Se siete qui a leggere questo articolo, con molta probabilità potete essere inclusi in una cerchia—sempre più larga—di persone che, conclusa una sessione di gioco lunga in modo imbarazzante, hanno continuato a vivere in un mondo fantastico, in un mondo inesistente, nonostante abbiano spento lo schermo: è il cosiddetto “game transfer phenomena”. In questo periodo più che mai, a causa del distanziamento sociale, siamo pronti ad alimentare il nostro desiderio di immersione: quanto è bello svuotarsi della propria personalità e riempirsi d’altro, riempirsi di altri, per ore, qualcuno di migliore o peggiore, all’interno di una distopia o di un’utopia?
L’immersione non è semplicemente frutto di una visuale in prima persona, ma è un’esperienza graduale, che inizia con l’engagement (investimento di tempo, forze e attenzione nell’assimilazione delle meccaniche di gioco), passa per l’engrossment (o assorbimento, in cui siamo influenzati da ciò che succede in-game), per farsi poi totale quando sembra non ci sia alcuna mediazione tra ciò che ci accade e ciò che accade nel videogioco. Sono diversi i topic e gli spunti di riflessione che convergono nella domanda: “Giocare intensamente ai videogiochi in questo periodo storico può causare dipendenza, oppure è altro?”.
Indubbiamente ore e ore passate a concentrarsi su livelli o nemici causano una sensazione di alienazione molto intensa, difficoltà a ritornare alla realtà, una sorta di derealizzazione. Basti pensare che soprattutto in Cina e Sud Corea—e in molti altri stati—il governo, considerando l’utilizzo compulsivo ed eccessivo di videogiochi—ad esempio League of Legends e World of Warcraft—come un problema di pubblica sanità, ha ordinato la costruzione di istituti per la riabilitazione, soprattutto di adolescenti.
Proprio per tanti giovani—in particolar modo coloro che sono più deboli e fragili—è meno facile fronteggiare una dipendenza patologica da videogiochi, sia perché alleviano in molti casi una solitudine esistenziale che appare ai loro occhi ineludibile, sia perché permettono una contrazione o una dilatazione del tempo, per vivere più di notte e meno di giorno. Come la depressione può essere spesso associata all’isolamento volontario, essa può essere rintracciata anche nella dipendenza da videogiochi, insieme a deficit dell’attenzione, iperattività e disturbo ossessivo-compulsivo.
Dal 2013, tra l’altro, l’Internet Gaming Disorder è stato inserito nel DMS-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), nonostante la riluttanza di molti esperti dovuta al fatto che con il termine “dipendenza” in senso medico ci si riferiva primariamente a sostanze come l’alcol e il tabacco; nonostante ci siano somiglianze comprovate a livello neurologico tra l’abuso di sostanze tradizionali e l’abuso di videogiochi, etichettare un’abitudine in questo modo potrebbe “rendere patologico” qualcosa che generalmente è salutare e naturale come qualsiasi altra attività ludica1Is video game addiction really an addiction?: Adding video gaming to the list of recognized behavioral addictions could help millions in need. It could also pathologize a normal behavior and create a new stigma (da Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America Vol. 114, No. 17 (April 25, 2017), pp. 4268-4272)..
Sta di fatto che anche nei videogiochi, come nelle droghe, non è la “sostanza” a causare la perdita di controllo, ma il funzionamento dei neurotrasmettitori che rilasciano dopamina quando siamo soddisfatti, grazie al reward system. Attivando serialmente questo circuito complesso modifichiamo la connessione neuronale e diamo vita ad un’anticipazione della ricompensa—come nell’effetto di Pavlov—causando i sintomi dell’astinenza. Come sostiene Nora Volkow, psichiatra americana e direttrice del National Institute of Health: “Con le droghe, le persone si attivano quando vedono una siringa o uno spacciatore; nei videogiochi, questo input potrebbe essere l’euforia per un livello completato o il pianto di un nemico sconfitto”.
Sull’altra faccia della moneta, come scrive Claudio Cugliandro su Everyeye, l’OMS ha recentemente riconosciuto i videogiochi come strumento terapeutico contro lo stress e l’angoscia causati dall’isolamento. Dalla sua intervista con Alessandro Giardina (dottorando in cyberpsicologia clinica all’università di Losanna, e psicologo clinico specializzato in adolescenti, giovani e adulti, rete e videogiochi) emerge come nelle ultime settimane ci sia stata una variazione nella percezione del gioco, visto ora come un ambiente che permette l’interazione sociale senza preoccuparsi di un eventuale contagio: «Siamo passati dal virtuale che isola e dissocia, al virtuale come unico o principale luogo “virus-free” di incontro con gli altri». In un certo senso, è evidente come pure la collaborazione a progetti che sembrano improduttivi su un piano tangibile (ad esempio il proposito di alcuni utenti di ricreare su Minecraft la Terra in scala 1:1), sia una trasposizione della necessità tutta umana di lavorare.
E’ difficile quindi vederci semplicemente come schiavi di un mondo alternativo, incarnati nei nostri avatar. Quel che stiamo vivendo è complesso da definire, va declinato su ogni individuo, perché per molti sarà facile staccarsi dal proprio sé digitale e ritornare ad avere il proprio nome quando tutto sarà finito, per altri meno. Viene spontaneo pensare all’utilizzo intenso di videogiochi come “uno specchio di una realtà perduta”: che siano The Sims o Animal Crossing, sandbox che offrono la possibilità di creare dal nulla una vita parallela, oppure giochi competitivi, è chiaro il desiderio di soddisfare le human contact needs che tutti abbiamo, intensificatesi in questo periodo.
Possiamo cercare di sopperire a queste molteplici necessità tramite videogiochi che abbattono le barriere tra giocatori, rinchiuderci in un mondo virtuale o ancora rifugiarci in giochi che ci portano alla conclusione in poche ore, come nel tentativo di divorare pezzi di un’enciclopedia videoludica per recuperare il tempo che la routine frenetica ci ha rubato. Oppure, come scrive Amanda Hess su The New York Times, molti titoli della nostra infanzia possono attivare un “effetto nostalgia”, riportandoci ad una condizione di calma e serenità che, per lo meno in questo periodo, sembra un miraggio lontano.
In fin dei conti spetta inevitabilmente a noi: se ci sentiamo risucchiati dal vortice di colori e rewards, meglio allontanarsi da quel mondo capace di assorbirci durante e probabilmente dopo la quarantena; in caso contrario siamo pronti per un altro match a League of Legends.