A torto o a ragione, una cosa che ho sempre cercato nelle avventure grafiche è il senso dell’umorismo. Sebbene alcuni ottimi punta-e-clicca ne abbiano saputo fare a meno, trovo che l’umorismo sia fondamentale per risolvere una contraddizione insita nel genere: da una parte sta infatti l’importanza di presentare una storia forte, e dunque probabilmente ispirata a qualche tema già conosciuto e ampiamente formalizzato, dall’altra la necessità di dover far procedere la narrazione per enigmi e puzzle da risolvere. Come fornire al giocatore il tipo di esperienza implicitamente promesso dal tema, se la storia dovrà forzatamente andare avanti a singhiozzi? L’umorismo risolve questo problema, perché riesce a ribaltare il tema in una sua parodia, oppure a relegarlo sullo sfondo, trasformandolo in una questione puramente estetica.
Il meccanismo risulterà forse più chiaro pensando a un paio di classici della LucasArts. Prendiamo in esame il caso di una storia piratesca: ci aspettiamo un grande senso di libertà, di scoperta e di (sprezzo del) pericolo, ma questo sembra materiale adatto più a un capitolo di Assassin’s Creed—come Black Flag—che a un punta-e-clicca; eppure Monkey Island è forse la serie di avventure grafiche più amata e famosa mai realizzata. Il senso dell’umorismo gioca un ruolo fondamentale: Guybrush Treepwood è un aspirante pirata, e come un bambino sogna esattamente tutte quelle cose lì, e tralasciando il significato che ciò assume alla luce del finale del secondo capitolo—uno dei più geniali dell’intera storia videoludica—è chiaro come le aspettative legate al tema piratesco possano venire completamente ricontestualizzate dal tono naïve e parodistico dell’opera di Ron Gilbert.
Allo stesso modo, da Indiana Jones è naturalmente lecito attendersi azione e combattimenti, non propriamente il punto di forza di un punta-e-clicca; perciò un gioco come Indiana Jones and the Fate of Atlantis si preoccupa soprattutto di ricostruire l’estetica legata alle peripezie del personaggio ideato da George Lucas, e in questo modo il suo aspetto, il suo carattere scanzonato e i suoi spostamenti in giro per il mondo alla ricerca di tesori perduti ci restituiscono molto di ciò che amiamo nei film d’avventura di cui è protagonista facendoci allo stesso tempo dimenticare tutto quel che manca. È un’operazione di equilibrismo molto più delicata di quanto possa a prima vista sembrare.
L’umorismo ha inoltre una funzione di alleggerimento che risulta evidente soprattutto quando il tema è per tradizione serioso. Una recente avventura grafica un po’ sottovalutata, Gibbous – A Cthulhu Adventure, prendeva cultisti e adoratori del male e li presentava in chiave comica; VirtuaVerse fa più o meno la stessa operazione con il cyberpunk, e mostra quanta leggerezza si possa conferire a una distopia proprio finendo con lo schierarsi, tra le due più memorabili interpretazioni punta-e-clicca del genere, con i toni tutto sommato spensierati di Beneath a Steel Sky di Revolution Software piuttosto che con la gravosità di Blade Runner di Westwood Studios. VirtuaVerse dunque usa l’estetica cyberpunk—le incessanti piogge acide, la realtà virtuale che trasforma la vita stessa in un’esperienza utente—senza pretendere di essere un gioco cyberpunk; e nell’alternanza tra toni comici e drammatici non a caso i primi sembrano sempre più ispirati, mentre i secondi risultano spesso didascalici, quasi fossero stati inseriti più in ossequio al tema che per reali necessità narrative o di world-building.
Theta Division—il team italo-tedesco che ha prodotto il gioco—va dunque a segno soprattutto nella misura in cui tradisce il tema cyberpunk, e nel farlo, seppur a corrente alternata, riesce a catturare e a restituire lo spirito dei classici del punta-e-clicca. VirtuaVerse del resto è un’opera apertamente nostalgica, piena d’amore e di rispetto per l’hardware e il software di una volta come pure per le avventure grafiche che l’hanno preceduta: forse eccede anche sotto questo aspetto, arrivando a dimostrare una certa intransigenza nel replicare non solo i punti di forza, ma anche i difetti dei vecchi classici, e a questo punto occorre parlare un po’ del livello di difficoltà delle avventure grafiche.
In VirtuaVerse mi sono trovato in più di un’occasione bloccato non già dal fatto di non sapere come risolvere un enigma, quanto dal non capire proprio quale fosse la prossima cosa da fare; o al contrario, mi è capitato di intuire di dover compiere una certa azione, ma senza riuscire a collegarla a un obiettivo da raggiungere (un esempio dalle prime fasi del gioco: rendere piccante il cibo di un NPC, ma perché?). Se questo accade perché il puzzle è progettato male lo si può giudicare solo a posteriori, una volta saputo quale fosse il risultato da ottenere, oltre alle azioni necessarie per conseguirlo, e in VirtuaVerse raramente ho avuto l’impressione che il difetto stesse nel design.
In fondo neanche le avventure della LucasArts avevano enigmi progettati male, nonostante spesso si potesse andare avanti solamente consultando una guida con le soluzioni: il problema stava invece nel dover, più che ragionare, entrare in sintonia con il pensiero di chi aveva realizzato il gioco. Uno dei più astrusi puzzle di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge—in molti se lo ricorderanno ancora oggi—ad esempio doveva essere risolto usando una scimmia su un idrante: conoscendo la lingua inglese, e sapendo che molti titoli all’epoca usavano giochi di parole purtroppo intraducibili, ed entrando nell’ordine di idee di dover ricostruire la ratio secondo cui era stato concepito l’enigma, poteva risultare tutto sommato abbastanza trasparente la richiesta di utilizzare una scimmia (“monkey”) come chiave inglese (“monkey wrench”).
Quando il giocatore non riesce a ricostruire la serie di passaggi necessaria a trovare tale sintonia e risolvere l’enigma, però, sono convinto che il gioco debba venirgli incontro. VirtuaVerse non fa molto in questo senso, perciò il rischio è quello di doverlo giocare per lunghi tratti proprio alla vecchia maniera: restando bloccati, salvando, uscendo dal gioco, andando a consultare una guida o un walkthrough oppure, seguendo un’apprezzabile tendenza emersa negli ultimi anni, una serie di suggerimenti spoiler-free, per poi tornare all’avventura pronti presto o tardi a ricominciare la trafila da capo.
Qui la fedeltà al gameplay dei classici non rende un buon servizio al giocatore, e in fin dei conti nemmeno al gioco: magari può essere divertente restare bloccati per un po’ in un titolo incentrato sull’esplorazione, ma non in un genere story-driven come un’avventura grafica, in cui la trama non può andare avanti e tutto quel che resta da fare è provare a usare ogni oggetto dell’inventario su tutto in una manciata di quadri (accompagnati dal dubbio tremendo di non averlo ancora nemmeno raccolto, l’oggetto giusto). Persino in un titolo come Thimbleweed Park, con cui Ron Gilbert è tornato in grande stile alle avventure grafiche senza fare troppe concessioni alla modernità—al punto da riproporre l’interfaccia SCUMM—è stato inserito un servizio telefonico di consigli e indizi disponibile in-game a discrezione del giocatore. Gli sviluppatori di VirtuaVerse potrebbero aggiungere una funzione simile, e non faticherebbero a trovarle posto all’interno del mondo di gioco, considerato quanto il tema fantascientifico sia un po’ una wild card da usare per fare qualunque cosa conservando una buona dose di coerenza1Basti pensare a come in Cyberpunk 2077 la macchina arriverà su richiesta, cioè allo stesso modo in cui in The Witcher 3 il cavallo Roach raggiungeva subito Geralt dopo essere stato richiamato con un fischio, in Night City però con la maggiore credibilità legata alla tecnologia coinvolta, laddove l’apparizione dell’animale in giro per le lande di Skellige o di Temeria aveva qualcosa di magico (su cui il gioco stesso ironizzava in una side-quest inclusa nell’espansione Blood and Wine).; rimedierebbero così all’unica pecca che impedisce a un gioco altrimenti curatissimo come VirtuaVerse di essere pienamente godibile.