta lascia il segno. Accade più facilmente, credo, quando si è molto giovani e si ha quel perfetto mix composto da una certa inesperienza e dalla giusta predisposizione d’animo. Capita, in questi casi, di trovarsi di fronte a qualcosa di totalmente inaspettato, e avvertire d’istinto il suo carattere decisivo e, allo stesso tempo, la sua improbabilità: bastano pochi istanti per rendersi conto che, da quel momento in poi, tutto sarà diverso, le regole saranno altre, il futuro prenderà una nuova direzione, e si resta increduli al solo pensiero. È quello che mi è successo nell’ottobre del 2000, pochi minuti dopo aver messo Kid A dei Radiohead nel mio stereo; è quello che mi era successo, meno di due anni prima, facendo partire per la prima volta Half-Life.
Il 1998 è stato un anno di enorme importanza nella storia dei videogiochi. In quel periodo iniziavano a emergere alcune nuove tendenze, tra cui quella di dare un sapore cinematografico alle produzioni videoludiche inserendo filmati di introduzione e cutscene, sfruttando lo spazio concesso dall’utilizzo dei CD-ROM. L’avvento dei DVD e delle forme distributive in digital delivery avrebbe in seguito tolto qualsiasi freno al loro utilizzo, ma già allora le cutscene erano croce e delizia dei giocatori: alcuni le apprezzavano per la maggiore qualità rispetto ai motori grafici dei giochi, altri le detestavano per via dell’interruzione del gameplay che ciascuna di esse rappresentava. I filmati introduttivi sotto questo profilo erano senz’altro più innocui, e di quegli anni sono rimaste celebri le introduzioni di Metal Gear Solid, di Starcraft e di tanti altri titoli; e poi c’è Half-Life, che fa caso a sé.
Il protagonista del gioco è Gordon Freeman: un fisico teoretico, dunque non il tipico eroe dei classici FPS degli anni ‘90. La sua stessa creazione fa ormai parte della complessa mitologia di Half-Life. Si racconta che dovesse prendere il nome da altri scienziati di fama, come il fisico Freeman Dyson e il matematico Jules Henri Poincaré, e che perciò si ragionasse intorno alla possibilità di chiamarlo Dyson Poincaré; la questione sarebbe stata poi risolta, come molte altre nel corso dello sviluppo del gioco, in pausa pranzo, dentro la macchina di Gabe Newell diretta verso il più vicino ristorante giapponese: Gordon Freeman sarebbe stato il nome giusto.
Nella sequenza introduttiva di Half-Life abbiamo Gordon Freeman a bordo di un convoglio che attraversa il centro di ricerca di Black Mesa (anche qui, vari tentativi prima di decidere il nome: Black Butte, Diablo Plains, Diablo Mesa…), diretto verso un laboratorio dove ad attenderlo ci sono altri scienziati. Scorrono i titoli di testa con i nomi dei vari sviluppatori e a prima vista sembra una delle tante introduzioni dal gusto cinematografico dei videogiochi fine anni ‘90; ma c’è una piccola, fondamentale differenza. In queste primissime fasi il giocatore ha già il controllo del suo alter ego, e quasi mai ne verrà privato nel corso del gioco. Può girarsi in qualsiasi direzione, e osservare gli ambienti che il convoglio attraversa. Un elemento di pura gioia.
In Bullshit Jobs, saggio recentemente tradotto in italiano, David Graeber, professore di antropologia presso la London School of Economics, cita un interessante studio:
Già nel 1901, lo psicologo tedesco Karl Groos aveva scoperto che i bambini piccoli esprimono una straordinaria felicità quando si rendono conto per la prima volta di poter provocare effetti prevedibili nella realtà circostante, abbastanza indipendentemente da quale sia l’effetto e dal fatto di poterlo interpretare come benefico per loro. Diciamo che si accorgono di poter spostare una matita muovendo a casaccio le loro braccia; realizzano poi di poter conseguire il medesimo risultato muovendosi di nuovo nello stesso modo. Ciò suscita manifestazioni di gioia assoluta. Groos ha coniato l’espressione «soddisfazione di essere la causa», ipotizzando che sia questo il fondamento del gioco, che egli considerava l’esercizio di facoltà per il semplice piacere di esercitarle.
La scoperta della “soddisfazione di essere la causa”, oltre a essere un buon argomento contro l’odiosa retorica dello “stare sul divano” che accompagna inevitabilmente qualsiasi discorso intorno alla proposta di un reddito universale di base, mi sembra descrivere bene l’esperienza del giocatore di fronte alla sequenza introduttiva di Half-Life che abbiamo descritto. Gli sviluppatori di Valve sono riusciti a creare atmosfera e immersione adottando una soluzione diametralmente opposta all’utilizzo dei filmati: hanno concesso al giocatore di controllare il protagonista di Half-Life fin dalle prime battute, trasformandolo così nel regista dell’introduzione stessa; e la meraviglia sta nella “soddisfazione di essere la causa” proprio quando meno ci si aspetta di averne facoltà.
L’enorme potenza di quell’introduzione risulta più chiara ancora in retrospettiva, dopo qualche ora di gioco, allorché si inizia a intuire come Half-Life rispetti un’aristotelica unità di luogo, e non ci sia dunque ragione alcuna per aspettarsi di abbandonare presto i laboratori di Black Mesa, trasformati ormai in un teatro degli orrori. Un esperimento fallito, forse a causa del sovraccarico di alcuni macchinari, apre infatti una porta verso una nuova dimensione, che creature orribili e decisamente ostili non perdono tempo ad attraversare. È questa premessa (ispirata dall’episodio The Borderland della serie televisiva anni ’60 The Outer Limits) a fare la fortuna di Half-Life.
L’errore tragico e fatale della scienza è forse il tema escatologico moderno per eccellenza. In Manuale dell’apocalisse Alok Jha ne esamina diverse varianti: il disastro biotecnologico, il disastro nanotecnologico, l’avvento dell’intelligenza artificiale, l’accidentale creazione di un buco nero sono tutti ipotetici scenari di distruzione del genere umano e dell’intero pianeta Terra. Collocarsi nel solco di un tema ormai così radicato nell’immaginario collettivo consente ad Half-Life di segnare una netta cesura rispetto alle carneficine di classici come Doom e Quake, e di inaugurare un nuovo tipo di FPS in cui il genere dello sparatutto viene messo al servizio di una narrazione.
Ma se Half-Life si può considerare il capostipite di un tipo di FPS più ragionato, maturo e riflessivo è merito anche di alcune scelte particolarmente brillanti capaci di esaltare questa componente narrativa: Valve ha saputo creare un mondo affascinante e credibile introducendo tante piccole innovazioni, tra le quali è possibile annoverare la stessa sequenza introduttiva, volte a fare in modo che ogni elemento del game design dia il suo contributo a immergere il giocatore nella storia. Se ne ha subito una dimostrazione incontrando i PNG (Personaggi Non Giocanti) e notando la loro inedita profondità. All’epoca negli sparatutto non era affatto scontato nemmeno che esistessero personaggi che non fossero nemici e dunque bersagli: in Half-Life gli scienziati di Black Mesa sono programmati per agire per conto loro e per reagire in modi diversi alle azioni del giocatore; si nascondono, parlano tra loro o al protagonista, lo aiutano aprendo delle porte, sono persino in grado di sentire gli odori.
Esattamente come i suoi colleghi, che vediamo morire in modi terrificanti, anche il protagonista viene colto impreparato dal precipitare degli eventi. Gordon Freeman non è un eroe tosto e pronto a tutto come Duke Nukem, e non è nemmeno un militare addestrato come il marine spaziale di Quake II; è un uomo comune che si trova improvvisamente nei guai e deve lottare per sopravvivere. Quando le cose si mettono male non ha armi per difendersi: inizialmente deve cavarsela con un piede di porco, la prima cosa utile che trova a terra. Nonostante l’ampio arsenale a cui il giocatore avrà accesso in seguito, è la geniale idea del piede di porco a restare iconica, tanto da tornare a essere la prima arma disponibile anche in Half-Life 2. Non a caso poi il gruppo di appassionati che ha realizzato Black Mesa, un remake del primo Half-Life, ha scelto di chiamarsi Crowbar Collective.
Lo stesso si può dire in merito ai puzzle ambientali presenti in molte aree del gioco, che non sono solamente funzionali a proporre una variazione nel classico gameplay degli sparatutto, ma sono la diretta conseguenza del fatto che i laboratori di Black Mesa cadono a pezzi, e per il giocatore diventa perciò logico e naturale doverli attraversare seguendo percorsi non convenzionali, sfruttando tubature, condotti di aerazione, canali d’acqua, detriti rocciosi.
PNG, armi sui generis, puzzle ambientali e profondità della storia sarebbero rimasti capisaldi per qualsiasi successivo sparatutto che avesse una certa ambizione: è così che si arriva a nuove grandiose creazioni come Bioshock e Prey, anche se continueranno naturalmente a uscire titoli old school come Serious Sam, o le stesse iterazioni di Doom. Valve invece proporrà ulteriori innovazioni in un secondo capitolo per poi abbandonare l’universo di Half-Life, dedicandosi a Steam e a progetti più redditizi e in linea con i trend del momento quali Counter-Strike (nato proprio come mod di Half-Life), Dota 2 e l’imminente Artifact. Del resto anche i Radiohead, dopo Kid A e il successivo Amnesiac sono tornati a sonorità più conservative. In entrambi i casi la prossima rivoluzione sarebbe stata compito di qualcun altro.