In occasione dei saldi invernali di Steam ho speso 67 euro e cinquanta centesimi, acquistando 28 tra videogiochi e DLC. Ho infilato nella mia libreria titoli di ogni genere, tipo e anno, spesso raccolti in edizioni “collection” che sommavano allo sconto sui singoli pezzi un ulteriore sconto sul pacchetto. Ho acquistato Tomb Raider IV e V per il prezzo di un caffè ciascuno, nonostante ancora dovessi installare la terza avventura di Lara. Ho comprato Enclave (99 centesimi) perché da ragazzino ero fissato con la demo e ho speso un euro e mezzo anche per Vampire: The Masquerade – Redemption, un RPG suggeritomi da Steam che non avevo mai sentito nominare. Sì, magari fa schifo, ma costava meno di un pacchetto di Pastiglie Leone.
Al momento in cui scrivo i titoli qui sopra riposano nella mia lista con zero ore di gioco. Ho calcolato che, per gli stessi soldi di una copia fisica per PlayStation 4, mi sono assicurato 465 ore di gaming, che salirebbero a 982 se decidessi di completare tutti gli obiettivi secondari. Al ritmo attuale di un’ora al giorno, impiegherei dai 16 mesi ai tre anni per sfruttare a pieno il mio acquisto di gennaio. La qual cosa, francamente, non accadrà mai, perché in occasione dei saldi estivi, che sono cominciati ieri, 21 giugno, Valve ha polverizzato ancora una volta i prezzi e io continuerò questo accumulo senza senso con il magone al pensiero delle avventure digitali che non vivrò mai.
Chi possiede una console vive un’esperienza simile. Il marketplace di Xbox e gli store di Play Station e Nintendo sono pieni di offerte competitive e materiale scaricabile gratuitamente, a cui si aggiungono remastered e indie venduti a prezzo ribassato già al momento del lancio. Tutti i gamer hanno sbattuto il muso contro un fatto evidente: le riduzioni pazze delle piattaforme online hanno cambiato il significato dell’espressione “fare economia”. Prima, infatti, c’erano tanti titoli da giocare contro una quantità limitata di soldi per acquistarli. Oggi, invece, i titoli da giocare sono anche di più, ma a mancare è un’altra valuta: il tempo.
Prevedibilmente internet è pieno di tutorial e discussioni su come continuare a vivere tutelando il sacrosanto diritto a scollegarsi dalla realtà. Le guide più affidabili sono state scritte da Polygon e Kotaku. Tra quelli raccolti, alcuni consigli snaturano l’esperienza di gioco (ad esempio abbassare il grado di difficoltà), altri richiedono un’attitudine estrema e forse anche un po’ ridicola al multitasking (incollarsi allo schermo di un 3DS in ogni ritaglio di tempo possibile). Altri consigli, invece, suggeriscono che il tempo libero è limitato e i videogiochi sono tanti, ma esiste il modo di giocarli quasi tutti.
Qualcuno, al contrario, va dolorosamente escluso. Di recente ho acquistato Ark: Survival Evolved, che da solo avrebbe monopolizzato le mie partite per un intero anno (sono necessarie 755 ore per finirlo in co-op, tutti i calcoli li ho fatti con How Long To Beat). Dopo essermi accorto del monte ore che avrei dovuto accumulare defecando senza preavviso nei panni di un cavernicolo, ho chiesto un rimborso a Steam, che mi è stato negato. Magari posso ancora installare Ark e dare un assaggio al buffet, ma sedersi al tavolo per mangiare tutto quello che il menù ha da offrire è decisamente troppo impegnativo.
Tuttavia, anche rinunciando per sempre ai videogiochi totalizzanti rimane una foresta di titoli che non vediamo l’ora di esplorare. Forse non è una notizia che molti utenti non portano a termine i videogiochi che acquistano. Secondo una ricerca costruita sugli achievement degli iscritti a Steam, solo il 32 per cento di chi possiede Skyrim ha raggiunto l’ultima missione, così come meno della metà dei giocatori ha finito Batman: Arkham City, Portal, Mass Effect 3 e Borderlands. Lo stesso vale, presumibilmente, per chi gioca su console e per i cosiddetti “hardcore gamer”, quelli che acquistano un RPG poco accomodante come Pillars of Eternity: in effetti solo il 6 per cento di loro è riuscito a vedere il finale concepito dai ragazzi di Obsidian.
Le statistiche potrebbero suggerire il modo di adattarsi a un mercato dei videogiochi molto più accessibile rispetto a qualche anno fa. In questi giorni i nostri carrelli di Steam si riempiranno di indie fracassoni, triple A dagli sconfinati open world, prodotti da retrogaming e giochi misconosciuti acquistati per poche decine di centesimi. Non tutti questi titoli meritano la stessa attenzione, proprio come non tutti hanno lo stesso prezzo. Qualche giorno fa parlavo con un giornalista che ha scritto bellissime riflessioni sul cinema: mi ha detto che, da quando ci sono così tante serie tv, è lecito abbandonarne qualcuna prima dell’ultimo episodio.
Con i videogiochi è esattamente lo stesso. Un titolo che ci intratteneva da bambini va bene per un tuffo nel passato, quindi perché non farsi cullare dai ricordi per qualche giorno? Per pochi euro ne varrà comunque la pena. E quel tripla A di cui tutti parlano, bisogna completarlo o si può anche solo provare com’è? Magari vogliamo cimentarci con il gameplay di titoli che non sono nelle nostre corde, come gli ostici strategici di Paradox o gli RPG vecchio stampo in stile Pillars, senza spremerli fino all’ultimo achievement. Tra così tanti titoli è inevitabile ritagliarsi lo spazio per due, tre, quattro avventure in cui rivoltare ogni pietra per completare ogni obiettivo, accarezzando il perfezionismo connaturato a ogni hardcore gamer che si rispetti. Il resto può fare massa critica. In mancanza di una Stanza dello Spirito e del Tempo in cui esiliarsi, l’equilibrio tra i videogiochi e la vita lavorativa, sociale, sentimentale o familiare necessita un sacrificio. Che non consiste nel lasciare invenduto l’indie del momento appena disponibile per il prezzo di un cocktail. Ma nell’ammettere a noi stessi, fin da subito, che lo saluteremo dopo esserci concessi per due o tre giri di danza soltanto.